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Università, scuola, ricerca. Un assalto che viene da lontano

Gli Atti del Convegno della Rete dei Comunisti su “Formazione, Ricerca e Controriforme” pubblicati dalla rivista cartacea Contropiano affrontano il tema in oggetto in maniera molto articolata. Infatti ogni articolo tratta l’argomento da una determinata prospettiva. Tuttavia nel loro insieme tutti gli interventi costituiscono un ragionamento unitario. Proverò ad individuare una serie di tracce e di punti che sono affrontati trasversalmente da più interventi.

La prima cosa che colpisce è la sistematicità con cui sono descritti i processi di destrutturazione dell’istruzione pubblica che in poco più di 25 anni ci restituiscono l’immagine di un Italia devastata all’interno di una Europa che non gode certo di ottima salute, se non nei suoi punti alti (e nemmeno).

L’articolo di Marco Tangocci del Collettivo Putilov federato alla Rete dei Comunisti ci descrive come la legislazione dalla legge Ruberti alle leggi della Gelmini abbia costruito un percorso che ha portato:

1)      All’indebolimento del settore pubblico nel campo dell’istruzione e al potenziamento del settore privato e alla correlata progressiva perdita del valore legale del titolo di studio. Infatti se il titolo di studio più o meno uguale per tutti viene circondato da una pletora di altri titoli ricollegabili ad enti privati che assumono un diverso valore sul mercato del lavoro a seconda dell’istituzione che lo ha rilasciato, la laurea o il diploma rilasciati dallo Stato diventano un titolo tra gli altri (soprattutto quando i concorsi pubblici diventano una procedura sempre più raramente adottata), tale da motivare anche l’abbandono degli studi da parte di molti studenti, processo che in realtà è già in corso.

2)      Alla perdita dell’autonomia didattica di scuole e università con il pretesto di una maggiore autonomia dallo Stato. Il ricorso e l’inseguimento di capitali privati rende l’istituzione scolastica oppure universitaria una vera e propria sguattera del capitale dove ad es. un convegno alla Federico II sulle deroghe ai contratti collettivi di lavoro di qualche anno fa vede mezz’ora di spot pubblicitario all’azienda che lo ha sponsorizzato (in questo caso Intesa San Paolo) e solo cinque minuti di intervento per ogni giurista del lavoro che dovrebbe relazionare su tale delicato argomento.

3)      Alla divisione tra studenti (lavoratori e non, part time e non, più teorici o più professionali) che conduce ad una più forte polarizzazione sociale anche nei luoghi dove questa dovrebbe essere contrastata oppure messa tra parentesi o quanto meno in discussione.

4)      All’indebolimento delle rappresentanze studentesche con la creazione di un forte deficit di democrazia nei luoghi dove teoricamente bisognerebbe preparare le giovani generazioni alla cittadinanza e dunque con l’effetto di svuotare il senso e l’importanza delle istituzioni politiche rappresentative sin dall’inizio dell’autonomia dell’individuo dalla potestà familiare.

5)      All’abbandono degli Atenei a se stessi alla ricerca di finanziamenti oppure alla necessità di aumentare le tasse rendendo sempre più un servizio a pagamento quello che doveva essere un diritto costituzionalmente garantito.

6)      Allo squilibrio non solo tra atenei ma anche tra i territori in cui questi atenei si inseriscono. Proprio l’importanza della conoscenza per la crescita economica fa sì che atenei appartenenti a territori meno favoriti, più poveri di finanziamenti diventino meno qualificati e dunque meno capaci di contribuire proprio alla crescita di quei territori che ne hanno determinato la minore competitività. Il sistema scolastico ed universitario viene coinvolto dunque proprio in quel circolo vizioso che determina ed accelera le divergenze economiche territoriali che dagli anni Ottanta hanno lacerato interi Stati quali l’Urss, l’ex Jugoslavia, l’ex Cecoslovacchia ma anche e sia pur con effetti meno catastrofici paesi più sviluppati quali la Germania, il Belgio, la Spagna, l’Italia,  il Canada e la Gran Bretagna.

7)      Alla chiusura degli Atenei attorno ad esigenze locali del territorio di appartenenza e dunque alla progressiva sparizione di quell’istanza di universalità che dovrebbe attraversare ogni processo di apprendimento educativo e formativo.

