1. Fatti e documenti
Il giorno da cui inizio, pur consapevole che la vicenda greca si trascina da più di cinque anni, è il 25 giugno 2015, quando il Consiglio Europeo riceve un’informazione sulla trattativa tra governo greco e Istituzioni, il nuovo nome della Troika, demandando a una ennesima riunione dell’Eurogruppo la definizione di un accordo per il terzo intervento di sostegno finanziario1. Nella notte del 25 giugno, il governo greco annuncia l’interruzione delle trattative dovute al suo No alle clausole predisposte dalle Istituzioni (UE, BCE, FMI), e l’indizione di un referendum popolare per il 5 luglio. Tsipras, in un discorso del 26 giugno, spiega che per sei mesi il governo greco ha condotto, pur in condizioni economiche asfissianti, una battaglia contro le Istituzioni mantenendo fede al mandato elettorale di porre fine all’austerità per giungere a un accordo sostenibile nel rispetto della democrazia e delle regole europee: “Noi non abbiamo mai preso in considerazione di cedere – neppure per un momento. Di tradire la vostra fiducia”. Tsipras respinge l’ultimatum dell’Eurogruppo perché mina le basi della democrazia, e perché, in particolare, “include misure di deregolamentazione ulteriore del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, altre riduzioni degli stipendi pubblici – così come un aumento dell’IVA su generi alimentari, ristoranti e turismo, eliminando le agevolazioni fiscali sulle isole greche”. Con queste forti parole e in nome del “rafforzamento della democrazia e della nostra sovranità nazionale”, il governo – annuncia Tsipras – ha deciso di indire il referendum “per rispondere all’ultimatum sulla base della volontà sovrana del popolo greco”2.
In una serie di comunicati e di conferenze stampa gli esponenti dell’UE rendono noto che il programma di assistenza finanziaria alla Grecia sarebbe terminato il 30 giugno e, alla stessa data, si sarebbe concluso il trasferimento dei profitti derivanti dal Securities Markets Programme. A causa di queste misure la Grecia non è stata in grado di restituire una tranche del debito contratto con l’FMI, andando incontro al rischio di default.
L’Eurogruppo, senza la partecipazione del ministro Varoufakis, il 26 giugno emette un comunicato, con cui si impegna a utilizzare tutti gli strumenti per garantire l’integrità e la stabilità dell’eurozona, con un invito alla BCE a proseguire la sua azione di sostegno alle banche greche, ormai limitata a fornire liquidità attraverso l’ELA (fino al tetto di 89 miliardi di euro).
Della dichiarazione di J. Dijsselbloem, rilasciata il 27 giugno, richiamo le affermazioni che, lungi dal rivelarsi fumo negli occhi per i mercati e per la controparte greca, rivelano la consapevole strategia di schiacciamento del governo greco. Durante la crisi finanziaria, dice il presidente dell’Eurogruppo, “sono state prese una serie di misure, che hanno rafforzato e approfondito la nostra cooperazione, e rafforzato la nostra unione monetaria […] siamo in una posizione molto più forte, certamente più di prima della crisi […], gli Stati membri dell’area dell’euro intendono utilizzare tutti gli strumenti disponibili per preservare l’integrità e la stabilità dell’area dell’euro”3.
Il 28 giugno la Commissione Europea faceva circolare il documento – denominato List – su cui era avvenuta la rottura e il suo presidente Junker, il giorno successivo, pronunciava un ampio discorso per influenzare gli elettori greci a votare Sì. I passi più significativi sono quelli in cui Junker sostiene che l’eventuale vittoria del No non potrà incidere sulle decisioni dell’UE perché “in Europa, nessuna democrazia vale più di un’altra. E nella zona euro ci sono 19 democrazie. Non una contro 18, e non 18 contro una. Per ciascuna democrazia, un voto è un voto, un popolo è un popolo, un cittadino preso individualmente è un cittadino”. Con questo erge un muro contro l’eventuale vittoria del No: l’UE non recederà dalle sue posizioni neppure dinnanzi a un pronunciamento diretto del popolo greco, che non viene più considerato sovrano. Junker per un verso afferma di non aver mai perseguito il Grexit, per l’altro avverte che non sa se alla fine sarà in grado di presentare una “proposta finale a una soluzione finale” per il problema greco. Di fatto evoca il Grexit, mentre dice di volerlo scongiurare. Il Gruppo di Bruxelles, altro nome della Troika, ha proposto un accordo in cui, a parere di Junker, non ci sarebbe nessun taglio ai salari, né alle pensioni, anzi si avrebbe una riduzione dei risparmi di 12 miliardi di euro, a fronte della richiesta della ‘riforma’ della contrattazione collettiva, della rimozione degli incentivi ai prepensionamenti, della cancellazione dei privilegi fiscali degli armatori, della lotta alla corruzione, e del taglio delle spese per la difesa.4
