Nei giorni scorsi una fotografa naturalista negli Stati Uniti ha fotografato un enorme pesce spiaggiato su un litorale. Si trattava di una grossa anguilla marina che vive nelle profondità dell’Oceano Atlantico. Comprensibilmente incuriosita dalle dimensioni dell’animale, la fotografa non ha consultato nessuna enciclopedia o atlante naturalistico (ve ne sono anche online fruibili gratuitamente). Ha semplicemente postato la foto su un social network chiedendo agli amici di rispondere al quesito su che tipo di animale fosse. Dopo poco rispondeva un biologo marino del Smithsonian Institute degli USA svelando l’arcano. Questa notizia, curiosa ma decisamente minore, ha fatto però il giro delle agenzie internazionali e ha campeggiato a lungo sulla home page del principale quotidiano online italiano. Ovviamente, era ben specificato il nome del social network in questione. Che otteneva quindi un bel po’ di pubblicità.
Lo stesso social network è poco sviluppato in Italia, battuto da un suo concorrente con molti più utenti. Nonostante questo, la maggior parte dei politici, dei giornalisti e degli opinion maker ci scrive sopra. Questo fa sì che, negli articoli di informazione, il nome del social network continui a essere presente. Eppure, la logica imporrebbe di far circolare il più possibile le proprie opinioni e quindi sarebbe apparentemente più logico utilizzare altre piattaforme.
Evidentemente è in atto una forte campagna pubblicitaria per sostenere una certa piattaforma, campagna supportata dai principali mezzi di informazione, campagna che usa dei promoter a cui si chiede una sorta di esclusiva nell’uso.
È altresì evidente che una tale campagna non sarà gratuita, ma i costi dovranno essere ottenuti da un aumento del guadagno dovuto all’aumento del numero dei contatti o degli affiliati.
Il meccanismo con il quali i social network e le varie piattaforme online guadagnano cifre spaventose è oramai noto al pubblico più attento. La consapevolezza di massa di questo fenomeno però è tutta da verificare, in quanto il singolo utente fatica a rendersi conto del meccanismo che sta dietro a queste grandi imprese multinazionali. In effetti, sembra tutto gratis: l’iscrizione non si paga, le tariffe telefoniche sono costruite promettendo tempi di navigazione gratuiti, la corrente elettrica necessaria per ricaricare le batterie dei vari hardware (PC, smartphone, tablet) non è elevatissima. Effettivamente paghiamo pochissimo ma, d’altronde, per vestirci spendiamo denaro e consumiamo stoffe, per mangiare consumiamo i soldi per i cibi ma anche acqua e gas, se camminiamo consumiamo le suole delle scarpe e si potrebbe continuare all’infinito indicando i consumi evidenti e nascosti nella nostra vita quotidiana. Il problema nasce quindi da un’altra parte: se consumiamo la suola delle scarpe (perché camminiamo troppo, ad esempio), dobbiamo poi comprarne di nuove e quindi diamo i soldi a un negoziante che fa da tramite verso un produttore dove lavorano gli addetti che vengono pagati (in base ai contratti di lavoro più o meno sensati). Si tratta di una transazione a cui non pensiamo troppo, ma che è nota perché caratteristica di un sistema economico che possiamo definire classico. D’altronde le scarpe sono un oggetto fisico reale e tangibile, sono un prodotto materiale di cui controlliamo i materiali, le cuciture e le rifiniture. Siamo quindi sicuri che il marchio stampato sulla suola corrisponde a una fabbrica dove arrivano i materiali, ci sono i lavoratori che li tagliano e cuciono, ci sono i disegnatori che tracciano lo stile, ci sono i trasportatori che fanno arrivare la merce al negozio.
Per tutto il Novecento, pur non avendo necessariamente una determinata coscienza politica o sociale, un lavoratore di una catena di montaggio di automobili sapeva benissimo che un padrone lo assumeva per fare un oggetto (magari in cooperazione con altri e attraverso l’uso di macchinari), che poi sarebbe stato rivenduto ottenendo un guadagno superiore al costo delle materie prime, dei macchinari e del salario che gli veniva fornito. Il meccanismo era ben noto a tutti, il lavoratore in base a questo poteva sentirsi uno sfruttato oppure no, ma sapeva, almeno a grandi linee, come funzionava il ciclo della merce. Eppure, molto probabilmente non aveva avuto voglia o possibilità di leggere il Capitale di Karl Marx che spiegava molto bene questi meccanismi.
