Su “D la Repubblica” di sabato 6 u.s. Umberto Galimberti scrive: “… come può la morale e la politica impedire alla tecnica di non fare ciò che può? Come tutta la storia ci insegna, se una cosa è resa possibile, prima o poi ce ne si serve.”
Sono d’accordo solo in parte con questa affermazione.
Non ci sono dubbi che nella storia per lo più le cose vadano come sostiene Galimberti.
Ma il fatto che di norma le cose vadano così impone/implica che questo fatto bisogna avallarlo anche sul piano dell’etica? Il giudizio di valore su un fatto deve coincidere con la presa d’atto di esso?
Per me (al contrario di quello che mi pare sostenga Galimberti in questa occasione) la risposta a queste domande è negativa.
Per me non sempre ciò che è tecnicamente realizzabile è anche eticamente lecito. Ed io sento la necessità e voglio avere la libertà di sostenerlo. Anche quando ciò significa andare controcorrente.
La mia idea è che non necessariamente ad ogni scoperta tecnico/scientifica debba seguire la sua applicazione pratica. Se la scoperta tecnico/scientifica confligge con una o più norme etiche, essa va invece contrastata, non va applicata.
Altrimenti sarebbe come dire che, siccome esiste la bomba atomica, essa va automaticamente utilizzata (ed è eticamente lecito farlo) da parte di chi è in guerra.
O che, siccome la ricerca tecnologica ha fatto grandi passi avanti nel produrre organismi geneticamente modificati, si debba lasciare che essi siano automaticamente prodotti su larga scala, senza nessuna cautela preventiva e prima che ricerche scientifiche serie, prolungate e universalmente riconosciute, siano in grado di dirci una parola in qualche misura definitiva sui rischi che l’applicazione pratica delle scoperte tecnologiche in materia di ogm potrebbe comportare per il futuro dell’umanità, in questo caso per la preservazione del patrimonio naturale e, di conseguenza, per la salute dell’umanità.
Allo stesso modo (per fare un esempio di stretta attualità in questi giorni in Italia, e a cui anche il ragionamento di Galimberti era contingentemente collegato) il fatto che esista la possibilità tecnica di procreare “affittando” l’utero di una donna, che si rende disponibile (magari in cambio di denaro) a ricevere il seme di un uomo che non ha con lei nessun rapporto di natura intima e affettiva ma solo di natura estemporanea e contrattuale, non rende (per me) tale atto automaticamente lecito anche sul piano etico.
Mi sorprende, quindi, che Galimberti, il quale ha trascorso una vita a criticare il dominio della tecnica (divenuto nelle società contemporanee ipermoderne una vera e propria dittatura), in questo caso identifichi la possibilità tecnica di una pratica con lo sdoganamento di fatto anche della sua liceità etica.
E mi sorprende ancora di più che una persona (di solito) così posata e riflessiva come Galimberti, in un dibattitto su questioni così complesse e ancora controverse (come sono, almeno nel nostro paese, quelle legate ai “diritti delle coppie non sposate, etero e gay”), la faccia così semplice (come se non ci fosse più niente su cui discutere e confrontarsi) e si dimostri così permissivo, arrivando perfino all’uso di toni aspri e atteggiamenti di sussiego, che hanno sfiorato la vera e propria intolleranza e il rifiuto di ogni dialogo.
* Napoli
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T.S.
Condivido il ragionamento dell’autore del pezzo e onestamente lo trovo anche piuttosto scontato.
Precisato questo, penso sia “fazioso” associare questa considerazione di buon senso con la questione dell’utero in affitto, perché nel merito, il buon senso è funzionale all’imposizione di un’etica che va a cozzare con un principio superiore all’etica stessa (per altro prodotto socio-culturale che è quasi impossibile oggettivare universalmente per tutti e in ogni dove): l’autodeterminazione, in questo caso nell’uso del proprio corpo.
Claudio Fabbri
Concordo pienamente con l’autore. Vorrei solo aggiungere che la “questione di ciò che è tecnicamente possibile” – espressione che Galimberti peraltro rileva da Guenther Anders, che ne ha trattato però con ben altro spirito analitico – e le ricadute di natura etica che reca con sé, è strettamente intrecciata all’orientamento che una società storicamente determinata imprime alla ricerca scientifica. Del tutto adeguati gli esempi fatti: dalla bomba atomica agli OGM, innumerevoli sono tuttavia gli altri casi che si potrebbero addurre a illustrazione della tesi della funzione di classe della ricerca scientifico-tecnica. Essa non è mai neutrale (non si fa ricerca per trovare soluzioni ai grandi problemi dell’umanità) anche quando in subordine alla sua finalità principale si producono effetti che si prestano a un loro uso industriale di massa, determinando a loro volta altre occasioni di profitto, e quelle svolte sociali e di civiltà che hanno i tratti inquietanti delle mutazioni antropologiche. Cito qui solo il caso della ricerca sulle comunicazioni satellitari finanziata dall’industria bellica e dalle istituzioni politiche statunitensi, che ha provocato la diffusione, anzi l’inondazione planetaria dei telefoni cellulari.
Fatta questa considerazione di ordine generale, per tornare alla questione concreta di cui si dibatte in questi giorni in Italia, vale a dire la “maternità surrogata”, si potrebbe insinuare il dubbio che Galimberti voglia dare l’avallo del suo autorevole contributo alla “tendenziale estensione all’infinito” della mentalità borghese, che concepisce il mercato come il luogo supremo dell’esercizio delle libertà degli esseri umani.
Ho colto anch’io in un paio di passaggi televisivi di Galimberti una decisa indisponibilità alla comprensione delle ragioni di chi provava a problematizzare una questione così delicata, che mi ha fatto tornare in mente la tracotanza di tanti cosiddetti intellettuali che a un certo punto della loro vita decidono di mettere il loro pensiero al servizio di interessi non poi tanto democratici.