Nonostante le parole agrodolci di Junker, la lettura della List, è sufficiente per rendersi conto della pesantezza delle misure richieste: l’IVA al 23% come livello standard (inclusi ristoranti e catering); al 13 % per i prodotti alimentari, l’energia, gli hotel e l’acqua; al 6% per i medicinali, i libri e i teatri, eliminando completamente le agevolazioni per le attività economiche sulle isole. Nel campo fiscale, la List prevedeva l’eliminazione degli incentivi fiscali per gli agricoltori e i sussidi per il diesel consumato per i lavori agricoli, la ridefinizione delle curve delle aliquote, e ticket sui medicinali come primo passo per una radicale spending review dell’intero sistema di welfare. Per le pensioni si chiedeva di attuare la riforma del 2010 con l’introduzione del sistema contributivo per garantire la loro sostenibilità, il limite dei 67 anni per andare in pensione, e l’aumento dei contributi per la sanità dal 4% al 6% per i pensionati. Nel campo del lavoro si proponeva la ‘riforma’ della normativa dei licenziamenti collettivi, dell’agibilità sindacale, della contrattazione collettiva secondo le best practices europee, applicate anche nel nostro paese con il Jobs act. Non poteva mancare la liberalizzazione dei servizi professionali e dei trasporti, così come ritornano nella List le privatizzazioni degli aeroporti regionali e del vecchio aeroporto Hellenikon di Atene, al pari dei porti del Pireo e di Salonicco5. A ragione Tsipras ha rifiutato quest’accordo e contro di esso ha chiamato i cittadini al referendum, facendo una decisa e appassionata campagna portando alla vittoria il No, giunto al 61% dei voti.
Il 5 luglio, la sera stessa della vittoria referendaria, si è tenuta una riunione ad Atene al cui termine il ministro delle Finanze Varoufakis si è dimesso. L’immediata motivazione pubblica è stata di voler rendere più facile il cammino per raggiungere un buon accordo, togliendo di mezzo una figura che aveva suscitato forti contrarietà da parte gli interlocutori dell’Eurogruppo, a cominciare da Schäuble. Il vero senso di quelle dimissioni si è colto, però, quando è apparsa un’intervista di Varoufakis sul NewStatesman, concessa prima della conclusione del negoziato. Lì è esposto un disegno politico, di cui molto si è parlato e, come capita, poco lo si è letto nell’originale. Varoufakis introduce, non certo come orpello culturale, un elemento ‘filosofico’ affermando di non credere alle “versioni deterministiche della storia” e di ritenere possibile, data la forza di Syriza in Grecia, “gestire in modo appropriato un Grexit” come alternativa all’accordo proposto dalle Istituzioni. La creazione di un team – fra i suoi partecipanti c’era James Galbraight – per studiare le complesse e numerose mosse per il Grexit non significava la sua automatica attuazione, perché occorrevano scelte politiche in grado di coinvolgere e mobilitare l’intero paese, e il referendum poteva essere un passo in questa direzione. Per “preparare il paese bisognava prendere una decisione, e quella decisione non è mai stata presa”: il motivo delle dimissioni è stata la mancata scelta di preparare il Grexit, da brandire come arma nella trattativa che si sarebbe riaperta dopo il referendum. La sera del 5 luglio essa viene deposta. Varoufakis ribadisce che bisognava essere molto attenti a non attivare il Grexit per evitare una ‘profezia autoavverantisi’; però, non appena l’UE ha costretto la Grecia alla chiusura le banche, sostiene Varoufakis, “il processo andava rafforzato” perché senza di ciò, “tu finisci di negoziare”. Anzi, si sarebbero dovuti emettere IOU o annunciare l’emissione di una propria forma di liquidità denominata sempre in euro, tagliare la restituzione dei bonds del 2012 in mano alla BCE, prendere il controllo della Banca centrale greca.
Varoufakis ha proposto un piano B, come mezzo di pressione durante la trattativa con le Istituzioni, Tsipras lo ha rifiutato accettando le sue dimissioni6.
