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“Repulisti dei ciarlatani se non si vuole vendere fumo

Il 2015 è morto e l’annunciata nascita della sinistra non c’è stata. L’anno buono sarà il 2016? È difficile dirlo, anche perché al momento non è chiaro neanche chi dovrebbero essere i promotori del nuovo soggetto politico, mentre il dibattito sulle finalità e sui contenuti del progetto resta ben al di sotto delle necessità, e divaga su aspetti tattici secondari. Non emergono i nodi strategici di una crisi di portata storica che coinvolge milioni di donne e di uomini, i quali chiedono risposte intellegibili e concrete di fronte all’incertezza della vita e al degrado dell’ambiente. Il rischio che si corre in questa condizione è che nasca un’altra formazione politica minoritaria, di fatto ininfluente sul corso reale delle cose.
Ma il senso e la funzione storico-politica della sinistra si definiscono se si è in grado di indicare una via d’uscita dalla crisi, e di organizzare su questa via un movimento di lotta politica, sociale, culturale. Di cui le elezioni sono un aspetto fondamentale, ma solo un aspetto. E il governo non è il fine da raggiungere comunque e con ogni mezzo, bensì un mezzo per realizzare determinati fini di avanzamento sociale e civile. Dunque, preliminare per costruire un’alternativa alla crisi, è definire il carattere e la portata della crisi. Se su questo punto non si fa chiarezza è difficile compiere qualche passo avanti, incidendo sui rapporti di forza (e di proprietà) che caratterizzano il nostro tempo.
Lo ha messo bene in chiaro Luciano Gallino, la cui perdita ci rattrista e ci impoverisce, nel suo ultimo libro Il denaro, il debito e la doppia crisi (Einaudi 2015), un’analisi dalla quale non si può prescindere per intravvedere una via d’uscita e i modi di percorrerla. Analizzando il capitale finanziario globale in profondità e in ampiezza, nel suo dominio che si identifica con la sua crisi, Gallino ci conduce a tre approdi significativi, indispensabili per la costruzione di un’alternativa all’ordinamento economico-sociale in cui viviamo.
Punto primo. Questa crisi non è una “normale” crisi ciclica, e neanche una crisi finanziaria, bancaria, del debito pubblico e dell’occupazione cui rimediare con qualche palliativo. Questa è una crisi di sistema, ovvero di un’intera civiltà, che il grande sociologo si ostina a chiamare “capitalismo”, anzitutto perché – precisa – “esso rimane il termine più significante per designare la formazione economica, sociale politica che abbraccia il mondo intero, in quanto ha nel capitale il suo motore, la ragion d’essere, la sostanza che lo alimenta e tiene in vita”. E poi perché intende “reagire a una frode”, che consiste nel “designare la medesima formazione come ‘ sistema di mercato ’ o simili”.
Come già aveva notato John Kenneth Galbraith nel suo saggio L’economia della truffa, “quando il capitalismo cessò di essere accettabile, […], il sistema fu ri-denominato. Il nuovo termine era benevolo ma privo di significato”. La parola “capitalismo” evoca infatti cattivi pensieri che è bene cancellare dal senso comune, come ricchezza e povertà, classi sociali, lotta di classe. “Ma – osserva Gallino – se qualcuno vi dice che le classi non esistono più, o sono un concetto superato, lasciatelo perdere”. Nel suo libro La lotta di classe dopo la lotta di classe aveva infatti dimostrato che la globalizzazione capitalistica porta il segno indelebile della lotta di classe dall’alto verso il basso, dei ricchi contro i poveri, dei padroni contro i salariati, del capitale contro il lavoro.
Riemerge in tutta la sua violenza e brutalità il capitale come rapporto sociale, in cui c’è un dominante e un dominato, uno sfruttatore e uno sfruttato, un proprietario e un espropriato. Questa è la condizione del mondo e dell’Europa di oggi, con le diversità derivanti dalla storia e dalla cultura di ciascun Paese. Ma con una comune motivazione di fondo, determinata dalla ricerca del massimo profitto da parte di una minoranza di proprietari universali, che si impadroniscono dei frutti del lavoro sociale e della ricerca scientifica e tecnologica. Qui sta la radice più profonda della crisi. E poiché oggi il capitale agisce senza controlli e alternative visibili, lo sfruttamento della persona umana e la distruzione della natura sono arrivati a un punto limite. In discussione è l’esistenza stessa del pianeta terra.
Oggi, precisa Gallino, il capitalismo “sta attraversando una doppia crisi economica ed ecologica, ai cui malefici effetti sfugge – per ora – una piccola minoranza”: l’uno per cento dei terrestri, grazie alla crisi, “si è ancora più arricchito e di solito non lavora e non abita in ambienti inquinati”. A questo risultato si è giunti per effetto del dominio del capitale, più precisamente della sua dittatura. Ma se, come ormai appare chiaro, la crisi è connaturata con il capitalismo, per uscire dalla crisi occorre progettare la fuoriuscita dal capitalismo, verso una civiltà più avanzata. È la questione ineludibile da mettere a tema, senza ulteriori ritardi e tentennamenti. Per la sinistra questo è il vero banco di prova della sua esistenza e della sua funzione storica.