8)      Alla subordinazione degli studenti a logiche di tipo aziendale e dunque alla perdita in prospettiva della propria coscienza di sé, della propria appartenenza sociale e di conseguenza dei propri diritti.

9)      Alla restrizione incostituzionale dell’accesso del diritto all’istruzione attraverso il ricorso al numero programmato per molti corsi di studio. La sentenza della Corte Costituzionale che a questo proposito ha bocciato il ricorso di incostituzionalità ha precisato però che ciò sarebbe stata valido solo temporaneamente in attesa che il sistema universitario italiano venisse in  possesso di quelle risorse che avrebbero potuto permettere l’immatricolazione di chiunque avesse intenzione di farla. Questo senza contare il fatto che da parte della Corte ammettere che un diritto costituzionalmente garantito fosse condizionato ad un aumento delle risorse a disposizione dello Stato implicava o la possibilità che la Costituzione fosse storicamente inapplicabile (in mancanza di certe condizioni) o la necessità di cambiare il regime economico vigente affinché la Costituzione potesse essere applicata. E senza contare il fatto che ammettere che la normativa europea imponesse il numero programmato significava dire che l’accesso libero all’università sino a quel punto previsto non avesse dato le competenze necessarie per giustificare il riconoscimento di un titolo di studio quale la laurea. Una conseguenza paradossale e molto opinabile, a meno di non dover mortificare tutti i laureati che il sistema universitario italiano aveva sfornato sino a quel momento.

10)  Alla perdita di ruolo rilevante del Senato accademico all’interno degli Atenei (a favore del Consiglio di Amministrazione) e dunque alla valutazione dei corsi di laurea non sulla base della loro necessità in sede formativa ma solo sulla base della propria economicità, perdendo completamente la visione di lungo periodo necessaria per valutare l’efficacia del sistema dell’istruzione pubblica.

Gli articoli di Vincenzo Maccarone (Noi Restiamo) e di Cinzia della Porta (di Usb ricerca) hanno evidenziato altri trend essenziali per l’analisi di questa fase. Gli effetti di queste politiche legislative non si sono fatti attendere. Vediamo in primo luogo una riduzione delle immatricolazioni (in particolare al sud ed in particolare per le famiglie meno abbienti), una opportunità di lavoro per i laureati di molto minore di quella degli altri paesi europei, la tendenza al sottoinquadramento lavorativo per i laureati, il costo dell’istruzione in Italia ben più alto della media europea, la riduzione dei fondi per il diritto allo studio, la limitazione ulteriore dell’erogazione di borse di studio, la migrazione studentesca dagli atenei meridionali (meno finanziati e meno competitivi) agli atenei settentrionali. Nel frattempo le politiche di austerity hanno condannato l’Italia ad un ruolo medio-basso all’interno della divisione internazionale del lavoro e questo è stato facilitato ed al tempo stesso facilita le minori immatricolazioni, la sospensione dei percorsi universitari, l’aumento delle tasse (mentre la Germania le abolisce dopo averle introdotte all’inizio della crisi del 2007). Con la diminuzione del numero dei laureati e l’incremento delle competenze solo di una elite avremo che la maggior parte dei lavoratori avrà una occupazione poco qualificata e dall’altro un numero ristretto parteciperò alla costituzione di una classe dirigente sempre più internazionale. Gli effetti di questo regime iniquo non tardano anche a compromettere l’efficienza del sistema: disoccupazione giovanile al 40% (tra coloro che cercano lavoro), giovani che non studiano né cercano lavoro al 26% (2,4 milioni) della loro fascia di età (tra i giovani in generale), lavoratori under 25 con contratto precario al 56% (tra i giovani che lavorano). Quali tre milioni i lavoratori in nero (il 12% delle attività) con punte tra donne, stranieri e giovani (le categorie più deboli). I voucher che dovevano far emergere il nero sono diventati una foglia di fico e sono corrisposti a 1,4 milioni di giovani. Esiste poi il lavoro gratuito espletato solo per registrare tale attività nel curriculum. Nel 2008 hanno perso il lavoro un milione di persone, il programma Garanzia giovani ha trovato lavoro a soli 32.000 giovani su un milione, mentre con l’invito all’imprenditorialità solo il 54% delle start up ottiene un secondo finanziamento e il 75% fallisce mentre un altro 21% ottiene l’exit di una fusione o di una vendita. Questa situazione desolante ha come effetto l’emigrazione: come i laureati del Sud vanno al nord così i laureati italiani (molti del Nord dove il modello basato sulle PMI e sulla produzione di semilavorati segna il passo) vanno in Nord Europa con un deflusso netto di 150.000 dal 2008 (e 54.000 nel solo 2013), con una forte presenza di donne (43%). Questi laureati spesso si trovano a fare lavori poco qualificati così che il centro produttivo dell’Unione Europea (Germania, Francia) ha a disposizione una forza lavoro meno integrata nella struttura sociale e almeno inizialmente più ricattabile e nel frattempo assorbe una parte significativa delle menti migliori prodotte dal sistema educativo italiano. Pure per quel che riguarda i ricercatori l’Italia nel 2010 ne esportava 30.000 e ne importava solo la decima parte. Per quanto riguarda il settore ricerca e sviluppo studiato da Cinzia della Porta la crisi sistemica ha determinato una centralizzazione delle funzioni e una contrazione degli investimenti verso i paesi del Sud in funzione delle esigenze di sviluppo dei paesi trainanti. Il Pil italiano dal 2009 è sceso dell’11%, la produzione industriale del 25% con una disoccupazione al 15% con una bassa percentuale di brevetti (1/8 di quella tedesca), una bassa percentuale di imprese che investono in settori ad alta percentuale di R e S, una bassa percentuale di laureati nella fascia di età tra 30-34 anni, con un taglio dei finanziamenti per l’università, con 3,5 milioni di precari su un totali di 17 milioni di lavoratori dipendenti, con solo l’1,31% del Pil investito in R e Sa fronte del 3% delle nazioni del Nord Europa. Una situazione triste condivisa con gli altri paesi Pigs ma che riguarderà progressivamente altri paesi (qualche anno fa la GB ha triplicato le tasse universitarie)

