Sono passati ormai cinque anni dalle rivolte di quella che fu chiamata la “Primavera Araba” del 2011 e quella parte del mondo arabo che ne fu attraversata presenta chiaroscuri importanti. Da un lato si conferma la differenza tra quanto avvenne – e quanto avviene oggi – in Tunisia e Egitto dalla situazione in Libia e Siria. Di fronte alla proteste sociali in Tunisia ed Egitto soprattutto, alla domanda se ci si trovi di fronte ad un altra rivoluzione, molti analisti politici rispondono di no. In questa valutazione – che per molti versi somiglia più ad un esorcismo – si evince la sostanza di quella affermazione di Obama di fronte alle rivolte della primavera araba del 2011, quando sentenziò che l’esito doveva essere “Evolution but not revolution”. L’evoluzione consisteva in un cambio di regime – via Ben Alì e Mubarak – ma anche stoppare con ogni mezzo – repressione inclusa – ogni cambiamento sociale sostanziale e la normalizzazione effettuata in Tunisia ed Egitto ne è la conferma. Chiusa con le elezioni (Tunisia) e il colpo di stato (Egitto) la breve parentesi dell’andata al potere dei Fratelli Musulmani, la situazione oggi ripresenta sul piano del conflitto sociale tutte le contraddizioni tra gli assetti compatibili agli interessi capitalistici e le crescenti aspettative sociali dei settori popolari. Diversamente, prima in Libia e poi in Siria, le manifestazioni di protesta sono state orientate e strumentalizzate rapidamente da forze esterne (Usa, petromonarchie, Francia, Turchia) verso uno scontro direttamente militare diretto a rovesciare due regimi (Gheddafi e Assad) in qualche modo dissonanti rispetto agli interessi occidentali. L’operazione di “regime change” ha funzionato parzialmente in Libia – innescando la totale deflagrazione interna del paese – ma non ha funzionato in Siria pur provocando la distruzione e la frammentazione del paese. Il totale silenzio e complicità di Washington, Parigi, Roma, Londra rispetto poi alla repressione saudita contro le rivolte in Barhein e Yemen, è la conferma non solo dei “due pesi e due misure”, ma della inaccettabile superficialità di chi ha letto le rivolte del 2011 come un unico anelito e un unico processo di protagonismo delle “masse arabe”. Non è stato così e non poteva esserelo.
Ma se gli scenari di Libia e Siria si connettono direttamente con quelli della guerra permanente scatenata dagli Usa e dalla Ue in Medio Oriente dal 2003 in poi, in Tunisia ed Egitto siamo in presenza di un conflitto e movimenti sociali che presentano caratteristiche più simili a quelle di una lotta di classe tra interessi contrapposti.
Il conflitto di classe in Tunisia
In Tunisia le rivendicazioni dei manifestanti somigliano moltissimo a quelle della “Rivoluzione dei gelsomini” di 5 anni fa, ovvero ”lavoro e dignità”, meno corruzione e più sviluppo per le regioni svantaggiate. “Dopo anni di promesse disattese, la pazienza del popolo sembra essersi trasformata in una sorta di ”intifada” del lavoro” scrive in un report Ansamed dalla Tunisia. Ma oggi non è la dittatura, quanto piuttosto la “democrazia” quella che non può soddisfare le legittime domande sociali dei giovani tunisini e questo fattore potrebbe rivelarsi molto pericoloso per l’establishment tunisino e occidentale, perché la democrazia potrebbe perdere il suo appeal dinanzi agli occhi dei suoi cittadini più sfavoriti. Cinque anni fa, l’avvertimento era stato piu’ o meno chiaro: o le istituzioni si occupano dei problemi sociali ed economici della gente, o la Tunisia, in un modo o nell’altro, si ritroverà a vivere situazioni anche violente. Le cifre sulla disoccupazione giovanile di alcune regioni sono davvero allarmanti con un tasso che sfiora il 30%, al quale bisogna aggiungere il fatto che solo il lavoro pubblico risulta essere regolamentato e che i salari sono oltremodo bassi. Impossibile pero’ tracciare un quadro preciso della situazione visto che il settore informale e quello legato al contrabbando sono gli unici che contribuiscono a creare qualche posto di lavoro. Rimane il fatto che moltissimi giovani rimangono senza alcuna occupazione.. “Anche se si ha l’impressionante sensazione di tornare al passato, si possono riscontrare alcune differenze, piu’ che altro di tipo politico, rispetto ad allora.” Scrive il report di Ansamed. La settimana di scontri a gennaio di quest’anno, ha causato fortunatamente un solo morto, centinaia di feriti lievi, per lo più tra le forze dell’ordine e più di 600 arresti tra i manifestanti. A gennaio manifestazioni e proteste hanno attraversato numerose città del Paese, dal sud al nord: Kairouane, Sidi Bouzid, Regueb Siliana, Zaghouan, Sousse, Kairouan, Kef, El Fahs, Thala, Feriana, fino ad arrivare nella capitale, Tunisi.