L’8 luglio al Parlamento Europeo, Tsipras rispondendo agli interventi ha respinto le accuse al governo di Syriza di avere in serbo un piano B: ‘Se la mia intenzione fosse stata che la Grecia dovesse lasciare l’euro, non avrei dato il giudizio sul risultato del referendum, interpretato non come mandato a rompere con l’Europa, ma come mandato a rafforzare lo sforzo negoziale per raggiungere un migliore accordo’. Quello stesso giorno, l’8 luglio, alle parole di Tsipras seguì un importante atto pubblico, formale, di Euclid Tsakalotos, il nuovo ministro delle Finanze: una lettera all’ESM con cui si chiedeva di mettere in moto le procedure per un nuovo piano di assistenza. Il governo di Syriza era ben consapevole che rivolgersi all’ESM avrebbe significato la definizione di un nuovo Memorandum of Understanding previsto dall’articolo 13 del suo Statuto. La lettera, infatti, domandava un sostegno per contrastare “il rischio alla stabilità finanziaria della Grecia come Stato e come membro dell’area euro”. Specificamente la Grecia chiedeva all’ESM un finanziamento per un periodo di tre anni impegnandosi “la Repubblica […] a un ampio insieme di riforme e misure da attuare nelle aree della sostenibilità fiscale, della stabilità finanziaria e della crescita economica di lungo periodo […] noi proponiamo un insieme di misure immediate a partire dalla prossima settimana che comprendono: riforme delle tasse, pensioni […], misure per modernizzare l’economia […]. Il governo greco proporrà al più tardi giovedì 9 luglio le sue proposte in dettaglio per una complessiva e specifica agenda di riforme […], la Grecia si impegna ad onorare le sue obbligazioni finanziarie verso tutti i suoi creditori in modo completo e secondo le scadenze […]. Ribadiamo l’impegno della Grecia a rimanere membro della zona Euro e a rispettare le norme e i regolamenti in quanto Stato membro”7.
Dunque l’8 luglio il governo greco esplicitamente e pubblicamente cambia strategia: non più il confronto duro con le Istituzioni, per non subire il terzo piano di austerità, ma la richiesta di negoziare un nuovo piano seguendo quelle regole che Tsipras aveva messo in discussione nella campagna elettorale prima e in quella referendaria poi. Inoltre, dalla lettera emerge la chiara volontà di accettare clausole e tempi che l’UE avrebbe deciso; infine va rimarcato che nella lettera non si parla di haircut del debito, che si vuole onorare in pieno.
L’UE, sotto la pressione di Schäuble, si preparavano alla fase finale della trattativa in ben altro modo, mettendo sul tavolo il piano A e il piano B. Questi sono riassunti in maniera secca nel documento predisposto dal Bundesfinanzministerium presentato formalmente il 10 luglio, dopo che da giorni la stampa ne aveva anticipato il contenuto.
2. Valutazioni
Per cinque mesi il governo greco è stato al tavolo delle trattative estremamente determinato, ed è sembrato che avesse intrapreso una strategia ispirata al ‘chicken game’, noto in italiano come il ‘gioco del coniglio’. Infatti, il governo greco ha affrontato a muso duro le controparti senza mostrare l’intenzione di deviare dal percorso stabilito, fino al punto da prevedere uno scontro se le Istituzioni non avessero ceduto: nel chicken game perde il guidatore che lanciata la macchina contro un’altra alla fine sterza per evitare l’urto. Anche le Istituzioni hanno seguito la stessa strategia di scontro senza mai mostrare l’intenzione di deviare dal proprio tragitto negoziale. Fino al 25 giugno, quando nella notte Tsipras propose il referendum, sembrava che la linea dello scontro rimanesse inalterata, per questo la maggior parte dei commentatori interpretò il referendum come una mossa volta a far sconfessare dal popolo greco il nuovo piano di austerità per trattare successivamente da posizioni di forza. Sulla base di un favorevole risultato referendario, si pensava, Tsipras avrebbe costretto le Istituzioni ad acconsentire alle richieste greche: la ristrutturazione del debito, la fine dell’austerità, e il rilancio degli investimenti per avviare un ciclo di sviluppo, condizione necessaria per rendere sostenibile lo stesso debito.
La sera stessa della straordinaria vittoria referendaria, il 5 luglio, ottenuta in base al rifiuto del piano presentato dalle Istituzioni, Varoufakis si dimetteva da ministro delle Finanze e Tsipras prometteva un accordo in 48 ore, anche per alleggerire la tensione provocata dalla chiusura delle banche che stava paralizzando la vita sociale ed economica del paese.
Le dimissioni di Varoufakis, le dichiarazioni dell’8 luglio e la lettera all’ESM sono stati i segni del mutamento di strategia negoziale: volendo utilizzare sempre la teoria dei giochi, si può dire che dal chicken game il governo di Syriza sia passato a quello denominato called bluff. Ė questo un gioco asimmetrico caratterizzato “dalla differenza fra la sensibilità (ossia la vulnerabilità) dei diversi attori rispetto al bisogno stesso della cooperazione. Il giocatore meno dipendente dall’azione cooperativa è in grado di scaricare i costi di quest’ultima sull’altro giocatore”10. L’UE, pur senza l’appoggio dell’FMI, che aveva richiesto la ristrutturazione del debito, ha dapprima seguito la strategia del chicken game andando verso l’urto frontale; successivamente, nonostante la vittoria dei No, ha avviato la strategia del called bluff – preannunciata da Junker nel discorso del 28 giugno – chiedendo ancora una volta al popolo greco di accollarsi i costi dell’austerità se voleva continuare a ‘cooperare’, rimanere cioè nell’area monetaria dell’euro. Nel Vertice del 12 luglio i governi dell’Eurozona non avevano la stessa urgenza del governo di Syriza di cooperare, essi potevano anche rompere. Perché hanno potuto cambiare strategia? Perché avevano due piani, quello di una nuova austerità, e quello che prevedeva il Grexit. I governi, con marginali distinguo, sono stati disposti a rischiare pur consapevoli che, in caso di Grexit, si sarebbero avventurati in una terra incognita (come sembra abbia detto Draghi).