Il secondo punto da evidenziare è come questi processi si innestano nella crisi sistemica che ha investito progressivamente l’intero pianeta dal 2007 ad oggi. Qui va evidenziato il contributo di Rita Martufi e di Luciano Vasapollo i quali interpretano la  Scuola e la formazione come fabbrica capitalista della conoscenza integrata nella crisi sistemica. Essi evidenziano come una Rivoluzione tecnologica, intesa come insieme di innovazioni che hanno ripercussioni dirette o indirette in quasi tutti i settori di attività non equivale ad una rivoluzione dei rapporti di produzione, come pretenderebbe parte dell’analisi dell’operaismo e del post-operaismo L’evoluzione tecnico-organizzativa non è neutra. Essa sostituisce lavoro umano con lavoro morto incorporato nelle macchine e dunque ha esiti diversi a seconda del modo di produzione. La nuova rivoluzione industriale modifica le forme di sfruttamento del lavoro e altera le condizioni per la manifestazione del conflitto di classe. La nuova fase di sviluppo capitalistico sembra valorizzare conoscenza e formazione: la fabbrica della cultura del capitale come principale forza produttiva. Il passaggio verso un nuovo paradigma elettronico e informatico non cancella però le contraddizioni cicliche in quanto il capitalismo nutrendosi di asimmetrie e disuguaglianze non riesce ad omogeneizzare la sua base tecnologica ma avanza sempre sulla della legge dello sviluppo economico e politico disuguale. La conoscenza, l’informazione sono necessarie per le aziende per muoversi in un contesto più complesso ed inoltre la cultura serve alle aziende per le strategie globali di controllo sociale, finalizzato alla competitività di mercato. Non si tratta solo di reperire informazioni ma di utilizzarle per trasmettere nel sociale le idee forza del mercato. L’accumulazione flessibile si serve proprio di una maggiore importanza delle cosiddette risorse immateriali ovvero con il ricorso al capitale intangibile della conoscenza sociale. Si passa da modelli aziendali gerarchici ma strutturati a modelli più decentrati ma caratterizzati da lavoro più precario, flessibile e a scarso contenuto di garanzie. Il capitale nella sua crisi sistemica sussume la cultura sociale che era sinonimo di libertà ma che viene strumentalizzata perchè diventi funzione di elaborazione di risorse intangibili ma compatibili quali la formazione aziendale, l’immagine aziendale, i valori aziendali. I soggetti spesso che elaborano questa cultura sembrano alternativi ma sono di fatto omologanti.

