E’ stata recentemente pubblicata in Spagna un’interessante conversazione tra la politologa Chantal Mouffe e il dirigente di Podemos Íñigo Errejón con il titolo Costruire il popolo (Construir Pueblo – Icaria Editorial) dove si manifesta una rinnovata attenzione per il concetto di populismo e per la sua possibile declinazione a sinistra. La base di riferimento del confronto è costituita sia dal lavoro della politologa belga con il suo compagno Ernesto Laclau, scomparso qualche anno fa, “Egemonia e strategia socialista. Verso una radicalizzazione della democrazia” del 1985, che l’opera di Laclau del 2005, “La ragione populista” (pubblicata nel 2008 in Italia da Laterza), che costituisce il tentativo più strutturato di riabilitare il populismo come “modo di costruzione del politico” per chi vuole combattere e superare il capitalismo.
L’eco di questa discussione fatica ad arrivare in Italia, anche se qualche settimana fa è comparso un articolo firmato da Christian Raimo (Perché c’è bisogno di un populismo di sinistra – 5 ottobre 2015 – www.internazionale.it) che ha il merito di provare a riportare qui da noi la discussione sul populismo, provando ad interrompere l’abitudine consolidata di utilizzarlo soltanto come termine per denigrare posizioni politiche che richiamano al coinvolgimento del popolo nell’arena politica.
Solitamente quando si definisce una formazione politica con l’appellativo di populista è perché se ne vuole demarcare il carattere non democratico, di forte identificazione con un leader carismatico e con la tendenza alla semplificazione del messaggio politico, destinato a contrapporre il popolo ad una élite oligarchica o corrotta. Tuttavia nel corso del secolo scorso le esperienze politiche classificate come populiste sono state talmente tante e fortemente eterogenee tra loro da rendere quasi inutilizzabile il termine stesso, troppo spesso adottato per descrivere fenomeni ed esperienze molto diverse tra loro. Oggi, per esempio, c’è in Europa un proliferare di populismi prevalentemente di destra, alla Le Pen, anche se cominciano a comparire (o almeno ad essere considerate tali) anche esperienze di sinistra come Syriza o Podemos o il più recente nuovo leader del Labour Jeremy Corbyn.
In Italia si è parlato di populismo a proposito di Berlusconi ed ora anche di Renzi, se ne parla per descrivere la Lega Nord, sia quella che era di Bossi che l’attuale di Salvini, e si usa il termine per definire il Movimento 5 Stelle. In realtà le esperienze dove più è stata utilizzata la definizione di populismo appartengono alla storia dell’America Latina, dove la figura del caudillo e l’irruzione del popolo sulla scena politica hanno costellato l’evoluzione del continente durante tutto il secolo scorso ed ancora dopo il 2000 anche i processi rivoluzionari in Venezuela, in Bolivia o in Ecuador vengono descritti come esperienze populiste, soprattutto da parte di quella sinistra che non riesce o forse non vuole interpretarli in modo più lucido.
Cosa c’è però di interessante nella ripresa del dibattito in Europa sul populismo? Innanzitutto la presa d’atto che i movimenti populisti si producono quando un sistema politico entra in crisi, quando un sistema di consenso perde la capacità di tenere unita la società, quando cioè si sgretola il blocco sociale che è riuscito a governare fino a quel momento e i normali canali della rappresentanza non funzionano più. Spesso si è attribuito al populismo la caratteristica di prodursi in quei paesi dove lo Stato è meno strutturato e i corpi intermedi sono più deboli e diradati. Proprio la debolezza delle forme di organizzazione sociale intermedia avrebbero reso più facile il ricorso alla costruzione del “popolo” come unità organica e quindi favorito l’emergere di forti movimenti populisti in quelle latitudini. Ma oggi in Europa non stiamo forse assistendo ad una crisi verticale di legittimazione dei sistemi politici e ad un contemporaneo indebolimento dei corpi intermedi della società? Partiti e sindacati hanno perduto molta della loro antica capacità di organizzazione e di rappresentazione della società e settori sociali sempre più grandi restano ormai senza rappresentanza.