Era la strategia di Schäuble, di fatto accettata da tutti i governi dell’UE, lucidamente descritta nel documento del 10 luglio dal Bundesfinanzministerium e perseguita con determinazione. L’UE aveva un piano A e un piano B, e ha utilizzato questo secondo per provocare un’asimmetria nei rapporti negoziali imponendo alla fine il piano A, da Tsipras stesso definito sbagliato e ingiusto. Piano che il governo greco ha accettato, ripudiando la ‘cacciata’ della Troika da Atene (avvenuta dopo la vittoria elettorale del 25 gennaio), e rinunciando al taglio del debito pur essendoci studi dell’FMI che mostrano l’insostenibilità del debito pubblico greco.
Tsipras doveva, era nell’assoluta necessità di accettare quel piano? Dice l’aforisma popolare che ‘la storia non si fa con i se’, ma i più raffinati intellettuali affermano che i ‘condizionali controfattuali’ aiutano a scoprire le possibilità dell’azione politica. Questa volta non c’è bisogno della logica modale per verificare se esistevano o meno altre strade. Un’altra via c’era e Varoufakis, ancora ministro delle Finanze, l’aveva indicata e ad essa aveva lavorato. Anche la Grecia doveva preparare un piano B e forte di esso poteva trattare con l’UE, facendo leva anche sulle posizioni dell’FMI. Ripeto: quelle di Varoufakis non erano speculazioni di un brillante docente di economia, erano scelte politiche che Tsipras e il governo di Syriza non hanno voluto seguire. Non hanno voluto, non che fossero nell’impossibilità. Avrebbero attraversato una terra incognita? Anche l’UE era disposta ad attraversare una terra incognita. La storia è una terra incognita, visto che non la si scrive prima degli accadimenti, ma contribuendo a farli accadere. Per questo Varoufakis, nell’intervista al NewStatesman, ha parlato di rifiuto del ‘determinismo storico’ avendo chiaro che lo spazio della politica è lo spazio delle scelte. Il governo di Syriza ha accettato la dittatura commissaria, volta a restaurare l’ordine del mercato unico, la disciplina fiscale richiesta dall’euro, e le ‘riforme’ per la modernizzazione capitalistica.
3. Ideologie
Michele Prospero ha tessuto le lodi dell’ideologia quale componente necessaria del pensiero politico, costituendo essa un catalogo di credenze capace di fornire validi schemi interpretativi dei conflitti, pur affermando un punto di vista semplificato e parziale11. Al contrario, a mio parere, le ideologie costituiscono dei ‘blocchi cognitivi’ che distorcono la realtà e che al più danno vita a narrazioni, il cui senso è percepibile solo nel chiuso di collettività autoreferenziali: le ideologie divengono il gergo che dà identità al prezzo del loro isolamento dal mondo. Il caso della crisi greca dimostra come gli stereotipi ideologici abbiano offuscato la percezione e la valutazione dei fatti.
Una menzione particolare spetta a Marco Bascetta che ha parlato di esibizione del “nazionalismo germanico sempre più disinibito e tracotante”, di una propaganda mediatica tedesca contro il “parassita’ greco, che si avvicina ‘al confine invalicabile” della dottrina razziale, segno di un’opinione pubblica tedesca ormai “bacino di sentimenti antieuropei”12. L’offuscamento ideologico ha portato Bascetta a scambiare i democristiani tedeschi con dei criptorazzisti, e così la realtà è stata cancellata. Cancellato il disegno europeo delle classi dirigenti tedesche, sia pure di un’Europa ordoliberale (come dopo meglio dirò), e cancellate sono le posizioni della Merkel: quella manifestatasi il 15 settembre 2014, quando, contro l’antisemitismo, affermò l’ebraismo come parte dell’identità tedesca; oppure quella contro Pegida, il movimento antislamico, per accreditare anche l’Islam come una componente dell’identità tedesca. Queste posizioni all’apparenza antitetiche sono rese possibili da una concezione laica delle istituzioni pubbliche, che garantisce il pluralismo delle credenze, come ben si evince dalla intervista della Merkel a B. Kohler13. Inoltre è opportuno ricordare che la Germania ospita 240mila rifugiati politici, il numero più alto in Europa. Solo un offuscamento ideologico consente di accusare il ‘nemico’ di tutte le nefandezze, anche di quelle non commesse.
