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L’autonomia differenziata è azzoppata, meglio abbatterla

La Corte Costituzionale ha fatto un classico lavoro da “Dottor Sottile”, in equilibrio tra dettato della Carta, disastri innescati dalla “Riforma del Titolo V” e trattati europei e con un occhio anche agli equilibri politici contingenti.

E’ per questo che tutti i soggetti interessati – partiti di destra e di “centro-sinistra”, comitati referendari, ecc – possono dirsi “soddisfatti”. Hanno tutti ragione, insomma, a patto di mentire piuttosto spudoratamente.

La Consulta ha esaminato i ricorsi elle quattro Regioni guidate dal centrosinistra (Campania, Puglia, Sardegna e Toscana) che avevano impugnato la “legge Calderoli”.

Il gioco di prestigio che emerge nella sentenza emessa ieri – vedremo poi le motivazioni, che saranno per forza di cose ancor più arzigogolate – sta nel fatto che i giudici hanno ritenuto “non fondata” la questione di costituzionalità della legge nel suo insieme (cosa che enfatizzano le forze di governo).

Ma contemporaneamente ha giudicato incostituzionali ben sette profili della “legge Calderoli”.

Semplificando, ha detto che una legge per regolare l’autonomia anche differenziata tra le Regioni “si può fare“, perché bisogna pur disciplinare l’attuazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione; ma il modo in cui lo fa fa letteralmente schifo.

Anche ai sensi della Costituzione stravolta dalla famigerata “schiforma” del 2001 (capolavoro suicida del Pd, che con quella furbata pensava di depotenziare il secessionismo leghista allora guidato da Umberto Bossi e lo stesso Calderoli).

Una rapida analisi dei “sette pilastri” demoliti dalla Consulta non lascia dubbi: della legge in esame non resta praticamente nulla, se non il faldone che la contiene.

Il primo pilastro era costituito infatti dalla previsione che potesse esser un decreto del presidente del Consiglio dei ministri a determinare l’aggiornamento dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) – in materia di politiche del lavoro, istruzione, sanità e tutela dell’ambiente che ogni Regione deve garantire in modo tale da assicurare il diritto di ogni cittadino italiano di usufruire degli stessi servizi pubblici e sociali indipendentemente dalla regione di residenza.

Un punto decisivo soprattutto per quanto riguarda la sanità pubblica, con alcune Regioni (vedi la Lombardia) ormai molto avanti nella cancellazione del servizio pubblico e la privatizzazione palese di ogni prestazione.

La riforma Calderoli, infatti, intendeva porre la questione interamente nelle mani de governo, che avrebbe così potuto – tramite semplici “decreti interministeriali” concertati all’interno della coalizione – come modificare i Lep, senza neanche passare per il Parlamento (come Costituzione prescrive) e quindi senza un dibattito pubblico che spiega anche ai cittadini cosa si sta facendo, soprattutto cosa comporta per la loro vita concreta.

Il secondo pilastro demolito è invece la possibilità di modificare, sempre con decreto interministeriale, le “aliquote della compartecipazione al gettito dei tributi erariali”, prevista per finanziare le funzioni trasferite dallo Stato alle Regioni in caso di scostamento tra il fabbisogno di spesa e l’andamento dello stesso gettito.

Quasi ironicamente, nei confronti della retorica leghista e “nordista”, quella norma avrebbe potuto usata anche per premiareproprio le regioni inefficienti che – dopo aver ottenuto dallo Stato le risorse finalizzate all’esercizio delle funzioni trasferite – non sono in grado di assicurare con quelle risorse il compiuto adempimento delle stesse funzioni“.

Con la demolizione del terzo pilastro la Corte rimette però al centro il “principio di sussidiarietà” (un altro mostro inserito a forza nella Costituzione) sottolineando che la distribuzione delle funzioni legislativa e amministrative tra Stato e Regioni “non” deve “corrispondere all’esigenza di un riparto di poteri tra i diversi segmenti del sistema politico“, ma deve avvenire “in funzione del bene comune della società e della tutela dei diritti garantiti dalla nostra Costituzione“.