Il meccanismo con il quale le grandi multinazionali dell’informatica fanno profitti è invece decisamente meno chiaro e, forse, vale la pena di approfondire.
Big Data
La mutazione di paradigma dell’alfabeto del capitalismo estrattivo è impressionante. Se dieci anni fa le Big Tech erano Exxon Mobil, General Electric, Microsoft, CityGroup, BP e Shell, oggi Alphabet, Amazon, Apple, Facebook e Microsoft dominano il mondo. Valgono da sole più del Pil della Gran Bretagna.
È in atto una nuova rivoluzione industriale che ci sta riportando indietro, dall’età della borghesia al sistema feudale. La mutazione di paradigma dell’alfabeto del capitalismo estrattivo è impressionante. Quella che per Lacan era la struttura dell’inconscio, unità di produzione del desiderio, è oggi trasformata in valore dalle Big Tech, che prosperano monetizzando l’inconscio e i suoi desideri. Il dominio nella raccolta pubblicitaria – Facebook 9,3 miliardi di dollari nel primo trimestre 2017, +45% sullo scorso anno, Alphabet 26 miliardi, + 21% – è solo la cornice di quest’opera seriale alla Damien Hirst. (1)
All’interno dei paradigmi legati all’uso della tecnologia qualcosa di abbastanza semplice da capire c’è. Se apriamo un social network, oltre alle produzioni varie dei nostri contatti troviamo numerosi messaggi pubblicitari. Se apriamo un sito, magari perché vogliamo controllare gli ingredienti di una ricetta per la cena, siamo bombardati da banner pubblicitari. Magari cerchiamo di non aprirli, ma sicuramente li vediamo e ne siamo influenzati. In questo caso è facile comprendere come molti degli introiti legati alla rete web sono dovuti alla presenza di banner pubblicitari e aziende che pagano per il servizio. Ma questo è semplice. Leggermente più complicato è capire per quale motivo, dopo aver aperto per tre volte un sito che riporta succulente ricette vegetariane, aprendo un social network vedo comparire nella fascia laterale pubblicità di merendine biologiche o bannerini che mi invitano a sostenere una lista alle elezioni che difende i diritti degli animali. Evidentemente qualcuno ha notato il mio interesse per i cibi vegetariani e mi ha inserito in un gruppo potenzialmente interessato a spendere molto denaro per cibi di altissima qualità o a sostenere un gruppo animalista con il mio voto. Così come è evidente che, se vado a cercare i video di qualche gruppo punk, dopo un po’ qualcuno mi consiglierà l’acquisto di un bomber, di anfibi o di giacche di pelle. Qualcuno, cioè, ha acquistato i miei dati e li ha rivenduti a chi ne può far uso. Tutto questo viene svolto da operatori che usano algoritmi sempre più sofisticati (in realtà non così tanto sofisticati per il momento: è facilissimo infatti che consultiamo il sito di vari gruppi di sinistra e compaiano bannerini che invitano a votare per gruppi liberali o di estrema destra).
In gergo tecnico economico si tratta dei Big Data, ovvero della acquisizione e vendita di dati personali a uso di aziende o di enti interessati (tra cui, vi sono sicuramente i servizi di intelligence e le polizie, ma questo è un discorso diverso).
Il giro d’affari intorno al fenomeno della raccolta dati è gigantesco. Questo fa sì che le aziende Big Tech siano oggi le più grandi multinazionali del pianeta con un potere immenso. Aziende che impiegano manodopera con diversi inquadramenti, ma anche con fenomeni enormi di sfruttamento. I lavoratori che forniscono la loro opera sono chiamati da Carchedi “lavoratori mentali” e tutto l’opuscolo prodotto serve a inquadrare la loro opera all’interno delle nostre economie.