Più nascosti anche se non meno virulenti sono gli ideologismi di esponenti della lista Tsipras – basta leggere i loro interventi su il manifesto nel mese di luglio – e del Partito della Sinistra Europea. La schema ripete quello di Bascetta: c’è un nemico e questo è la Germania, che, esercitando un’egemonia sull’UE grazie alle sue alleanze nordiche, ha dettato i termini dell’accordo del 12 luglio. Fino al referendum del 5 luglio contro il Golia tedesco si ergeva il David greco, dopo improvvisamente il David diventa una vittima sacrificale.
Qui si innesta un secondo stereotipo, quello per cui la sconfitta greca sarebbe dovuta solo ed esclusivamente al nemico, dipinto come talmente forte da essere imbattibile – Luciana Castellina ha ricordato che “i rapporti di forza contano”14, quasi che non avessero contato anche prima del 12 luglio, quando il governo di Syriza ha rifiutato gli accordi via via proposti. Secondo questa visione la sconfitta sarebbe da attribuire solo ed esclusivamente a elementi oggettivi, indipendenti dalla volontà e dalle scelte di Syriza, la cui strategia sarebbe nel complesso giusta.
Questo stereotipo è proprio del terzinternazionalismo: il partito non sbaglia mai, e se accade di essere sconfitti ciò lo si deve ‘ai rapporti di forza’, mai ad errori di valutazione e a scelte del partito. Si ripete il copione: Tsipras ha fatto scelte in generale giuste, le uniche possibili dati i rapporti di forza. Il governo greco è sì stato sconfitto, però – qui riemerge un altro stereotipo terzinternazionalista – il governo è salvo, dunque il potere e l’avvenire del popolo sono in mani sicure. Conta la sopravvivenza del governo, il potere nello Stato, non più la trasformazione della società. Ė l’assolutizzazione della difesa del governo, che diviene fine a sé stesso.
Lo stesso Tsipras ha partecipato al revival ideologico. In un’intervista radiofonica – che cito nella sua traduzione francese, apparsa su L’Humanité del 31 luglio 2015 –, nonostante la sua più volte dichiarata ammirazione per Togliatti e Berlinguer15, questa volta si richiama a Lenin, naturalmente allo scritto dedicato all’estremismo malattia infantile del comunismo, per polemizzare con gli oppositori dell’accordo del 12 luglio, da lui definito un “compromesso doloroso”. I compromessi – questo l’insegnamento di Lenin secondo Tsipras – fanno parte della tattica rivoluzionaria e aver ceduto a chi, come un bandito, ti chiede di dare la borsa o di morire, il governo greco ha scelto di vivere per continuare a combattere. Le sinistre estreme sbagliano a criticarlo perché non prendono atto che il compromesso è parte della ‘realtà politica’. Il realismo, la politica come arte del possibile, è però una lezione che viene da Togliatti, il quale con la ‘svolta di Salerno’ fece accettare al suo partito l’accordo con Badoglio e con la monarchia, e da Berlinguer, il quale con il ‘compromesso storico’ siglò un patto con l’avversario storico del PCI, la DC. Realismo contro estremismo, il regno del possibile contro le utopie: è una narrazione che si snoda lungo tutta la storia dei partiti comunisti venuti spesso a patti con le forze politiche avversarie, causa non ultima del loro crollo che, con essi, ha sotterrato purtroppo l’intera sinistra.
Un altro effetto, tipico dell’ideologia terzinternazionalista è la trasfigurazione carismatica del leader. Il leader è il garante della ‘linea’, la guida sicura e illuminata del cammino del partito, può commettere al più errori marginali, rimanendo pur sempre colui che lo ha portato alla vittoria. I sostenitori ad oltranza di Tsipras hanno tollerato l’alleanza con la destra dei Greci Indipendenti, per ottenere una maggioranza anti-austerità in Parlamento, giustificano oggi l’accettazione delle stesse politiche di austerità imposte ai precedenti governi di Papandreou e di Samaras, in nome della difesa del governo. I fatti non contano più, ha il sopravvento la narrazione ideologica.
La descrizione degli avvenimenti da me proposta mette in evidenza non gli errori, piuttosto la mancata volontà, la mancata scelta di incamminarsi nella ‘terra ignota’, denunciando i Trattati e avviando l’uscita dall’euro.
Non molto diversi sono gli ingredienti ideologici delle posizioni degli esponenti del Partito della Sinistra Europea. Gregor Gysy, il 15 luglio, ha dichiarato che se deputato in Grecia avrebbe votato Sì all’accordo, ma al Bundestag avrebbe votato No per esprimere la sua opposizione netta al diktat imposto dal governo tedesco, che aveva seguito una ‘linea antidemocratica, antisociale e antieuropea’. Gysy concludeva: “Noi non abbiamo bisogno di un’Europa tedesca, ma di una Germania europea”. Risuona dunque la polemica contro una Germania egemone che persegue i suoi interessi nazionali16. Analoghi gli accenti di Pierre Laurent, presidente del Partito della Sinistra Europea, che parla di misure draconiane imposte da una Germania dalle ‘pratiche colonialiste’17. Dunque le scelte fatte da Tsipras vengono difese perché miravano a mantenere la Grecia nell’euro contro coloro che la volevano espellere, e la colpa del nuovo piano di austerità e del commissariamento politico vengono addebitate alla Germania.
