Nella vicenda sindacale italiana, da alcuni anni, è vissuta, nell’immaginario politico generale e nei comportamenti pratici di numerosi attivisti e delegati, la cosiddetta anomalia FIOM ossia la convinzione che questa organizzazione avrebbe incarnato una idea del conflitto sociale antitetica, o quanto meno diversa, dal corso politico generale rappresentato della CGIL.
Per più di un decennio questa suggestione ha esercitato una vera e propria egemonia culturale e materiale ben oltre gli ambienti sindacali alimentando una narrazione che – poco materialisticamente – è stata attenta esclusivamente agli aspetti formali e di facciata e poco, invece, ai dati concreti attinenti la materialità dello scontro sindacale e sociale nei posti di lavoro.
E’ stato evidente che la lunga stagione della lotta al berlusconismo (sostanzialmente dal 1994 al 2011) ha ridato fiato e ruolo alla CGIL consentendo alla FIOM di poter mettere in atto una banda di oscillazione e di movimentazione politica più disinvolta rispetto alla casa madre confederale.
Una pratica che – oggettivamente – è stata da freno verso un gran numero di compagni ed attivisti che hanno preferito continuare a far vivere il loro protagonismo dentro questo contenitore. Un esercizio, a volte anche inconsapevole, di vera e propria continua legittimazione politica di questo sindacato nei confronti di un importante segmento del mondo del lavoro e della produzione.
Con la messa in mora di Berlusconi da parte dei settori forti della borghesia continentale europea, con l’avvio dei governi tecnici (Monti, Letta, Renzi) all’ombra dell’immanente azione antisociale della Trojka il quadro generale si è profondamente modificato e, di converso, anche la forma-sindacato ha subito tutte le conseguenze di tali mutamenti.
La fase della concertazione è, definitivamente, tramontata e, tendenzialmente, si è andata affermando, sul versante delle relazioni sociali, l’elemento cardine della subalternità e/o dell’aperta complicità tra le organizzazioni sindacali, il padronato e i vari governi.
La FIOM – con buona pace di tanti delegati e lavoratori che ancora sostengono questa organizzazione – si è, progressivamente, adeguata a questa nuova condizione nonostante, astutamente, Landini ha continuato ad interpretare il suo personaggio da urlatore nei talk show televisivi dove continua, ad onore del vero, ad usufruire di uno spazio spropositato se rapportato alla reale incidenza della sua organizzazione.
L’anomalia FIOM esordisce con la Vertenza/Pomigliano del 2010 dove il gruppo dirigente di questa organizzazione tenta di interpretare il palese malcontento operaio al nuovo corso antioperaio di Sergio Marchionne e del gruppo dirigente della FIAT.
Per alcuni anni si è andata alimentando una rappresentazione della FIOM e del suo “capo” che trovava sostenitori, spesso fortemente apologetici, anche fuori dai posti di lavoro. Tifosi e supporter ad iosa particolarmente tra le fila di una sinistra politica che incasellava sconfitte e depressioni una dietro l’altra e che sognava, illusoriamente e tragicamente, una improbabile riscossa che dovesse essere incubata dal Maurizio Landini nazionale.
Infatti la FIOM – in quegli anni – ha operato anche alcune “incursioni” sul versante squisitamente politico che, alla prova dei fatti, si sono rivelate fallimentari e prive di una qualsivoglia prospettiva politica e progettuale (da Uniti contro la Crisi alle varie versioni della Coalizione Sociale/Unions) che potesse fare da argine effettivo al complesso dell’offensiva capitalistica a tutto campo nei posti di lavoro e nei territori.
Ma anche sul piano prettamente sindacale/contrattuale l’anomalia FIOM ha subito mostrato i propri limiti sia di carattere politico e sia sul piano strettamente vertenziale e sociale.
Dopo lo scontro con Marchionne (e la buona affermazione dei NO ai Referendum tra i lavoratori di Pomigliano e Torino) il gruppo dirigente del sindacato di Landini ha iniziato a sottoscrivere una serie di accordi (partendo da quello alla Bertone che costituì un autentico punto di svolta) che, di fatto, facevano rientrare dalla finestra quelle forme di deregolamentazione dell’organizzazione del lavoro che si contestavano sul piano generale.
Una vera e propria marcia del gambero che si è consumata, spesso sotto silenzio, specie nella fase degli accordi integrativi ed in quelli dei vari gruppi industriali, che ha svilito la presunta natura antagonistica della FIOM ed operando, quindi, un seria azione di depotenziamento e di narcotizzazione delle tante energie che si erano manifestate e rese disponibili ad un possibile percorso di lotta.