Lotte operaie in Egitto
Diversa la situazione in Egitto, dove le proteste sociali hanno investito soprattutto i poligoni industriali intorno a Suez e al Delta del Nilo. Qui dal 2004 sono cresciute le ZIQ (Zone industriali qualificate) in base ad un accordo triangolare tra Egitto, Stati Uniti e Israele. Una fonte diplomatica israeliana così ne riassume le caratteristiche. “L’accordo firmato nel 2004 fra Israele ed Egitto – con il consenso degli Stati Uniti – permette agli Egiziani di esportare i propri prodotti industriali agli Stati Uniti senza che vengano applicati diritti doganali, passando attraverso il corridoio commerciale israelo-americano, a condizione che il 12% del valore dei prodotti finiti sia di provenienza israeliana, e che la produzione egiziana sia concentrata in alcune zone industriali speciali (ZIQ) autorizzate dagli Stati Uniti. Questo accordo ha salvato (sic!) l’industria tessile egiziana, che si trovava sull’orlo del collasso in seguito all’introduzione delle nuove regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Allo stesso tempo ha permesso all’Egitto di aumentare le esportazioni di prodotti tessili verso l’America aumentando notevolmente gli introiti – che sono passati da 200 a 800 milioni di dollari”.
Le conseguenze di questo “sviluppo” industriale dell’Egitto – come abbiamo visto danneggiato dall’ingresso nella Wto – sono state la crescita di un segmento operaio in un paese sostanzialmente fondato sull’agricoltura e il turismo. Ma la crescita quantitativa degli operai ha posto dopo alcuni anni anche un aumento delle aspettative dei lavoratori sui loro diritti, in modo particolare sui salari e sulla previdenza sociale. Un rapporto diffuso dalla Farnesina per incentivare gli investimenti in Egitto, così scrive: “Nonostante nelle ultimi mesi vi siano stati degli aggiustamenti al rialzo, il costo della manodopera in Egitto è notevolmente più basso rispetto all’Italia ed è compreso tra i 100 e i 300 $ al mese. Dal punto di vista qualitativo, il livello della manodopera egiziana non raggiunge la specializzazione dei paesi industrializzati, ma è certamente superiore a quello dei paesi dell’area mediorientale, potendo contare su una buona base di manodopera relativamente formata”.
Durante la primavera araba del 2011 in Egitto, mentre tutti mass media si concentravano su quanto avveniva in Piazza Tahir, le rivolte più dure – ed anche un numero più elevato di morti – avvenivano proprio intorno al quadrante di Suez e del Delta e vedevano come protagonisti i lavoratori piuttosto che i ceti medi urbani o sottoproletari del Cairo. Mentre questi ultimi sono stati travolti dalla repressione – prima del governo dei Fratelli Musulmani e poi ancora più duramente dal regime militare di Al Sisi – nelle zone industriali le reti sindacali indipendenti sono cresciute e hanno dato vita a scioperi, manifestazioni, coordinamenti.
Sulla crescita delle proteste operaie nei poligoni industriali sorti intorno alle ZIQ, il documento più interessante e completo è quello che è costato la vita a Giulio Regeni e pubblicato sulla Nena News che riproduciamo integralmente.