La CES si è schierata con la Grecia, ha criticato l’UE e la Germania, sempre mantenendo fermi quale punti di riferimento l’UE e il dialogo sociale. In una lettera aperta del 7 luglio la CES ha interpretato il voto referendario come un no all’austerità, non contro l’euro, auspicando un ‘compromesso ragionevole’. Bernadette Ségol, segretaria generale della CES, si è spinta fino a chiedere la ristrutturazione del debito in modo da evitare la fuoriuscita della Grecia dall’euro. Analoga richiesta è stata avanzata dalla CGIL in un ordine del giorno approvato dal suo Direttivo nazionale, il 7 luglio. La CGIL chiedeva la ‘condivisione su scala europea di una parte del debito dei singoli Stati, insieme alla creazione di un fondo europeo per lo sviluppo e gli investimenti finanziato con l’emissione di titoli europei e con i proventi di una tassa patrimoniale sulle grandi ricchezze e sulla rendita improduttiva’, proponendo ‘una Conferenza sul debito europeo’.
Questa della CGIL è stata, a mia conoscenza, l’unica proposta di livello europeo, rimanendo però lettera morta, e soprattutto restando nell’ambito rigidamente delimitato dalle istituzioni e dalle normative comunitarie.
Ė mancata una visione europea del conflitto tra UE e Grecia e una strategia europea, transnazionale. Da parte delle forze politiche e sindacali citate, ci si è limitati alla solidarietà alla Grecia e all’attacco alla Germania, come se si trattasse di uno scontro tra nazioni. Il governo di Syriza si è mosso seguendo lo stesso schema di scontro tra Grecia e Germania, uno scontro tra Stati. Non sono state proposte né un’iniziativa per una significativa manifestazione a Bruxelles o a Francoforte, né una conferenza europea per discutere di politiche alternative a quelle dell’UE – tranne quella, sia pur limitata, della CGIL. Lo scontro è stato asimmetrico soprattutto perché sindacati della CES e Partito della Sinistra Europea – in questi anni in forte sintonia –, così come il governo di Syriza si sono mossi entro spazi nazionali, mentre le classi dirigenti europee, innanzitutto quelle tedesche, hanno agito in uno spazio sovranazionale, europeo. A evidenziarlo è il fatto che al tavolo delle trattative di fronte alla Grecia c’erano gli organi sovranazionali dell’UE.
Inoltre, la classe dirigente tedesca accusata di perseguire miopi interessi nazionali è guidata invece da una strategia e una visione europee, certo di un’Europa ordoliberale comunque di respiro sovranazionale. Non serve richiamare Adenauer, Erhard, Hallstein o Kohl, basta un solo recente riferimento per dimostrarlo: l’intervista di Karl Lamers a Die Zeit. Nel 1994 Lamers scrisse con Schäuble le Tesi in cui si proponeva un’Europa a più velocità, con un nucleo di paesi proiettati verso l’integrazione politica ed istituzionale oltre che economica, mentre una fascia di altri paesi sarebbe stata partecipe del mercato unico. Lamers, nell’intervista, ribadisce la tesi centrale del 1994 secondo cui lo Stato nazionale è ‘un guscio vuoto’ e la rafforza dicendo: “Non c’è più nessuna sovranità puramente nazionale, e l’UE è il tentativo di costruire una nuova forma di organizzazione del potere politico […] già Karl Marx – ‘Proletari di tutto il mondo unitevi!’ – era consapevole che il principio territoriale era superato e che erano necessarie organizzazioni sovranazionali”. L’orizzonte dei democristiani tedeschi non è più nazionale tanto meno nazionalistico: “Si deve pensare in più grandi ambiti spaziotemporali [..] e in Europa dobbiamo andare avanti senza tirarci sulla testa la copertura nazionale”18. Che questa Europa manchi di legittimità non spaventa Lamers che si appella all’output democracy, secondo cui essa si commisura sui risultati dell’azione pubblica, come si farebbe con un ‘benevolo dittatore’. Che questa Europa sia di natura ordoliberale, impegnata cioè a costruire istituzioni di e per l’economia di mercato, che prescrive le sue regole senza intervenire nelle sue dinamiche, non toglie nulla al fatto che la visione delle classi dirigenti tedesche vada oltre lo Stato-nazione muovendosi in spazi sovranazionali19.
Questa dimensione di livello europeo manca alle forze e ai movimenti di sinistra, e questo è stato ed è il limite di Syriza: la mancanza di un progetto europeo e di una pratica europeista.
Schäuble e Lamers, per citare due nomi simbolo, e naturalmente Merkel e Weidmann non parlano solo per la borghesia tedesca, parlano per interi settori della borghesia transnazionale europea.