La società della conoscenza
Nel mondo ci sono circa due miliardi di lavoratori salariati, disseminati nelle varie zone del globo in una concentrazione variabile legata all’attuale sistema di dislocazione della produzione. La maggior parte della nostra classe è impegnata in lavori di tipo manuale, è impiegata in fabbriche enormi dove svolge lavori a contatto con catene di montaggio e altri strumenti non dissimili da quelli classici del Novecento. All’interno della suddivisione mondiale della forza lavoro molti svolgono un lavoro classicamente definito come produttivo (sono impegnati direttamente nella produzione di merci che verranno vendute sul mercato), altri svolgono lavori classicamente definiti improduttivi (commercio, formazione, raccolta dati, servizi alle imprese, welfare). Tutti i mezzi di produzione, sia quelli attualmente in uso, sia quelli classici del regime di accumulazione novecentesco sono il risultato delle conoscenze tecniche applicate ai metodi di produzione. Era così ai tempi delle enormi catene di montaggio nei capannoni della Fiat di Torino, è così oggi dove il capitale organico (macchinari di produzione) è enormemente sviluppato a causa dell’incessante miglioramento tecnologico. In un recente saggio, Gigi Roggero(2) sosteneva che i facchini e gli addetti al trasporto merci nei grandi magazzini della logistica possono a buon diritto essere considerati “lavoratori cognitivi”. La provocazione di Roggero va, a nostro parere, assunta in quanto tale: se, da un lato, è curioso definire come cognitivo un lavoratore addetto al trasporto quotidiano e ripetuto di pesi e oggetti ingombranti, dall’altro lato è sicuramente vero che il loro lavoro è immerso in una linea logistica determinata attraverso l’uso di tecnologie molto sofisticate e ad alto livello di conoscenza applicata. All’interno delle nostre società, comunque, prende sempre di più spazio una economia legata al cosiddetto sistema dei servizi. L’economia reale nei nostri luoghi è quindi sempre di più legata ad attività legate all’intelletto. È determinante quindi una analisi del “lavoro mentale”, cioè del lavoro che prevede la trasformazione non più di un materiale ma di una conoscenza. Il lavoro di Carchedi parte quindi da qua: è lecito applicare la teoria del valore del Capitale di Marx alla produzione di conoscenze? È lecito effettuare una netta separazione tra “lavoratore mentale e manuale”? Una conoscenza è un valore oggettivo, soggettivo o possiede entrambe le valenze?
Rispondere a queste domande significa fornire uno strumento fondamentale in termini di analisi di classe della società e utilizzarlo come una teoria viva per la trasformazione sociale.
Lavoro e trasformazione
Nella categoria di lavoratore mentale ci sono parecchie incongruenze. Non solo perché, come sostiene l’autore, il lavoro mentale è anche un lavoro fisico stancante e crea variazioni fisiche non solo nelle sinapsi dell’intelletto. Il lavoratore mentale infatti è colui che produce una conoscenza: occorre capire bene se questa conoscenza rimanga puramente soggettiva (cioè di chi la produce) o sia anche oggettiva (e come tali si incarni in un oggetto fisico o possa venir utilizzata da altri soggetti). In realtà la conoscenza ha sempre una duplice natura e in questo si distingue da una merce reale che è semplicemente oggettiva e viene totalmente espropriata dal capitalista.
Una conoscenza infatti può essere direttamente materializzata in un oggetto fisico la cui vendita può essere quantificata (ad esempio un libro, un manuale, un cd, un software scaricabile dopo l’acquisto di una licenza): in tal caso la conoscenza è sicuramente una merce, anche se permane la sua natura soggettiva che non può essere totalmente alienata dal datore di lavoro e rimane come patrimonio del lavoratore. La differenza quindi tra lavoratore manuale e mentale è reale ma i due lavori presentano molti punti in comune. Per distinguere meglio, viene usata la differenza tra trasformazioni mentali e materiali. In queste ultime la forza lavoro con il contributo della macchina trasforma una merce in una diversa. Nelle trasformazioni mentali, la forza lavoro parte da due conoscenze (soggettiva personale e oggettiva presente in letteratura) per ottenerne altre due (una soggettiva che rimane parte del proprio patrimonio, una oggettiva che può essere incarnata in un oggetto reale o divenire input di una ulteriore trasformazione, ad esempio attraverso un brevetto).
L’elemento importante è qui ben evidenziato e sta nella duplice natura soggettiva e oggettiva di una conoscenza: se il lavoratore è stipendiato per la sua attività mentale la conoscenza diventa una merce monetizzabile dal capitalista. Non ne viene però totalmente espropriato e la conoscenza rimane un suo patrimonio soggettivo che può anche essere riutilizzato in modo diverso.
