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Se l’innovazione tecnologica produce disuguaglianza

Le preoccupazioni in merito all’impatto dell’innovazione tecnologica sui livelli di occupazione nascono da due constatazioni di fatto: 1) la rapidità con cui evolvono le tecnologie digitali in generale e i sistemi di Intelligenza Artificiale in particolare è immensamente superiore a quella di tutte le altre precedenti rivoluzioni tecnologiche; 2) le nuove macchine intelligenti non si limitano a rimpiazzare i lavori esecutivi a bassa qualificazione, ma sono sempre più in grado di svolgere mansioni ad elevato contenuto cognitivo, non mettono cioè a rischio solo i posti dei colletti blu, ma anche quelli di colletti bianchi, tecnici e ingegneri.

Lo confermano due recenti rapporti, il primo a cura del McKinsey Global Institute, il secondo redatto da Bank of America Merrill Lynch, due documenti in cui ritroviamo, tuttavia, il solito rassicurante ritornello: non abbandoniamoci a sentimenti luddisti perché, malgrado le due novità di cui sopra, è assai probabile che le cose andranno come sono sempre andate in occasione delle precedenti rivoluzioni tecnologiche e scientifiche: è vero che spariranno molti lavori, ma è altrettanto vero che ne nasceranno molti altri, i quali richiederanno più creatività e regaleranno più soddisfazioni a chi lo svolgerà.

Il secondo dei due rapporti appena citati ha almeno il ritegno di ammettere che questa inedita creatività sarà appannaggio di una minoranza di coloro che già oggi appartengono agli strati professionali più elevati (nemmeno a tutti costoro sarà infatti garantito l’accesso al paradiso dei nuovi privilegiati), mentre tutti gli altri dovranno cercare sistemazione nel settore dei servizi arretrati (o meglio, di quelli che una volta erano definiti tali, e che oggi vengono invece a loro volta colonizzati dalla tecnologia, la quale, nel loro caso, serve quasi sempre ad aumentare i tassi di sfruttamento, come insegna la vicenda Uber nel caso dei tassisti).

Il mondo del lavoro rischia insomma di apparire sempre più diviso fra una ristretta élite di knowledge workers, con redditi elevati e sostanziosi privilegi (vedi i dipendenti di imprese come Google), e una massa di “sfigati” costretti ad assemblare più attività precarie a basso reddito per sbarcare il lunario.

Il sogno di un mondo in cui la tecnica garantisca livelli di produttività talmente elevati da consentire a tutti di vivere alla grande senza lavorare, o lavorando lo stretto indispensabile, resterà dunque nel cassetto del vecchio Marx (e nelle teste dei teorici post operaisti del rifiuto del lavoro), perché l’unica condizione che consentirebbe di realizzarlo sarebbe niente di meno che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Allo stato dei fatti, l’innovazione tecnologica resta (e resterà probabilmente a lungo) un mezzo che contribuisce non meno della finanziarizzazione dell’economia ad aumentare la disuguaglianza.

da http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/

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