Antonio Allegra della Rete dei comunisti a questo proposito ha cercato di analizzare quale cambiamento ideologico vi fosse nelle riforme dei sistemi di istruzione e vede la parola chiave nel concetto di competenza che è essenzialmente un saper fare ma soprattutto è un concetto poco definito dal momento che in realtà non si chiede ai lavoratori i raggiungimento di un obiettivo specifico ma di essere preparato ad affrontare qualunque obiettivo pratico di tipo generico (competenze sociali, comunicative, informatiche) che spesso è connesso alla vendita per la vendita, dal momento che anche i servizi adesso vengono articolati ed impacchettati in merci (ad es. la consulenza bancaria viene incorporata nella scelta di fondi di investimento i quali aggiornano le scelte di investimento giorno per giorno). In questo contesto un valore crescente viene attribuito al capitale umano (termine coniato da un pensatore iperliberista come Gary Becker e c’è un articolo di Massimo Grandi che descrive come questa ideologia trovi nel pensiero della Destra americana un momento fondamentale soprattutto nell’opera dell’Altro premio Nobel Milton Friedman), al suo apprendimento continuo per cui è necessario creare dei sistemi di valutazione (a cura dell’Ocse) dell’intero sistema educativo in tutti i suoi passaggi.

E’ qui che compare il convitato di pietra di tutti questi processi e cioè l’Europa. Se è vero che l’istruzione cambia faccia nella crisi sistemica del capitalismo, è vero che il processo storico che ci coinvolge concretamente è quello dell’Europa che nella crisi sistemica costringe i paesi meno competitivi ad un tour de force per adeguarsi ai parametri che essa stessa ha delineato. Allegra fa notare come all’inizio l’intervento europeo sia ideologicamente almeno in apparenza più neutro volto com’è a stabilire linee guida per rendere il sistema educativo più efficiente e più capace di contribuire alla crescita economica (tutto ciò mentre in Italia già con la legge Ruberti il carattere di classe di questa riforma si esplicita per quello che è tanto che viene subito intercettato dal movimento della Pantera che ad essa si oppone). In Europa invece si parla ancora di migliorare la qualità, di facilitare l’accesso a tutti e di aprire al mondo. Solo con i primi insuccessi di questo lavoro di pianificazione (primi insuccessi anche legati alla crisi) l’Europa stessa comincia a seguire il percorso che essa di fatto aveva imposto a paesi come l’Italia. La standardizzazione delle procedure formative si rivela allora come la mercificazione e la professionalizzazione del sapere, la subordinazione di scuola e università all’impresa, dove apparentemente la scuola vende allo studente il sapere per trovare lavoro, ma in realtà la scuola vende alle imprese forza lavoro disciplinata e disponibile ad un maggiore tasso di sfruttamento. Il lavoro gratuito all’expo è un brillante risultato di questo processo teso a fare del sistema delle imprese europee un competitor di altri poli imperialistici.