Rimane il fatto che la produzione di conoscenze può essere affidata a un lavoratore salariato (dal progettatore di videogiochi, software, piattaforme fino al raccoglitore di dati in un call center) oppure a un volontario più o meno consapevole chiamato “agente mentale”. Quest’ultimo è una figura chiave nell’economia della rete e può essere semplificato come un utente dei social network o della rete nel proprio tempo libero, figura che si presta a differenti interpretazioni che esamineremo successivamente. Restiamo per il momento sulla duplice natura della conoscenza e vediamo i meccanismi con i quali può essere sfruttata.
Lo sfruttamento delle conoscenze in una società capitalista
Una conoscenza, e in particolare il suo lato soggettivo che rimane proprietà del suo produttore reale, può diventare oggetto per una trasformazione non capitalista? I lavoratori mentali sono inquadrati in un’ottica totalmente al servizio di un committente capitalista. Il singolo lavoratore poi può essere idealmente scisso verso due differenti tendenze. Da un lato può pensare che la sua conoscenza sarà utilizzata dal capitale stesso per un fine comunque socialmente desiderabile, dall’altro può anche essere permeato da una idealità anticapitalista e lavorare affinché il frutto del suo lavoro venga messo a frutto anche contro il proprio committente. Ciò è esattamente quello che accade quando vengono sviluppati, ad esempio, software open source che costituiscono la base per il mondo di Linux o similari. In generale una conoscenza non è però mai totalmente personale ma è sempre una conoscenza sociale. Cioè è il risultato di una trasformazione mentale che non può fare a meno delle conoscenze pregresse del suo ideatore. Ogni conoscenza, poi, diventa collettiva trasformandosi nell’unione con altre conoscenze. Il ruolo fondamentale in tale processo è quello dell’intellettuale organico che può lavorare per il capitale (i tecnici e gli scienziati che lavorano per le multinazionali) o contro il capitale (magari all’interno di Partiti Comunisti o associazioni anticapitaliste). In entrambi i casi l’intellettuale organico è quello che spinge la conoscenza verso il suo uso fondamentale. In una società divisa in classi come quella in cui viviamo, ogni conoscenza di per sé non sarà mai neutra: da un lato perché deriverà da conoscenze pregresse legate al sistema in cui esse si sono formate, dall’altro perché il loro uso avrà una funzione come punto di partenza per altre scoperte.
In generale lo strapotere del capitale che caratterizza la nostra epoca rende le conoscenze al servizio quasi esclusivo dello sviluppo del capitale e quindi usabili per lo sfruttamento dei lavoratori. Nei film americani siamo abituati alla messa in scena di questi meccanismi. Ad esempio capiterà di vedere filmati un gruppo di scienziati intenti a lavorare per mettere a punto un nuovo medicinale. Nella finzione gli scienziati lavoreranno pensando ai poveri malati, magari concentrati in qualche paese africano, che muoiono per mancanza di cure. Alla fine riusciranno nell’impresa e il medicinale verrà brevettato. Nella cultura dominante, quella dell’impresa, la multinazionale che brevetta il farmaco guadagnerà ciò che deriva dal suo investimento e gli scienziati lo accetteranno in buona fede sicuri che comunque servirà a salvare le vite dei poveri abitanti del pianeta. Nella vita reale è però molto probabile che chi avrà bisogno di quelle medicine non potrà permettersele e il governo di quel paese povero non riuscirà a pagare il brevetto.
Un lavoratore mentale è quindi al servizio assoluto del capitale che si appropria del valore insito nella sua conoscenza. Ciò che rimane di soggettivo può essere usato anche per altri scopi, ovviamente. Ad esempio un programmatore di software per una multinazionale può essere a conoscenza dell’intero processo di produzione; a quel punto lo può mettere in rete (magari usando una identità fittizia) e questo può diventare la base per un software ugualmente funzionante ma gratuito (utilizzabile ad esempio nelle scuole di un paese socialista o nelle aule di una scuola popolare gratuita).
Oppure, sempre per rimanere negli esempi proposti, uno scienziato può essere a conoscenza dell’intero progetto di brevetto per un farmaco e può passare la procedura al Governo di un paese povero intenzionato a produrre quel farmaco a basso costo per la propria popolazione.