Sarebbe insommail principio costituzionale di sussidiarietà che regola la distribuzione delle funzioni tra Stato e regioni“. Per questo l’Autonomia differenziata, teoricamente ammissibile per la Consulta, deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini“.

Invece, com’è noto, alcune Regioni a trazione fascioleghista si erano già esposte con la pretesa di assumere “competenze statuali” in quantità abnorme, anche su questioni che ovunque sono per forza prerogative dello Stato centrale.

Il Veneto guidato da Zaja, per esempio, pretende di far da sé nella stipula di eventuali accordi con Stati confinanti, comprese le “frontiere marittime”.

Altre regioni vorrebbero concorrere alla definizione delle direttive europee e al loro recepimento nella normativa nazionale, sedendo insieme ai ministri ai tavoli europei per le politiche di coesione, le procedure di infrazione e la disciplina sugli aiuti di Stato.

Lombardia e Veneto pretendono pure di autonomizzare la protezione civile, fare ordinanze diverse da quelle statali in caso di calamità naturale e decidere le quantità del personale necessario.

Vorrebbero anche il potere di decidere su formazione e istruzione, specie per quanto riguarda gli “enti privati” da considerare “paritari”, moltiplicando così i diplomifici Bandecchi-style.

I più audaci chiedono anche di metter mano alla politica fiscale, ai fondi pensione, ai poteri e le regole di ingaggio della polizia locale, ecc.

In pratica delle Regioni-Stato che delegherebbero “a Roma ladrona” solo la formazione delle nazionali sportive e dell’esercito…

Il quarto pilastro demolito è più tecnico, ma egualmente importante per il tentativo di conferire al governo – e non al Parlamento – un potere discrezionale assoluto.

La Consulta giudica incostituzionale, infatti, la mancata prescrizione di una “legge delega” per stabilire i criteri direttivi per emanare i futuri decreti. La legge Calderoli li indica infatti nella legge di bilancio 197/2022, che manifestamente si occupava di altro.

Il quinto pilastro incostituzionale sembra invece più il frutto di ignoranza che di una progettualità sopraffina. Prevede(va) infatti l’estensione della “legge Calderoli” anche alle Regioni a statuto speciale. Le quali, invece, possono ricorrere proprio alle procedure previste dai loro “statuti speciali” per ottenere maggiori forme di autonomia.

Il sesto rilievo di incostituzionalità ricorda che il Parlamento non può essere spogliato del potere di emendare le intese che in futuro potranno essere firmate tra Stato e singole Regioni. Il che equivale a dire che non può essere un governo, magari “balneare”, a dare più o meno poteri a Regioni rette da una maggioranza simile o di opposizione.

L’ultimo stop, infine, riguarda la “clausola di invarianza finanziaria” (ogni trasferimento di funzioni non deve comportare maggiori spese). Questa deve collocarsi in un quadro di valutazione complessiva della finanza pubblica, e dunque la definizione del fabbisogno per i LEP (a loro volta al centro del “primo pilastro”) è decisiva per stabilire le poste finanziarie.

Come si vede, non resta molto dell’impianto “differenzialista”.

Proprio per questo ha senso sviluppare la campagna referendaria per abolire completamente la “legge Calderoli”, superando ogni residua tentazione “minimalista”.

E’ chiaro infatti che un secondo round di stesura delle variazioni indispensabili per poter dire che “sono stati accolti i rilievi della Consulta”, un dibattito parlamentare contorto e denso di compromessi al ribasso, un frammischiamento di codicilli illeggibili anche ai più esperti azzeccagarbugli e altri “magheggi”, porterebbero solo ad un nuovo testo altrettanto schifoso ma comunque tale da costringere a riformulare i quesiti referendari e a raccogliere nuovamente le firme necessarie.

Il “decreto Calderoli” va spazzato via una volta per tutte, senza se e senza ma, mettendo nelle mani della popolazione il potere di decidere.

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