“A dicembre in diverse regioni dell’Egitto, da Assiut a Suez, al Delta, lavoratori di società nei settori del tessile, del cemento, delle costruzioni, sono entrati in sciopero a oltranza: le loro rivendicazioni riguardano l’estensione di diritti salariali e indennità riservate alle società pubbliche. Si tratta di benefici di cui questi lavoratori hanno smesso di godere in seguito alla massiccia ondata di privatizzazioni dell’ultimo periodo dell’era Mubarak. Molte di queste privatizzazioni dopo la rivoluzione del 2011 sono state portate davanti ai giudici, i quali ne hanno spesso decretato la nullità, rilevando diversi casi di irregolarità e corruzione.
Tali scioperi sono per lo più scollegati tra di loro e in gran parte slegati dal mondo del sindacalismo indipendente che si è riunito a metà dicembre al Cairo. Ma rappresentano comunque una realtà molto significativa, per almeno due motivi. Da un lato, pur se in maniera non del tutto esplicita, contestano il cuore della trasformazione neoliberista del paese, che ha subito una profonda accelerazione dal 2004 in poi, e che le rivolte popolari esplose nel gennaio 2011 con lo slogan “Pane, Libertà, Giustizia Sociale” non sono riuscite sostanzialmente a intaccare. L’altro aspetto è che in un contesto autoritario e repressivo come quello dell’Egitto dell’ex-generale al-Sisi, il semplice fatto che vi siano iniziative popolari e spontanee che rompono il muro della paura rappresenta di per sé una spinta importante per il cambiamento.
Sfidare lo stato di emergenza e gli appelli alla stabilità e alla pace sociale giustificati dalla “guerra al terrorismo”, significa oggi, pur se indirettamente, mettere in discussione alla base la retorica su cui il regime giustifica la sua stessa esistenza e la repressione della società civile.
Il sindacalismo indipendente
La giornata di venerdì 11 dicembre ha visto svolgersi un vibrante incontro presso il Centro Servizi per i Lavoratori e i Sindacati (CTUWS), fondato nel 1990, tra i punti di riferimento del sindacalismo indipendente egiziano. Sebbene la sala più grande del Centro abbia un centinaio di posti a sedere, la sera dell’incontro non riusciva a contenere il numero di attiviste e attivisti sindacali giunti da tutto l’Egitto per un’assemblea che ha dello straordinario nel contesto attuale del paese.
L’occasione è data da una circolare del consiglio dei ministri che raccomanda una stretta collaborazione tra il governo e il sindacato ufficiale ETUF (unica formazione ammessa fino al 2008), con il fine esplicito di contrastare il ruolo dei sindacati indipendenti e marginalizzarli tra i lavoratori.
Sebbene oggi il CTUWS non sia rappresentativo della complessa costellazione del sindacalismo indipendente egiziano, il suo appello è stato raccolto, forse anche inaspettatamente, da un numero molto significativo di sindacati. Alla fine, saranno una cinquantina circa le sigle che sottoscriveranno la dichiarazione di chiusura, rappresentanti dei più svariati settori economici, e dalle più svariate regioni del paese: dai trasporti alla scuola, dall’agricoltura all’ampio settore informale, dal Sinai all’Alto Egitto, passando per il Delta, Alessandria, e il Cairo. La circolare del governo, infatti, rappresenta un ulteriore attacco ai diritti dei lavoratori e alle libertà sindacali, fortemente ristrette dopo il colpo di stato militare del 3 luglio 2013, e ha così fatto da catalizzatore di un malcontento molto diffuso tra i lavoratori, ma che stentava fino ad oggi a prendere forma in iniziative concrete.