Il lavoratore mentale, nella sua nuova funzione sociale, non è più un lavoratore al servizio del capitale, ma diventa un attivista e la sua nuova funzione è quella di “agente mentale”. Questa figura è al centro del dibattito sull’uso delle nuove tecnologie informatiche e quindi merita un discorso a parte.
Gli “agenti mentali” e la categoria del produttore-consumatore (prosumer)
L’agente mentale è l’utente della rete. Colui che la usa durante il tempo libero o le pause del lavoro. I motivi sono molteplici: svago, attivismo sociale, egocentrismo, ricerca di amicizie o di avventure, voglia di informarsi. Comunque non è pagato per farlo, usa la rete in modo gratuito (in realtà non è esattamente così, come abbiamo spiegato precedentemente). Spesso è costretto a usarla per svariati motivi (ad esempio la televisione, altro svago per eccellenza del tempo libero, probabilmente tenderà sempre di più a trasferirsi in rete e i programmi saranno accessibili solo da una connessione internet). È una figura che richiede ulteriori precisazioni. Infatti non è da confondersi con il lavoratore mentale che è costretto a lavorare anche fuori dall’orario di lavoro, magari per rispondere alle mail o semplicemente perché deve chiudere un progetto in tempi stabiliti. In questo caso, infatti, si tratta sempre di un lavoratore che allunga il proprio orario di lavoro aumentando il numero di ore impiegate e quindi il proprio sfruttamento.
L’agente mentale vero e proprio è quindi colui che non viene pagato per ciò che sta facendo e la sua produzione è a disposizione di tutti coloro che hanno accesso alla rete. Può fare varie cose: può produrre cultura, materiali politici, svaghi ecc.
Il suo attivismo viene innanzitutto sfruttato dai lavoratori mentali che ne classificano i dati, spesso attraverso il funzionamento degli algoritmi. Secondo la teoria classica marxista è un lavoratore improduttivo, ma a differenza del classico lavoratore improduttivo non viene pagato.
Infatti il lavoratore improduttivo, storicamente, viene pagato ma non produce. È, per esempio, un medico, un docente, un lavoratore dei servizi commerciali. La classificazione dei lavoratori in produttivi e improduttivi è una categoria fondamentale nell’analisi marxista, ma va usata con cautela. Ad esempio un medico di famiglia non produce nulla, ma il suo lavoro fa sì che dei medicinali vengano prescritti, venduti e quindi debbano necessariamente essere prodotti. Sempre un dottore può decidere che un lavoratore produttivo può tornare a lavorare, magari all’interno di una azienda manifatturiera. Oppure un docente che spiega il fenomeno della combustione agli studenti di un istituto tecnico non produce nulla ma prepara futuri lavoratori i quali costruiranno su quelle conoscenze un motore che potrà finire su automobili prodotte e vendute in serie. Questi due esempi banali ci fanno capire come sia sottile la differenza tra lavoro produttivo e improduttivo. Tra l’altro, per certi versi il medico, ma soprattutto il docente, sono dei classici lavoratori mentali che producono e rielaborano conoscenze.
L’agente mentale, invece, non è un lavoratore, ma produce comunque conoscenze che qualcuno trasforma in valore. Su questo fenomeno è stata elaborata la teoria della moltitudine. Banalizzandola, questa teoria sostiene che la distanza tra produzione e riproduzione (le esigenze della vita quotidiana) si sia sostanzialmente annullata. La moltitudine, nel nostro caso specifico, è un contenitore in cui stanno dentro i lavoratori mentali (che lavorano in orario stabilito ma spesso anche fuori) e gli agenti mentali che invece lavorerebbero gratis (e quindi secondo la teoria del valore il loro sfruttamento sarebbe infinito; ciò è la base teorica della richiesta di un salario di esistenza o cittadinanza).
Secondo noi il problema non è contestare il concetto stesso di moltitudine, il problema è se possa essere confusa e riunita in un’unica classe la funzione di un lavoratore salariato a quella di un cittadino. Mentre il primo lavora per il capitale ed è soggetto a regole e contratti precisi, il secondo sta totalmente al di fuori di queste regole. Il primo ha strumenti di lotta, il secondo non ne possiede, o comunque non ha le stesse possibilità.