Interpretare le dinamiche dell’UE secondo lo schema di una ‘Germania europeizzata’ o di una ‘Europa germanizzata’ è una semplificazione, basato sulle categorie della sovranità nazionale e dell’intergovernamentalismo, elementi che certo continuano a svolgere un ruolo ma senza più il peso determinante avuto fino al Trattato di Maastricht e all’introduzione dell’euro. Ritenere che la dinamica politico-sociale dell’UE sia il prodotto dei rapporti tra governi degli Stati membri, i quali difenderebbero gli interessi nazionali significa commettere lo stesso errore commesso da Tsipras, che ha impostato la trattativa in un confronto tra Stati nella speranza di trovare dei varchi nei differenti interessi nazionali. L’UE non è un’unione di Stati, è un monstrum istituzionale, per riprendere il giudizio di Pufendorf sul Sacro Romano Impero20, mosso da forze transnazionali e sovranazionali. Le forze transnazionali sono le forze delle classi borghesi industriali e finanziarie dei paesi membri; quelle sovranazionali sono le istituzioni dell’UE – Commissione, Consiglio, Consiglio Europeo, la BCE, l’ESM e le altre decine di agenzie di regolamentazione dell’economia di mercato.
Per dare un’idea dell’interconnessione tra le classi specificamente industriali basta richiamare alcuni indicatori della Banca dati Made in the World (OECD e WTO), in particolare quelli sul Value Added. Da questi risulta che negli ultimi 20 anni la manifattura dell’UE si è riorganizzata intorno alle filiere produttive tedesche fino a configurare un tessuto produttivo interconnesso a tal punto che nel corso degli anni Duemila il valore aggiunto dell’industria tedesca di origine francese oscilla tra l’8% e il 10%; quello di origine italiana tra il 6% e il 7%; il valore aggiunto dell’industria francese di origine italiana è tra il 7% e l’8,5%, mentre quello di origine tedesca ha toccato il livello del 15%; il valore aggiunto dell’industria italiana di origine tedesca è fra il 13% e il 16 %, quello di origine francese fra il 7,5% e il 12%. Bastano questi dati, a cui si possono aggiungere i fenomeni di massiccia delocalizzazione nei paesi dell’Est dell’UE, per rendere evidente le strette relazioni tra i sistemi produttivi in ambito UE che superano i confini delle singole nazioni potendosi parlare di intere filiere produttive transnazionali21.
Il carattere sovranazionale delle istituzioni UE e della devoluzione di poteri sovrani verso l’UE, a cominciare dal governo della moneta, si sono accentuati negli ultimi anni con l’introduzione del Semestre europeo (con i regolamenti del Six Pack e del Two Pack), e del Fiscal Compact. Con la devoluzione delle decisioni di bilancio, delle entrate e delle spese pubbliche, si è spostato il potere fiscale verso le istituzioni UE: si è così compiuta una svolta rispetto al paradigma del no taxation without representation. Ora i cittadini sono sottoposti al potere fiscale senza che i loro rappresentanti abbiano voce nella determinazione del bilancio pubblico. Ė la fine della democrazia rappresentativa. Ora con l’Unione Bancaria, con il meccanismo unico di risoluzione delle crisi bancarie e il sistema di sorveglianza affidata alla BCE, è avvenuta un’ulteriore concentrazione del potere questa volta verso Francoforte. Sono questi poteri che vanno delegittimati.
Contro questo monstrum, la cui configurazione non segue le linee dello Stato-nazione pur esercitando atti sovrani22, non si è finora condotta una lotta di dimensione europea. Il Memorandum of Understanding del 12 agosto è la trasposizione in clausole stringenti della Dichiarazione del Vertice euro del 12 luglio, ed è il risultato dell’innesco del ‘pilota automatico’, che ancora una volta ha trasformato un governo democraticamente eletto in un’austerity governance commissariata dall’UE, e Syriza da partito di lotta in una sinistra di governo.
Ciò è stato causato anche dalla mancata mobilitazione politica e sociale su scala europea intorno ad un progetto europeo. Syriza, a sua volta, pur avendo elaborato fin dal 2011 proposte di riforma – quali la mutualizzazione del debito, l’emissione di eurobonds, la ripresa degli investimenti per una trasformazione socialmente ed ecologicamente sostenibile, insomma quello che è stato definito un New Deal europeo23 –, non le ha neppure presentate come base di una mobilitazione di massa. Così il confronto è rimasto tra Grecia e UE, e i popoli europei sono stati spettatori di un match impari, impari fin dall’inizio e non solo nelle ultime 48 ore di trattative. Né la CES né il Partito della Sinistra Europea hanno presentato un piano d’azione sovranazionale. Inoltre, questo il limite più grave, non si è neppure avviata una discussione sulle modalità e i tempi della necessaria denuncia dei Trattati europei per porre fine all’UE, e sui processi politici necessari per un’Assemblea costituente che porti alla Costituzione della Unione federale. L’altra Europa non nascerà per evoluzione dell’UE, solo dalla sua rottura.