Punto secondo. L’Unione europea, chiarisce Gallino, rappresenta in modo compiuto, attraverso l’egemonia totalitaria della finanza, la dittatura del capitale sul lavoro. E la sua crisi è l’espressione eclatante della crisi di un capitalismo che per sopravvivere deve distruggere le conquiste storiche del movimento operaio, i diritti sociali e la democrazia politica. Se “l’assenza di qualsiasi riferimento nei Trattati alla necessità di avere come scopo la piena occupazione è un autentico scandalo”, il Trattato di Maastricht del 1992 ha sancito definitivamente che “l’Europa dei popoli doveva venire intesa anzitutto come l’Europa della finanza”. Al centro della costruzione comunitaria, la Bce di Mario Draghi, che “interviene di continuo per raccomandare con durezza interventi di tipo politico”, è la vera struttura portante dell’oligarchia finanziaria che domina vecchio continente. Banchieri e finanzieri menano le danze, propongono e dispongono. In definitiva, la politica la fa il capitale.

Il sociologo torinese descrive con grande lucidità “in quali modi, con quali tecniche, utilizzando quali risorse – sono sue parole – il capitale (o la grande finanza, fate voi) è giunto nella Ue […] a sovvertire quasi totalmente il processo democratico”. Consentendo a una ristretta minoranza di “accumulare astronomiche plusvalenze patrimoniali che non recano alcun vantaggio all’economia reale” e alla stragrande maggioranza della popolazione. Già Keynes, ai tempi suoi, aveva osservato che “il decadente capitalismo internazionale […], nelle cui mani siamo finiti, non è un successo. Non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso – e non fornisce nessun bene”. Parole taglienti come lame.

Ma oggi non ha senso tornare al capitalismo “buono”, come Keynes sosteneva. E non solo perché non è possibile camminare in avanti con la testa rivolta all’indietro. Ma perché il cosiddetto capitalismo “buono” ha prodotto quello “cattivo” nel quale siamo immersi. Ammesso che sia possibile tornare indietro, che senso avrebbe riprodurre le cause che hanno generato effetti così perversi e distruttivi? In altre parole, nelle mutate condizioni del mondo di oggi, il ritorno al keynesismo non è proponibile: perché non basta redistribuire in qualche misura la ricchezza attraverso il bilancio dello Stato e la spesa pubblica. Per ottenere qualche risultato positivo a vantaggio della collettività occorre intervenire nel processo di accumulazione della ricchezza e redistribuire la proprietà, mettendo sotto controllo i detentori del grande capitale e della finanza. Esattamente come è indicato nella Costituzione della Repubblica italiana fondata sul lavoro.

Per le stesse ragioni non è proponibile una riedizione del riformismo socialdemocratico, che con la fornitura di qualche pezzo di ricambio alla macchina del capitale, invece di cambiare la macchina, ha ridotto la socialdemocrazia al ruolo di portaborse del capitale. Dunque, non il ritorno a un’esperienza ormai bruciata dalla storia al pari di quella del “socialismo realizzato”, ma la ricerca e la progettazione di un nuovo socialismo, fondato sui principi di uguaglianza e libertà, di solidarietà e giustizia sociale. Incombe l’esigenza di aprire nuove vie alla lotta dell’umanità per la libertà e l’uguaglianza.