Non siamo in presenza di uno Stato debole in Europa, anzi. Assistiamo ad un continuo rafforzamento dei vincoli europei che obbligano sempre più il sistema amministrativo e tutto il meccanismo decisionale all’interno di condizioni e procedure stringenti. Lo Stato è forte ed ha aumentato i sistemi di controllo sulla società. E’ vero però che c’è una crisi nella capacità di costruzione del consenso, che ampi settori sociali sono fuori dal sistema della rappresentanza e che la tenuta del regime politico è a rischio. Il dato si avverte soprattutto nei paesi mediterranei, i famosi PIIGS, dove stanno emergendo formazioni che contrastano i diktat della UE, e in molti casi non si tratta di partiti di destra.
Proprio l’emergere di condizioni storiche che sembrano spiegare e favorire l’affermazione di formazioni politiche ispirate dal populismo rende di particolare interesse l’interpretazione originale di Laclau, che analizza il populismo come un modo di costruzione dell’azione politica, particolarmente adatto all’era contemporanea. La frammentazione sociale e la riduzione del peso specifico della classe operaia delle grandi fabbriche all’interno del blocco storico anticapitalista (qui il riferimento alle categorie di Gramsci è esplicito) renderebbero la “costruzione del popolo” l’unico modo efficace di agire la politica.
Laclau avanza una interpretazione originale di Gramsci e dei suoi concetti di egemonia, di blocco storico e di guerra di posizione, per affermare una visione non essenzialista del “politico”. Non ci sarebbe secondo Laclau nessuna relazione diretta tra condizione sociale e posizione politica, ma la politica sarebbe sempre il frutto di un’attività soggettiva di costruzione di un Noi da contrapporre a un Loro, grazie anche alla capacità di definire parole d’ordine che raccolgono e sintetizzano le tante rivendicazioni parziali che scaturiscono dai conflitti nella società.
In Italia però questo dibattito non è mai arrivato, o è rimasto confinato dentro circoli molto ristretti di addetti ai lavori. Non è difficile capire perché. Il populismo comporta per lo meno due caratteristiche che la sinistra italiana ha perduto da tempo: la radicalità delle posizioni e l’individuazione del nemico. Una abitudine consolidata ad agire in ambienti contigui al potere ha compromesso da tempo la sinistra, impedendogli di utilizzare il linguaggio semplice e radicale della verità. E l’ambiguità delle proposte ha reso sempre più sfumato il concetto di nemico o anche solo di avversario. Per anni abbiamo sorbito l’antiberlusconismo come specchietto per le allodole di una sinistra che strategicamente riproponeva la stessa logica della destra liberista. Venuto meno l’avversario di comodo, abbiamo scoperto con Renzi che ormai il re è nudo.
Parlare di populismo presuppone pertanto una attitudine alla rottura, una predisposizione a concepire il cambiamento non come l’effetto di un gioco di mediazioni ma come l’esito di un moltiplicarsi di conflitti che riescano a mandare in crisi assetti di potere e sistemi di controllo.
Ma la discussione sul populismo può avere un ulteriore effetto benefico qui da noi. Costringere la sinistra sociale diffusa, sparpagliata in mille rivoli ma attiva su tanti fronti sociali e territoriali, a misurarsi con il problema della proposta generale, con l’ambizione del cambiamento di sistema. La “costruzione del popolo” di cui si parla in Europa, cioè di quel Noi sufficientemente ampio da abbracciare l’insieme delle tante rivendicazioni particolari senza ridursi alla classica “lista della spesa” è il tema che ci rimbalza in casa dai nostri vicini. Un Noi che abbia subito ben definito dove sono i confini per riconoscersi al suo interno e che permetta pertanto di individuare con chiarezza il fuori, tutti quelli che non fanno parte del popolo, i Loro, quelli da combattere senza se e senza ma.
L’assenza di una proposta populista di sinistra in Italia la stiamo pagando da tempo con l’assenza tout court della sinistra. Un atteggiamento elitista, incapace di parlare alla pancia del paese, che si riflette anche in una inadeguatezza complessiva dell’attivismo di sinistra a stare tra le persone con una proposta generale. Siamo bravi, in sostanza, a difendere le mille cause particolari ma abbiamo perso la capacità di parlare di futuro. Di costruire un campo e di scatenare una lotta generale, una lotta nella quale sia chiaro che l’esito non può che essere o Noi o Loro.
La costruzione del popolo potrebbe risultare un esercizio efficace per un mondo abituato ai distinguo, alle divisioni, alla litigiosità. E’ la costruzione del campo, del nostro campo, l’oggetto da cui partire. Declinare quel Noi e quel Loro la prima strettoia ineludibile da cui passare.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa