«Mayday Mayday Mayday, Moby Prince Moby Prince Moby Prince, Mayday Mayday Mayday, Moby Prince! Siamo in collisione, siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Siamo entrati in collisione e prendiamo fuoco! Mayday Mayday Mayday, Moby Prince, siamo in collisione ci serve aiuto!».
Partiamo da qui, dall’immediata necessità di aiuto lanciata via radio dal traghetto alle 22.25. Il messaggio è chiaro e dice almeno tre cose: che c’è una imbarcazione, il Moby Prince, che c’è stata una collisione e che c’è del fuoco. Quali che siano le ragioni della collisione (naturalmente anche quelle importanti, chiaro), c’è una richiesta di aiuto lanciata all’esterno e contestualmente l’attivazione delle procedure e dispositivi di sicurezza all’interno del traghetto in attesa appunto dei soccorsi. A bordo del Moby Prince quella sera ci sono, tra equipaggio e passeggeri, 141 persone. C’è un traghetto, c’è una collisione (con una nave molto più imponente, la petroliera Agip Abruzzo), c’è una richiesta di aiuto, c’è il fuoco (c’è il petrolio che fuoriesce e che investe la prua), ci sono i dispositivi di sicurezza, ma di quelle 141 persone solo una tornerà viva a terra, il mozzo Alessio Bertrand. 140 persone perdono la vita in quel rogo che avvolge il Moby Prince dopo la collisione. 140 morti, nessun colpevole.
Era l’aprile del 2006, 15° anniversario della strage, e su uno dei primissimi numeri di questo nostro giornale (il 4° per la precisione), ospitammo la lettera di Loris Rispoli dell’associazione “140” (di fianco al nostro articolo sulla vicenda a firma Tito Sommartino e dal titolo indicativo “Chi è stato è Stato”), da sempre attivo nel mantenere viva la memoria e la coscienza collettiva (privata e pubblica) rispetto a questa tragedia. 15 anni allora e due processi (primo grado a Livorno e secondo grado alla Corte d’Appello a Firenze) e Rispoli in un passaggio di quella lettera scriveva chi secondo i familiari delle vittime erano da considerare i veri responsabili: «l’armatore Onorato, il comandante della Capitaneria Albanese, il comandante della Petroliera Superina. Sono loro che con le loro azioni, i loro comportamenti, le loro omissioni hanno permesso che quella notte sul traghetto Moby Prince trovassero la morte 140 persone. Vogliamo sapere perché si è fatto un processo a imputati di secondo piano e perché, in ogni caso, si sono assolti tutti». Perché appunto, qualsiasi sia la causa della collisione (nella rada di Livorno, controllata dai radar americani – ma i relativi tracciati sono sempre stati omessi – quella sera sembra configurarsi uno scenario degno di una spy story, con strani traffici e navi fantasma e la vicenda del Moby è stata collegata a quella di Ilaria Alpi), sicuramente ci sono delle responsabilità oggettive per i ritardi nei soccorsi e per il mancato funzionamento dei dispositivi di sicurezza a bordo.
Ora che di anni ne sono passati 25 questa domanda resta ancora aperta e senza risposta. Non accolta in questi ultimi anni la reiterata richiesta da parte dei familiari delle vittime di continuare a fare luce e giustizia anche aprendo un nuovo processo, finalmente, dopo anni di richieste il 22 luglio 2015 (grazie alla campagna di sostegno #iosono141) è stata invece votata l’istituzione di una Commissione Parlamentare d’Inchiesta che ha tra i suoi compiti quello di chiarire come e quando sono morte le vittime ed accertare le cause della collisione con l’Agip Abruzzo. Ora che di anni ne sono passati 25, paradossalmente, la città di Livorno, dopo anni di rimozione, sembra molto più coinvolta e presente al fianco dei familiari delle vittime, anche grazie all’ottimo lavoro di Effetto Collaterale, che nel 2012 mise in scena “1991 Il fatto non sussiste” e che per questo 25° anniversario dal novembre 2015, ogni 10 del mese ha calendarizzato una particolare iniziativa. Ultima, quella del 10 marzo, molto partecipata: 140 sedie in piazza. Perché la ricerca di verità e giustizia è un atto di responsabilità collettiva ed ognuno deve fare la sua parte.
- Pubblicato sul numero 114 (aprile 2016) dell’edizione cartacea di Senza Soste
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