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Brexit. Il referendum sull’UE del 23 Giugno. Una scelta di classe

I sindacalisti trascorrono gran parte della loro vita in una scomoda posizione; tra l’incudine e il martello, cercando di mutare in meglio opzioni e scenari dannosi per i lavoratori. Ciò può portare ad assumere come abitudine atteggiamenti che possono essere descritti quali “pragmatici”, il cui principale obiettivo e’ quello di limitare i danni.

Tuttavia, in momenti storici “chiave”, alcuni principi fondamentali vanno presi in considerazione. A volte, è necessario avere aspirazioni e volonta’ che siano al di sopra delle opzioni inaccettabili che ci vengono offerte nell’immediato.

Il referendum sulla adesione alla Unione Europea della Gran Bretagna costituisce una simile occasione. Non è possibile applicare principi “pragmatici” ad una questione così fondamentale, che ha una fortissima influenza su fatti centrali quali la giustizia sociale, la democrazia, i diritti collettivi e le libertà dei lavoratori. In tale occasione, da sindacalisti, siamo chiamati ad esprimere e rappresentare gli interessi più profondi della classe operaia.

Dire che l’accordo con le istituzioni europee negoziato dal primo ministro Cameron sia tanto pessimo quanto lo status quo, e, successivamente, sostenere la permanenza della Gran Bretagna nella UE al fine di costruire “un’altra Europa” non coglie il punto. Simili posizioni sono espresse dall’ex ministro delle finanze Greco, Varoufakis, che pensa, ancora, di poter riformare l’Unione europea. Qualcosa che milioni di lavoratori, negli ultimi tre decenni, hanno sperimentato essere impossibile.

Non va dimenticato che lo stesso Varoufakis ha consigliato al governo greco ad accettare il 70% del contenuto del memorandum di austerità dell’UE ed è responsabile di gran parte della crisi attuale. La sua incapacità di capire il Sistema-UE, e di cogliere la profonda natura delle sue istituzioni e dello stesso neoliberismo, sono alla base di queste illusioni utopiche.

L’UE non costituisce, né è mai stata concepita per essere, un baluardo dei diritti dei lavoratori, né per sostenere le lotte per l’uguaglianza delle donne, delle minoranze o dei giovani.

La situazione disperata della classe operaia nei 28 Stati membri dell’UE è chiara. La disoccupazione media ha raggiunto l’8.9% nel mese di Gennaio 2016 (10.3% nei paesi della zona euro). Incredibilmente, questo è stato salutato come un segno di ripresa da parte di alcuni appassionati sostenitori dell’UE, in quanto rappresenta una riduzione dello 0.1% rispetto al mese precedente.

I lavoratori, nell’UE, sono stati intrappolati in una crisi prolungata, caratterizzata da disoccupazione e calo dei salari reali, per oltre 15 anni. Dal 2000 ad oggi, il tasso di disoccupazione medio nella UE è sceso sotto l’8% solo per un breve periodo (nel 2007/8), per poi salire al 12% nel 2013, prima di ritornare alla “normalità” (il 10% di oggi). Per milioni di persone appartenenti ai ceti popolari ciò ha significato la una profonda trasformazione delle proprie esistenze. Esistenze oggi fatte di lavoro precario, debiti, difficolta’ nel trovare alloggio, e finanche nel far fronte a necessita’ essenziali quali la spesa alimentare.

Il risultato (previsto) delle politiche ordoliberali applicate dalle élite politiche comunitarie nell’interesse delle grandi imprese è stato dunque quello di abbassare i salari, “favorire la competitività” ed aumentare l’insicurezza sociale ed esistenziale dei lavoratori.

Dinanzi a tale scenario, il segretario generale del Trades Union Congress (una sorta di confederazione dei sindacati britannici, ndt) Frances O’Grady, ed alcuni influenti dirigenti sindacali decidono di impegnarsi nella campagna per la permanenza all’interno dell’UE, propendendo per ciò che percepiscono come “il male minore”. Una scelta che rischia, purtroppo, di favorire l’opzione di gran lunga peggiore.

Una uscita dalla Unione Europea produrrebbe, anzitutto, una frattura irreparabile nel Partito Conservatore. Naturalmente ciò avverrebbe dopo aspri conflitti, ma, data la spietatezza con cui questa compagine sta distruggendo lo stato sociale ed i diritti nei luoghi di lavoro, uscire dalla UE e portare un significativo attacco alla maggioranza di governo ha sicuramente un senso. Ciò non dovrebbe essere trascurato nell’analisi proposta, in questa fase, dal movimento sindacale. Il vero pericolo, per i lavoratori, consiste nel rinunciare all’idea di un cambiamenti significativi, contentandosi, nel breve period, del “meno peggio”.