L’agente mentale può anche essere confuso o definito direttamente “prosumer” (termine che nel libro di Carchedi viene italianizzato in “prosumatore” cioè colui che contemporaneamente produce e consuma). In realtà occorre sempre fare distinzione tra consumi produttivi e improduttivi, così come tra lavori produttivi e improduttivi. Se un cittadino lancia una idea sul web che potrebbe portare a un oggetto vendibile è semplicemente un produttore di conoscenze che diventano tali se uno o più lavoratori mentali se ne appropriano per farne uso. L’agente mentale che ha lanciato l’idea può poi successivamente diventare un consumatore di quella merce. Ad esempio chiunque di noi può registrare musica amatorialmente, metterla in rete e poi scoprire che il ritornello è finito in un disco che poi viene acquistato da consumatori. Difficilmente un cittadino che produce l’idea contemporaneamente la consuma, e se lo fa avviene dopo un certo lasso di tempo ed è un consumo improduttivo. Un lavoratore mentale invece può produrre una idea e questo può portare attraverso mezzi di produzione a ottenere una merce da cui verrà ricavato un profitto.
Anche qui, sotto molti punti di vista emerge la distanza reale tra agenti mentali e lavoratori mentali.
Conclusioni
“I filosofi hanno [finora] solo interpretato diversamente il mondo; ma si tratta di trasformarlo.”
Karl Marx, “Tesi su Feuerbach”
La citazione che apre questo paragrafo finale è tratta dalle tesi su Feuerbach di Karl Marx. E’ una frase famosissima il cui significato, secondo noi, va colto per intero: significa che lo studio della società è una operazione che ha bisogno di scientificità e quindi di suddivisione e di schemi adatti a coglierne tutte le sfumature. Questi schemi sono utili per aumentare la comprensione delle cose ma hanno un senso solo se la loro funzione è rivoluzionaria. Non ha senso una classificazione solo per l’analisi ma ha senso se è utile per una teoria della trasformazione.
Negli studi marxisti successivi al Capitale di Karl Marx (di cui ricorrono i 150 anni dalla pubblicazione) le suddivisioni tra lavoro produttivo e improduttivo, tra lavoro di produzione e di riproduzione, tra merce reale e conoscenza corrispondono esattamente alle esigenze sopra descritte. In più sono ovviamente concetti in relazione dialettica, che si influenzano a vicenda e variano nel corso del tempo.
Che vi sia una relazione fortissima, tra concetti che classificano momenti e oggetti differenti non è una novità comparsa all’improvviso sul palcoscenico delle relazioni sociali. Il lavoro di riproduzione in una società ha sempre influenzato il lavoro produttivo ad esempio attraverso il consumo delle merci. Produrre un manufatto è sempre stato legato alla produzione di una conoscenza (che storicamente si è incarnata nei mezzi di produzione più o meno sofisticati o nelle procedure lavorative). I lavoratori produttivi hanno sempre beneficiato dell’opera dei lavoratori improduttivi e viceversa.
La suddivisione scientifica in categorie separate per Marx e per chi lo ha seguito rispondeva quindi a una necessità analitica, ma anche a stabilire come intervenire nella società e come i diversi segmenti potevano intervenire per cambiarla attraverso la lotta di classe.
Il lavoro di Guglielmo Carchedi “Lavoro Mentale e Classe Operaia”, da cui abbiamo preso le mosse per queste note, non fa che ribadire questi concetti premurandosi di analizzare queste categorie all’interno delle variazioni economiche e sociali intervenute nella società con l’avvento delle tecnologie di rete.
Ovviamente non è auspicabile cadere nella trappola di considerare come immutabili le categorie che si utilizzano o pensare che i confini di separazione non possano essere mobili. Nella storia dello sviluppo del modo di produzione capitalista del Novecento si sprecano le rivoluzioni tecnologiche. Il termine rivoluzione è stato applicato tranquillamente al fordismo ma anche al toyotismo con lo sviluppo del cosiddetto just in time. Si può discutere sull’uso del termine rivoluzione, ma è indubbio che il modo di produzione non è rimasto immutabile e che le variazioni abbiano avuto e debbano avere una forte influenza sulla teoria anticapitalista. La “rivoluzione informatica dell’ultimo periodo” non fa ovviamente eccezione. Lo sviluppo delle tecnologie di rete ha impattato pesantemente sul capitale organico con ricadute fortissime sui lavoratori. A differenza di altre rivoluzioni precedenti, quella che stiamo vivendo ha avuto anche un effetto che prima era più sfumato. L’aver reso più veloce e immediato lo scambio di conoscenze ha velocizzato tantissimo l’innovazione. Il risultato è la difficoltà di analizzare un sistema che non fa in tempo a stabilizzarsi ed è già trasformato in un qualcosa di diverso.