Ripercorre ora tutta la parabola discendente di tale deriva sarebbe un esercizio lungo in questo articolo. Ci interessa però evidenziare che persino nel momento più pesante dell’attacco padronale e governativo (il varo del Jobs Act da parte del governo Renzi) il sindacato di Landini si è limitato alle iniziative di protesta indette dalla CGIL.
Certo a volte abbiamo ascoltato la minaccia di mettere in atto fantasiose occupazioni di fabbriche ma, in realtà, non abbiamo mai visto dare vita ad azioni conflittuali che rompessero la gabbia delle abituali relazioni sindacali vigenti e spingessero verso una ipotesi di protagonismo vero delle lavoratrici e dei lavoratori sia nei posti di lavoro e sia sui territori.
La crisi FIOM nell’ultimo periodo.
Nei mesi che stanno alle nostre spalle – con epicentro negli stabilimenti F.C.A. (ex FIAT) – si è prodotto uno scontro tra alcuni delegati FIOM e le direzioni aziendali di questa multinazionale.
E’ noto che in tutto il gruppo FCA vige un dispotico comando sulla forza lavoro che se, all’immediato, ha scompaginato la forza contrattuale dei lavoratori ha, però, posto le condizioni oggettive per una ripresa oggettiva ed auspicabile della reazione operaia verso la crescente insopportabilità delle proprie condizioni di lavoro.
Alcuni delegati FIOM (aderenti, tra l’altro, all’Area della minoranza congressuale della CGIL) si sono messi alla testa di queste proteste, hanno tentato di coordinarle tra loro ed avevano avviato – dove era possibile – sinergie e collegamenti di lotta con attivisti del sindacalismo conflittuale presenti in queste stesse fabbriche.
La FIOM di Landini invece di schierarsi risolutamente dalla parte di questi delegati, invece di dare loro sostegno politico ed organizzativo ed invece di difenderli dalle rappresaglie dell’azienda ha intimato loro di dismettere immediatamente queste iniziative definendo i compagni coinvoltiincompatibili con la linea politica dell’organizzazione.
Come se non bastasse – per sancire, pesantemente, anche sul piano simbolico il proprio incontrastato dominio e controllo sulla vita dell’organizzazione – la segreteria nazionale della FIOM ha licenziato (dal lavoro per l’organizzazione) Sergio Bellavita, coordinatore nazionale della minoranza congressuale della CGIL e compagno in stretto rapporto con i delegati FCA,- con il dichiarato obiettivo di stroncare ogni tentativo di enucleare e far,crescere una coerente opposizione alla linea, oramai, apertamente collaborazionista della CGIL e, nei fatti, anche della FIOM.
A questo punto – in un Incontro nazionale lo scorso 11 giugno a Roma – dopo un periodo di discussioni e confronti politici e sindacali un consistente gruppo di compagni della FIOM e della CGIL ha annunciato l’abbandono di questa organizzazione decidendo di continuare il loro impegno nel sindacalismo conflittuale e, più specificatamente, nell’Unione Sindacale di Base.
Un approdo che segue quello di tante compagne e compagni che, in varie parti d’Italia, si sono allontanati dalla CGIL ed hanno scelto di contribuire alla ricostruzione di una moderna forma sindacale di classe nel nostro paese.
La ricerca, la discussione e il lavoro per la ricostruzione del Sindacato di Classe.
La scelta di questi attivisti di rompere definitivamente con la CGIL sollecita, inevitabilmente, la riflessione su alcuni snodi attinenti la possibilità, o meno, di alimentare un efficace dissenso organizzato nelle attuali forme del sindacato collaborazionista.
Nel recente Seminario Nazionale della Rete dei Comunisti (LE RAGIONI E LA FORZA, giugno 2016) – riflettendo su tale questione – abbiamo affermato: “……sul tema dell’organizzazione del conflittova sottolineato come in Italia lo scontro nel mondo del lavoro, con le sue attuali configurazioni, ormai vive fuori definitivamente da quelle che sono state le organizzazioni storiche del movimento operaio. L’involuzione in atto della FIOM manifestatasi con la pratica delle espulsioni è un sintomo significativo di come il dissenso nell’ambito sindacale tradizionale non può sopravvivere alla stretta che viene fatta e che ha origine dentro i processi di centralizzazione autoritaria che impone l’Unione Europea ai paesi membri ed alle loro organizzazioni sociali. La fuoriuscita di importanti settori operai, e non solo, da quella organizzazione è un segnale che diviene ancora più forte se si mette in relazione al conflitto sindacale e politico che sta ora in pieno svolgimento in Francia dove quella che è stata da noi definita concertazione è completamente saltata e dove si dimostra che è possibile lottare anche in un contesto estremamente difficile come quello che sta determinando l’Unione Europea.
