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Turchia, perché Erdogan ha stravinto il voto della paura

Perché Erdogan ha stravinto? Questo è il voto della paura, si era detto alla vigilia: la paura seminata da attentati terroristici senza precedenti nella storia della Turchia, come quello del 10 ottobre ad Ankara con oltre 100 morti, ma anche i timori per l’affermazione del movimento curdo che aspira all’autonomia di una parte tormentata del Paese già in conflitto, ai confini bollenti di una Siria in disgregazione da dove arrivano ogni giorno senza sosta migliaia di profughi: oltre 2 milioni solo in Turchia. Ha fatto leva sulla paura diffusa di vedere la destabilizzazione contagiare anche la repubblica fondata da Kemal Ataturk che attanaglia non soltanto i sostenitori del partito islamico Akp ma i turchi in generale.
Ha fatto credere, a torto o a ragione, che la Turchia versa in stato di emergenza, che è sotto attacco: dentro da parte delle strutture “parallele” dell’ex amico l’Imam Fetullah Gulen e della guerriglia curda del Pkk: fuori dalla minaccia che si possa creare ai suoi confini uno stato curdo sulle macerie della Siria, che lui stesso ha destabilizzato facendo passare migliaia di jihadisti anti-regime, compresi quelli che si sono poi arruolati con il Califfato.
Erdogan ha saputo sfruttare queste paure indicando la sua ricetta: un uomo solo al comando e un partito solo al governo per evitare coalizioni, esecutivi deboli e inefficaci. La democrazia turca è ancora troppo giovane per non cedere alle scorciatoie proposte dall’uomo forte. Abile quindi a spaccare il Paese su fronti contrapposti ma anche a intimidire gli avversari e a riunificarlo sotto l’egida di un raìs dai tratti sempre più mediorientali e sempre meno europei, come dimostrano gli attacchi proditori alla stampa d’opposizione.
Non è stato l’Islam la chiave dalla sua vittoria ma puntare sul nazionalismo, sulla difesa della Turchia: per questo ha drenato voti alla destra dell’Mhp e dei Lupi Grigi, puniti anche dal fatto di avere respinto, dopo le elezioni del 7 giugno scorso, il programma di una colazione con l’Akp del premier Ahmet Davutoglu. Ma perde velocità e consensi anche l’Hdp dell’astro nascente Salahettin Demirtas: il suo messaggio per una democrazia inclusiva e progressista questa volta non è andato oltre l’Anatolia del Sud Est. Mentre al partito repubblicano Chp resta il ruolo di eterno secondo: ha una leadership assai poco carismatica e un programma politico che non esce dai confini del settore laico e kemalista.
Ma tutto questo non basta a spiegare perché è ancora lui il “Sultano”. Recep Tayyp Erdogan, 61 anni, è di Kasimpasa, un quartiere popolare di Istanbul, dove da giovane per mantenersi vende ciambelle e limonate, giocando ala destra tra i semiprofessionisti fino alla laurea in economia e commercio. Ma allora era già entrato nel movimento nazionalista religioso di Necmettin Erbakan che poi da primo ministro verrà esautorato da un “golpe bianco” dei generali. Nel ‘94 diventa sindaco di Istanbul, quattro anni dopo è incarcerato per incitamento all’odio religioso ma nel 2002 consuma la sua prima rivincita aggiudicandosi le elezioni politiche che l’Akp, evoluzione moderata del partito islamico Refah di Erbakan: dominerà per 13 anni con l maggioranza assoluta. I laici lo temono, l’Europa esita ad accettare le richieste di Ankara di aderire all’Unione: ma Erdogan innesca la maggiore ascesa economica e sociale di un Paese musulmano senza petrolio e gas.
Nell’ascesa economica di questa Turchia _ che per altro si è notevolmente affievolita _ c’è anche la chiave sociale del suo successo politico. Erdogan, che nel 2014 diventa anche il primo presidente eletto nella storia repubblica turca con voto popolare diretto, è stato colui che ha rappresentato meglio di chiunque altro l’affermazione della media e piccola borghesia conservatrice musulmana dell’Anatolia, di quella gran parte del Paese per decenni esclusa dai kemalisti dalle stanze del potere. Difficile per questa Turchia popolare, trasformata dall’Akp in nuovi ceti affluenti, voltargli le spalle. Nonostante la crisi, il deprezzamento della lira, l’inflazione, Erdogan rimane il simbolo di una sorta di peronismo all’islamica, qui chiamato “Erdoganismo”, che fa ancora presa sulla maggioranza dei turchi che votano.
Può non piacere ma la vittoria di Erdogan fa comodo anche agli Stati Uniti, all’Europa, alla Nato, che non lo amano ma si chiedono anche loro timorosi non meno dei turchi: qual è l’alternativa in un Medio Oriente disgregato e di fronte a ondate di rifugiati? Ed ecco la risposta: un Raìs ancora più potente sul Bosforo a fare la guardia alle nostre paure.

* Il Sole 24 Ore, 1 novembre 2015

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