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#NoRenziDay. La grande bellezza del razzismo di classe

 

Questa è una nota di costume, cioè di morale, quindi di politica. Faccio questa premessa per avvertire subito i possibili lettori ed evitare loro di perdere tempo, nel caso fossero interessati ad altro.

Dopo le due splendide giornate di classe vissute il 21 e il 22 a Roma, in mezzo ai lavoratori e agli “ultimi del mondo”, a uno dei quali (Abd Elsalam) è stata simbolicamente intitolata una delle piazze storiche per il movimento operaio italiano, giunti a Campo dei fiori, sotto lo sguardo severo di uno degli intellettuali più geniali che l’Italia abbia mai avuto in Europa, Giordano Bruno, mi capita di entrare in una rivendita di tabacchi per comprare un accendino. Dentro la rivendita dei lavoratori immigrati – di quelli venuti dalle campagne, di quelli che raccolgono i frutti della nostre campagne che poi finiscono nel variopinto mercato di Campo dei Fiori – compravano non so cosa. Due signore diversamente giovani, ben vestite e con la faccia un po’ schifata, osservavano i nostri lavoratori e commentavano, senza alcun timore di essere sentite (anzi…), il cattivo odore che emanavano questi “dannati della terra”, affermando: «Ecco, sono questi quelli che sono venuti a scioperare…».

Io intanto compro l’accendino, pago, il rivenditore non emette lo scontrino (ci sono abituato a non ricevere lo scontrino) e me ne vado schifato, mandando a quel paese le signore.

Subito dopo, mentre provo ad accendere finalmente la mia sigaretta, ricevo la telefonata di un mio amico di Catania, emigrato a Roma per lavorare nel mondo dello spettacolo per due soldi, e mi racconta di uno dei tanti pranzi tra i radical chic della bella vita romana a cui si ritrova costretto ad andare per intessere relazioni che poi gli portano lavoro, e mi racconta di aver incontrato uno della CGIL. Il mio amico gli chiede ingenuamente – tanto per lui i sindacati sono tutti uguali –: «Ma tu che ci fai qui? Non dovresti essere in piazza?», e l’altro risponde seccamente e con quel tanto di orgoglio ferito: «Io sono della CGIL», scandendo bene le lettere che compongono la sigla. Ci teneva a rimarcare la differenza rispetto all’USB.

Finita la sigaretta, mi metto vicino agli altoparlanti per ascoltare gli interventi, e sono vicino a uno dei ristoranti che circondano la piazza, trasformandola di sera in uno dei luoghi più tipici della gentrificazione romana. I lavoratori del ristorante, forse camerieri o lavapiatti, uno di questi immigrato, osservano anche loro un po’ infastiditi alla manifestazione, perché ha fermato il loro lavoro. Qualcuno di essi dice: «Comunisti… andate a lavorare….». Passa un conoscente, saluta i lavoratori fuori dalla porta in attesa di poter sistemare i tavolini fuori, e dice proprio a quel migrante: «Ti riposi, eh?». E va via sorridendo.

Allora mi viene da pensare che nel giro di mezz’ora avevo accumulato tre episodi di odio razzista di classe. Il primo era scontato: la signora perbene della media borghesia, senza timore del politically correct, esprime bene la sua posizione di classe. Il secondo, ormai pure: il sindacalista, anziché vergognarsi, ostentava uno stupido orgoglio da burocrate e “nemico del popolo”, come si sarebbe detto un tempo. Il terzo, un po’ più inaspettato, è quello introiettato da uno degli ultimi del mondo, che magari aveva già raggiunto un suo pezzo di terra promessa, ma era infastidito dal fatto che lo volessero anche altri. Chissà, forse quel passante gli ha fatto notare che, nell’immediato, fosse solo per un quarto d’ora, quei cafoni in piazza gli avevano permesso di riposarsi qualche minuto in più.

 

Foto di Patrizia Cortellessa

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