Secondo Gallino bisognerebbe dare vita “a un nuovo soggetto di sinistra capace di imprimere al capitalismo Ue mutamenti radicali, magari sostituendolo con un inedito genere di socialismo democratico, o social-ecologico (oppure conferendogli, perché no, un nome affatto nuovo, visto il tradimento dei loro ideali costitutivi compiuto dalle socialdemocrazie europee dopo gli anni Ottanta)”. In ogni caso, il problema della sinistra non è “salvare il capitalismo”, come ha sostenuto Alfredo Reichlin, ma salvare dal capitalismo gli esseri umani e il pianeta terra.

Siamo così giunti, in conclusione, al tema politicamente dirimente che Luciano Gallino ci propone: “Se la politica la fa il capitale, come si può fare politica per opporsi al capitale”? E, aggiungo io, per metterlo sotto controllo? La risposta forse è facile a dirsi, molto più difficile è praticarla: attraverso la costruzione di una coalizione politica che unisca i nuovi lavoratori del XXI secolo, e che abbracci tutti coloro che sono colpiti dalla crisi. Non è vero che le “leggi” del capitale sono immodificabili come le leggi della natura. A maggior ragione si possono cambiare i Trattati della Ue, a condizione però – osserva Gallino – “di costruire in più Stati membri una forza politica all’altezza del compito”.

Ciò richiede una coerente visione alternativa al sistema oppressivo del capitale e, al tempo stesso, la massima concretezza nelle risposte da dare all’incalzare della crisi: “L’importante è che ciascun passo […] si collochi sulla strada di una reale svolta dell’economia e del pensiero economico”. Riconnettere il legame tra la società e la politica, che il capitale ha pezzato materialmente e culturalmente per assicurare a se stesso il dominio sulla società e sulla politica, è l’altra grande operazione cui porre mano. Perché ormai sappiamo che il sociale opposto al politico inevitabilmente ripiega nella parzialità fino alla frantumazione corporativa. E il politico opposto al sociale inevitabilmente oscilla tra l’autoreferenzialità e il servilismo al capitale.

Le migliaia di associazioni e di movimenti che pullulano nella società dovrebbero darsi un’organizzazione, sporcarsi le mani con la politica e costruire un punto di vista libero e autonomo prendendo per base i principi costituzionali. Ma una sinistra alternativa con caratteristiche popolari e di massa, in grado di spostare i rapporti di forza nella società non può nascere solo dal basso, sebbene la spinta dal basso sia decisiva. E neanche solo dall’alto, dal semplice assemblaggio delle formazioni politiche vecchie e nuove dislocate sul versante di sinistra del Pd.

Queste formazioni possono dare tuttavia un contributo rilevante se escono dal tatticismo elettorale e dal personalismo esasperato, da vecchie idiosincrasie e nuove contrapposizioni, disponendosi a fare un salto qualitativo in due direzioni: l’elaborazione di un programma di lotte comuni; l’immersione nei conflitti sociali più acuti, dando prova con i fatti di stare dalla parte del lavoro. Se non si trova una nuova connessione tra il sociale il politico, esperienze come la coalizione sociale di Landini sono destinate al fallimento. E anche un sindacato come la Cgil, con tutti i suoi limiti, è in pericolo.
Diciamolo con franchezza: non si va lontano nella costruzione della sinistra se non si ha la forza di fare un repulisti dei ciarlatani, degli arrivisti, degli opportunisti e poltronisti ovunque collocati, nei movimenti e nei partiti. Senza sconti per nessuno.

Gallino sottolinea l’esigenza di impegnarsi a fondo nella costruzione di un pensiero critico, che colloca lungo la linea Machiavelli, Marx, Gramsci, in grado di smontare la narrazione apologetica e falsificante finalizzata al dominio del capitale, in larga misura diventata ormai senso comune. Ha ragione. Aggiungerei che accanto alla forza del pensiero c’è bisogno della coerenza nei comportamenti, di uno stile politico completamente diverso, che richiede studio, competenza, soprattutto coerenza tra parole e fatti.

Insomma, abbiamo a che fare con un processo difficile, molto difficile. Realisticamente, se non si vuole vendere fumo, è poco probabile che potrà essere portato a compimento nell’anno che viene. Ma bisogna continuare a provarci. “Se un’autentica forza di opposizione non si sviluppa – ci avverte il nostro autorevole interlocutore -, o tarda ancora per decenni, quello che ci attende è un ulteriore degrado dell’economia e del tessuto sociale, seguito da rivolte popolari dagli esiti imprevedibili”. Non sarebbe una bella prospettiva. Auguri a tutti.

* autore di “Lavoro senza rappresentanza”

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