Le istituzioni dell’Unione Europea governano esclusivamente nell’interesse delle imprese, della finanza e del capitale, rappresentando i principali promotori delle politiche di austerità nel nostro continente. Un voto per lasciare l’Unione Europea il 23 giugno potrebbe inviare significative onde d’urto attraverso l’architettura finanziaria globale e danneggiare i suoi propositi di continuare a promuovere l’agenda di austerità. Un simile voto dimostrerebbe anche che il popolo britannico ha capito quale sia l’unico modo per fermare il trattato TTIP, che rischia di infliggere ulteriori ondate di privatizzazioni nel Sistema Sanitario Nazionale e nei servizi pubblici essenziali: uscire dall’Unione Europea. Queste sono esattamente le ragioni per le quali le grandi multinazionali, gli Stati Uniti e il capitale globale stanno disperatamente finanziando e sostenendo la campagna affinchè la Gran Bretagna rimanga all’interno dell’UE.

Questo referendum è su questioni di classe, non su questioni oggetto di astruse negoziazioni tecnicistiche. Se i sindacati, a livello nazionale ed europeo, dicono di poter ottenere accordi favorevoli per i lavoratori con le istituzioni dell’UE e i loro padroni riuniti nella Tavola Rotonda degli Industriali, come mai questo non è già avvenuto?

Questo referendum pone alla classe operaia un quesito molto semplice: i lavoratori vogliono un futuro di collaborazione intergovernativa in base ai principi di convivenza pacifica e del rispetto dell’autodeterminazione delle nazioni (sanciti dalle Nazioni Unite), o una continuazione delle politiche di austerità infinita promosse dalla UE in cui super-stati sovranazionali sono attivamente impegnati a finanzializzare e privatizzare tutti i settori delle attività umane?

In questo contesto, è anti-internazionalista seminare l’illusione che la Gran Bretagna, al di fuori dell’UE, diventerebbe preda di una sistematica opera di demolizione dei diritti dei lavoratori, come affermato dai comunicati ufficiali del Trades Union Congress.

Questo è semplicemente falso. Decenni di economia neoliberista promossi dall’Unione europea si sono basati sulla negazione del più elementare dei diritti dei lavoratori – il diritto al lavoro stesso. La quantita’ totale di disoccupati nell’UE e’ equivalente al totale della forza lavoro a tempo pieno della Gran Bretagna (22,980,000). L’Unione Europea è una area economica caratterizzata dalla bassa crescita, e dall’attacco a storiche conquiste sociali del movimento operaio, quale la contrattazione collettiva.

Ai paesi in via di adesione, ed alle nazioni alle prese con gravi problemi finanziari, è stata imposta, come prima condizione per l’accesso ai cosiddetti “piani di salvataggio”, la demolizione degli accordi di contrattazione collettiva. L’Unione Europea sarebbe un bastione dei diritti delle donne? Provate a parlarne con le donne della classe lavoratrice greca, spagnola o portoghese, che, eroicamente, resistono all’agenda di austerità aggressiva promossa dall’UE.

La Corte di Giustizia Europea sostiene i principi fondamentali dell’UE di “libera circolazione” dei capitali, del lavoro, dei beni e dei servizi. Ecco perché le sue sentenze automaticamente distruggono i diritti dei lavoratori. I casi Viking, Laval e Rüfferti lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio.

Inoltre, la crisi economica del 2008 è stata utilizzata per far passare una serie di politiche che conferiscano alla Commissione Europea (non eletta tramite un voto democratico) il potere di veto sui bilanci dei governi degli Stati membri e sui loro piani di spesa.

Una road map concreta è stata articolata da parte dell’UE intorno circa l’assalto ai diritti dei lavoratori; questo ha recentemente portato a proteste di massa in Bulgaria e scioperi generali in Portogallo.

Poiché alcuni a sinistra paiono avere gli occhi foderati di prosciutto dal mito (morto da lungo tempo) della cosiddetta “Europa sociale”, il compito di organizzare una reale solidarietà internazionale con queste lotte è stato trascurato.

Facciamo rivivere il profondo internazionalismo del movimento operaio e sindacale della Gran Bretagna. Votiamo per lasciare l’Unione Europea. Rendiamo possibile un nuovo mondo.

i Casi di sentenze della Corte di Giustizia Europea riguardanti episodi di “dumping sociale”, nei quali il pronunciamento dell’istituzione non ha fornito alcuna garanzia nei confronti dei diritti dei lavoratori.

Di Enrico Tortolano*

*Coordinatore della Campagna “Trade Unionists Against the EU” (Sindacalisti Contro l’Unione Europea)

Articolo originale apparso il 18 Marzo sul quotidiano britannico Morning Star (http://www.morningstaronline.co.uk/a-01f6-Lets-fight-on-our-terms-not-EUs#.VweFUfkrK71)

Traduzione a cura della Redazione di Contropiano

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