NOTE
1. l’inizio della crisi greca può farsi risalire al 26 ottobre 2009 quando G. Papandreou rivela che i precedenti governi avevano falsato i dati dei bilanci pubblici; tra le innumerevoli ricostruzioni si può leggere quella sintetica quanto precisa di L. F. Pace in Il debito sovrano tra tutela del credito e salvaguardia della funzione dello Stato, a cura di M. R. Mauro e F. Pernazza, Napoli 2014, pp.207-252;
2. i discorsi, i comunicati stampa, e tutte le posizioni ufficiali di Alexis Tsipras si trovano sul sito www.primeminister.gov.gr/english;
3. i documenti relativi all’Eurogruppo sono rinvenibili su www.consilium.europa/eu/council-eu/eurogroup;
4. il discorso di Junker è rinvenibile in ec.europa.eu/news/index_eu.htm#Speech|1;
5. la List è in attachment al comunicato stampa della Commissione del 28 giugno http://ec.europa.eu/index_en.htm;
6. l’intervista, pubblicata il 13 luglio, ma concessa prima della conclusione delle trattative, è rinvenibile su www.newstatesman.com; molti sono stati gli articoli di Varoufakis su tale questione, mi limito a segnalare quello su Die Zeit, 16 luglio 2015, pp. 38-39, e quello su Il Sole 24 Ore, 30 luglio 2015, p. 6; inoltre tutti i suoi interventi sulla crisi greca si trovano su yanisvaroufakis.eu;
7. l’intera documentazione sulla Grecia, compresa la lettera dell’8 luglio, è consultabile sul sito dell’ESM, http://www.esm.europa.eu/, dove esiste un’apposita sezione;
8. il testo è stato pubblicato da Sven Giegold, parlamentare europeo su via@sven giegold; una conferma del Grexit è offerta da P. C. Padoan nel discorso alla Camera del 29 luglio: ‘l’opzione di uscita anche se temporanea, è stata seriamente presa in considerazione’, anche se evitata risparmiando pesanti ricadute sociali ed economiche, (www.camera.it, Resoconti stenografici, seduta del 29 luglio 2015, pp. 74 e 77);
9. il testo dello Statement in inglese è su www. Consilium.europa.eu/en/european-council/euro-summit; la traduzione in italiano è in Allegato al Dossier n. 231 del Servizio Studi del Senato, www.senato.it;
10. V. K. Aggarval – C. Dupont, Collaborazione e coordinamento nell’economia globale, in John Ravenhill, Economia politica globale, Milano 2013, pp. 87-88;
11. il manifesto, 21 luglio 2015, p. 15;
12. il manifesto, 14 luglio, pp. 4-5;
13. l’intervista su R.it, 17 gennaio 2015;
14. si veda l’articolo su il manifesto, 17 luglio;
15 . T. A. Synghellakis, Alexis Tsipras, La mia Sinistra, Roma 2015, pp. 89-90 e 117;
16. il testo su http://www.die-linke.de/nc/presse/presseerklaerungen/presseerklaerungen/;
17. intervista all’Humanité, 16 luglio 2015;
18. Die Zeit, 23 luglio 2015, p. 40;
19. condivido la tesi di A. Somma di una sostanziale identità divedute tra Hayek e l’ordoliberalismo – dato che ambedue esaltano il meccanismo concorrenziale in quanto organismo di ‘direzione politica’, e prevedono forme minime di redistribuzione del reddito ‘per produrre la pacificazione sociale’ –, e il suo giudizio sul progetto europeo come ‘credo ordoliberale’ essendo il mercato unico il centro di riferimento, v. Il debito sovrano cit., pp. 154-155;
20. Pufendorf definì monstrum il Sacro Romano Impero per la sua forma di Stato irregolare, di ‘Systema foederatarum rerumpublicarum’, v. M. Stolleis, Storia del diritto pubblico in Germania, Milano 2008, p. 290;
21. in base a questi dati Paolo Bricco parla di un’Europa progressivamente diventata un corpo unico strutturato intorno al sistema produttivo tedesco, Il Sole24ore, 15 luglio, p.5;
22. Tolek Petch definisce gli atti dell’UE acta jure imperii, v. Legal Implications of the Euro Zone Crisis, The Netherlands 2014, p. 131;
23. si vedano gli atti della Conferenza sulla crisi del debito in Europa pubblicati con il titolo The Political Economy of Public Debt and Austerity in the EU, edited by E. Papadopoulou and G. Sakellaridis, Athens 2012, con interventi tra gli altri di Tsakalotos, Toporowski, Bellofiore, Varoufakis, e le conclusioni di Tsipras.
* Ross@
Il presente contributo è stato pubblicato anche su Alternative per il socialismo nr.37
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