Ciò che prova a fare Carchedi è un lavoro analitico atto a mettere in evidenza la validità della teoria del valore sul lavoro mentale e il permanente valore delle categorie analitiche sopra descritte. Siamo ovviamente, chi è arrivato in fondo a questo testo lo avrà capito, d’accordo con questa tesi e crediamo che i concetti che vengono espressi in questo lavoro debbano essere diffusi il più possibile.
Siamo consci del fatto che un testo del genere si presti a essere utilizzato come una polemica ideologica contro il post operaismo e i teorici della moltitudine. Segnalare divergenze di analisi non è un giochino intellettuale, perché ha delle evidenti ricadute sull’azione politica che intendiamo mettere in campo.
Se il confine tra produzione e riproduzione è ancora reale, allora ha senso analizzare separatamente lo sfruttamento dei lavoratori mentali ben distinguendolo da quello degli agenti. Occorre considerare le condizioni di sfruttamento a cui sono sottoposti questi lavoratori e fornire delle risposte. Se lavoratori e agenti vengono riuniti in un concetto come quello di moltitudine, che passa da concetto sociologico a concetto che individua una nuova classe rivoluzionaria, allora si rischia di agire politicamente in maniera distorta.
I lavoratori produttivi hanno la capacità e la necessità di lavorare per diminuire le loro condizioni di sfruttamento e andare verso l’abolizione delle stesse. Se la tendenza è l’allungamento della vita al lavoro e il depauperamento salariale allora ha senso dire “lavorare meno, lavorare tutti”. Se la produzione reale è ancora al centro del discorso rivoluzionario, ha ancora senso chiedersi come e cosa produrre (il necessario, ovviamente). Se il problema è la disparità tra il guadagno dei padroni e dei manager nei confronti dei lavoratori salariati allora ha senso operare per redistribuire tutto.
Questa complessità è compatibile per una moltitudine il cui lavoro sarebbe a sfruttamento infinito indipendentemente dal ruolo nei processi produttivi e che quindi ha bisogno di reddito di esistenza?
Ha senso pensare che nelle società moderne i lavoratori non debbano occuparsi di cosa, chi e come si produce? Sono domande ineludibili non solo per i filosofi, ma anche per chi la società lavora per cambiarla. Magari verso il socialismo.
Note:
2) Gigi Roggero, “Elogio della Militanza”, Derive Approdi 2016
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giovanni
io avrei qualche dubbio sull’efficacia di questo “Nuovo” capitalismo. La raccolta di dati dei consumatori per indirizzarne gli acquisti è vecchia di un secolo, e si chiama ricerca di mercato. Perchè alla fine il consumatore lo puoi carpire con campagne generali ma che fanno effetto su istinti primordiali (il fondoschiena di “chi mi ama mi segua” dei jeans Levi’s) o andandolo a prendere smartphone per smartphone, ma se quello non ha soldi (e il consumatore medio, percettore di un reddito sempre più infimo, ne avrà sempre di meno) alla lunga chi compra pubblicità sui social network dovrà prendere atto che nessun mezzo di propaganda potrà far spendere al consumatore i soldi che non ha (anche se col lavaggio del cervello del credito a consumo si sono già fatti dei bei danni, ma anche in quel caso, è solo un mezzuccio per ritardare la presa d’atto che i soldi per comprare le merci non ci sono), e smetterà di farlo (o pretenderà prezzi nettamente inferiori a quelli attuali, col conseguente crollo del valore di borsa dei social media). Perchè alla fine la NE non è altro che un sistema per ottimizzare la collocazione dei prodotti. Ottieni, dal punto di vista del consumatore, un lieve guadagno momentaneo (con i centri di distribuzione di Amazon si ha un solo centro in cui vengono portati i prodotti da smistare anzichè 1000 corrispondenti ad ogni azienda) , ma se il sistema brucia (e lo fa) molti più posti di lavoro (e quindi redditi disponibili per il conusmo) di quanti ne crea, alla fine è un gioco a somma negativa. Insomma. l’ennesima bolla speculativa. Che prima o poi scoppierà.