Sul terreno direttamente sindacale però non contano solo gli eventi che dimostrano la irriformabilità delle organizzazioni sindacali complici ma va fatta una riflessione su come i comunisti hanno concepito l’intervento nel sindacato, in particolare nella CGIL, nel nostro paese. Il “principio” politico che è stato sempre, ed ancora oggi per alcuni, richiamato per motivare la necessità di rimanere dentro le organizzazioni complici è stato quello per cui si deve stare comunque dentro le organizzazioni di massa orientandone il conflitto anche se queste sono riformiste o “reazionarie”. Il richiamo è al leninismo ed alla funzione che i comunisti hanno svolto nel nostro paese anche dentro i sindacati fascisti nel ventennio della dittatura.
Se del leninismo va salvaguardato, dal nostro punto di vista, il nesso stretto da costruire tra il partito e le masse, tra i settori avanzati e quelli medi della classe e dunque la continuità ed il rafforzamento del rapporto di massa, quello che va capito in realtà è se questo principio oggi si possa attuare dentro o fuori le organizzazioni sindacali concertative. Questo ci rinvia alla questione della composizione di classe ovvero se le attuali confederazioni sono rappresentative di questa composizione e, dunque, se ne rappresentano gli interessi anche se solo in modo corporativo; in questo è evidente che oggi il rapporto non c’è in termini di rappresentanza organizzata in quanto basta confrontare i dati della realtà produttiva del nostro paese, ovvero dei caratteri attuali del mondo del lavoro nelle sue molteplici sfaccettature, con quelle delle organizzazioni confederali per capire che da tempo viaggiano su binari diversi e divaricanti.
Come non tiene il discorso di lavorare dentro i sindacati anche “reazionari” in quanto le contraddizioni che esistevano in altri momenti storici dove si manifestavano in conflitti molto più forti ed addirittura violenti oggi non possono emergere ed affermarsi contro apparati burocratici che sono strettamente controllati dalle direzioni. Apparati dove la funzione di rappresentanza è stata ampiamente sostituita da quella di servizio o, per essere più chiari, da quella del controllo sociale tramite diverse forme di redistribuzione clientelare.
Su questo rimandiamo per un approfondimento teorico ad uno scritto della RdC, che pubblicheremo sul nostro sito, dove nel 2002, nella nostra prima assemblea nazionale, avevamo sviluppato una riflessione più strutturata a partire dai dati storici delle evoluzioni sindacali e del ruolo avuto dai comunisti dentro questa dimensione del conflitto di classe.
Come si evince da questa citazione il nostro atteggiamento nei confronti della crisi della FIOM è tutto incardinato ad una interpretazione oggettiva della natura delle contraddizioni in essere le quali – nel loro divenire – si collocano ben oltre le miserie individuali del dirigente collaborazionista di turno.
Ed è su questo crinale che come Organizzazione Comunista – come militanti della Rete dei Comunisti– interveniamo direttamente nelle lotte operaie e nell’intera gamma delle forme concrete con cui si articola il moderno sfruttamento capitalistico nei posti di lavoro, nei territori e nell’intera società.
Un intervento politico ed organizzativo sia sul versante delle rivendicazioni economiche e specifiche ma anche e soprattutto attorno alle questioni attinenti gli snodi politici che sottendono alle vertenze, ai conflitti ed allo scontro generale.
In tale contesto l’accertata crisi della FIOM ed, ancora di più, dell’intera CGIL aumentano la determinazione politica di quanti – attivisti, delegati, lavoratori, compagni – intendono assumersi responsabilità politiche ed organizzative a larga scala rompendo con l’impotente attività di “minoranza agente” in questa organizzazione.
La costruzione di un sindacato conflittuale, modernamente confederale, proiettato sulle contraddizioni metropolitane, di orientamento classista ed internazionalista necessita del contributo di tutte e tutti.
Un contributo che – anche alla luce di un bilancio critico ed autocritico della recente stagione sindacale italiana – dovrà essere profondamente incardinato ad una prospettiva autonoma ed indipendente la quale è la precondizione per consolidare un futuro positivo per il sindacalismo di classe nel nostro paese.
Agosto, 2016
di Michele Franco, Rete dei Comunisti Napoli
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