Movimento in crisi
Dopo la rivoluzione del 2011 l’Egitto ha vissuto una sorprendente espansione dello spazio di agibilità politica. Si è assistito alla nascita di centinaia di nuovi sindacati, un vero e proprio movimento, di cui il CTUWS è stato tra i protagonisti, attraverso le sue attività di suppoorto e formazione. Tuttavia, negli ultimi due anni, repressione e cooptazione da parte del regime hanno seriamente indebolito queste iniziative, al punto che le due maggiori federazioni (la EDLC e la EFITU) non riuniscono la loro assemblea generale dal 2013. Di fatto ogni sindacato agisce ormai per conto proprio a livello locale o di settore. L’esigenza di unirsi e coordinare gli sforzi però è molto sentita, e lo testimonia la grande partecipazione all’assemblea, oltre ai tanti interventi che hanno puntato il dito contro la frammentazione del movimento, e invocato la necessità di lavorare insieme, al di là delle correnti di appartenenza. È certamente questo, nonostante i molti limiti, il dato più importante da registrare della giornata di venerdì.
Gli interventi si sono succeduti a decine, concisi, spesso appassionati e con un taglio molto operativo: si trattava di proporre e decidere insieme il “cosa fare da domani mattina”, un appello ripetuto come un mantra durante l’incontro, data l’urgenza del momento e la necessità di delineare un piano d’azione a breve e medio termine. Da notare la presenza di una nutrita minoranza di donne, i cui interventi sono stati in alcuni casi tra i più apprezzati e applauditi dalla platea a maggioranza maschile.
L’incontro dell’11 dicembre si è concluso con la decisione di formare un comitato il più possibile rappresentativo dei presenti, che si incarichi di gettare le basi per una campagna nazionale sui temi del lavoro e delle libertà sindacali. L’idea è quella di organizzare una serie di conferenze regionali che portino nel giro di pochi mesi ad una grande assemblea nazionale e possibilmente ad una manifestazione unitaria di protesta (“a Tahrir!” diceva anche qualcuno tra i presenti, invocando la piazza che è stata teatro della stagione rivoluzionaria del periodo 2011-2013, e che da più di due anni è vietata a qualsiasi forma di protesta). L’agenda sembra decisamente ampia e include tra gli obiettivi fondamentali quello di contrastare la legge 18 del 2015, che ha recentemente preso di mira i lavoratori del settore pubblico, ed è stata duramente contestata nei mesi passati.
Uno sguardo all’Italia
La strada appare ancora lunga e accidentata, ma è unicamente da questi fermenti sociali che può scaturire la speranza per un Egitto realmente democratico. E gli sviluppi di queste iniziative meritano di essere seguiti con attenzione e vicinanza, anche da questa parte del Mediterraneo. Sono gli stessi sindacalisti egiziani che ce lo chiedono, facendo appello a realtà sociali simili a loro in Italia e in Europa, per sviluppare forme di scambio, solidarietà e cooperazione che possano rafforzarli e incoraggiarli in questa delicata fase storica. Questi esperimenti dal basso potrebbero forse indicare anche a noi nuove traiettorie per un sindacalismo –al contempo combattivo e democratico – al passo con le trasformazioni imposte dalla globalizzazione del ventunesimo secolo”.
L’articolo di Giulio Regeni ci rivela cose interessanti e con un potenziale di cambiamento politico e sociale più strategico rispetto alle rivendicazioni della stessa Piazza Tahir. Come abbiamo visto in Tunisia il passaggio alla democrazia – soprattutto se benedetto e guidato dalle potenze occidentali – non comporta una modifica sostanziale nei rapporti sociali – né quelli di proprietà sulla terra e le risorse, né quelli di produzione. Abbiamo visto poi come in Libia e Siria le rivendicazioni sulla democratizzazione si sono rivelate il cavallo di Troia degli interessi imperialisti e di come le forze democratiche fossero del tutto ininfluenti, ultraminoritarie ed infine subalterne rispetto a quelle legate alla cordata Arabia Saudita-Turchia sul piano regionale e statunitense-europea sul piano internazionale. Mettere dunque sullo stesso piano le proteste in Tunisia ed Egitto e quelle in Libia ed Egitto continua a rimanere un clamoroso e colpevole errore di valutazione. Una analisi e un ragionamento diverso attiene invece alla lotta di liberazione del popolo kurdo o quella del popolo palestinese, ma questi richiedono un approfondimento specifico che svilupperemo in un’altra occasione.
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