Lo sfondo da cui dobbiamo partire , per analizzare il rapporto tra la  questione in oggetto e la questione europea, è quello proprio della tradizione politica di ispirazione marxista imperniato sul concetto di sviluppo economico capitalistico fondato sulla crisi (e sulle soluzioni imperialistiche della crisi) e non sull’equilibrio. All’interno di questo sfondo si articola il concetto di sottosviluppo di intere aree geoeconomiche più o meno correlato allo sviluppo capitalistico stesso. L’imperialismo, esportando capitali nel tentativo di evitare le crisi di sovrapproduzione e di trovare al tempo stesso una composizione organica del capitale ad un tasso di profitto più alto, riconfigura il rapporto tra le diverse parti del mondo. La relazione che si viene a instaurare tra regioni con diverso grado di sviluppo è quella sintetizzata dal termine di sviluppo ineguale, nel quale le regioni meno sviluppate assicurano a quelle egemoniche prima risorse naturali a basso prezzo (per garantire almeno per un certo periodo un compromesso tra capitale e lavoro nei punti alti dello sviluppo ed esorcizzare il rischio di una rivoluzione laddove il capitalismo sia più sviluppato) e poi forza lavoro a basso costo (e questo progressivamente porta a rompere il compromesso di cui sopra ed a scardinare le avanguardie del proletariato). La contesa imperialistica (sono più potenze imperialistiche a contendersi le regioni verso cui esportare capitali) accelera la concorrenza ed il conflitto tra capitali e promuove la concentrazione e la centralizzazione dei capitali stessi. Questo processo, poiché la geografia politica è funzione della distribuzione geografica del capitale, altera questa geografia politica portando regioni diverse ad integrarsi e regioni unitarie a dividersi internamente. Ciò è avvenuto ad es. quando, con la fine dell’Urss, da un lato si è accelerata l’unificazione tedesca e quella europea, dall’altro si sono disgregate (oltre l’Urss) la federazione jugoslava, la Cecoslovacchia e si sono rafforzate spinte federaliste (se non secessioniste) in Italia, Spagna e Regno Unito. Il processo di unificazione, a causa delle dinamiche capitaliste, è un processo fragile e perciò stesso violento: l’integrazione monetaria ad es., impedendo quegli aggiustamenti del cambio che permettono alle regioni più deboli di alleviare gli effetti della competizione intercapitalistica, e senza essere compensata da altri processi contemporanei d’integrazione (allineamento dei diversi tassi di inflazione, politiche fiscali redistributive, mobilità del lavoro pari a quella del capitale), non fa che divaricare le differenze già esistenti tra regioni che si vanno unificando  e creare una gerarchia di sfruttamento tra di esse. Un processo del genere si è realizzato in Italia una prima volta con l’unificazione Questo processo però si è realizzato anche a livello europeo. Infatti essendosi l’UE formata su basi competitive tutto è stato affidato ai meccanismi di mercato e l’adozione della moneta unica più l’impossibilità di usare le tradizionali leve della politica economica da parte dei governi dei paesi membri hanno favorito la divergenza economica tra questi ultimi, accentuando i divari economici già sussistenti prima della nascita stessa dell’euro. Si riproduce su scala continentale il tradizionale dualismo tra Nord e Sud dell’Italia: emerge una nuova questione meridionale che travalica i confini italiani e incide sui destini dell’intera Europa. Tra paesi centrali e paesi periferici all’interno del processo di unificazione europea si riproduce una sorta di ciclo con trasferimenti di capitali da regioni più ricche e regioni più povere che tengono queste ultime legate al cappio del debito e ne condizionano le politiche economiche, approfittando delle bolle finanziarie e immobiliari derivanti da tali trasferimenti, disarticolando il mercato e le forze del lavoro, imponendo processi di austerity e più complessivamente neoliberisti. Questo processo si collega al concetto marxiano di centralizzazione dei capitali per il quale accanto alla contrapposizione competitiva tra capitali e come effetto di quest’ultima vi è un processo di concentrazione di capitali già formati mediante liquidazioni, acquisizioni, fusioni. Tale processo può essere stimolato dalle autorità di politica economica le quali fissando condizioni di solvibilità più restrittive per i capitali in conflitto aggravano la posizione dei capitali più deboli e accelerano il processo stesso di centralizzazione. Si sono così create le condizioni per una resa dei conti definitiva tra i capitali più fragili dell’Europa periferica e i capitali più forti dell’Europa nord-continentale. A questa resa dei conti tra capitali l’architettura politica europea sacrifica tutto il resto della società, riducendo gli spazi democratici, attaccando lo Stato sociale e le norme regolanti il mercato del lavoro e mettendo i lavoratori europei in diretta competizione tra loro.

Se è vero che il sistema dell’istruzione è uno strumento dell’imperialismo europeo che ha particolari problemi per emanciparsi dall’ombrello americano, dobbiamo trarre da questo tutte le conseguenze politiche.  Se la centralizzazione e la concentrazione di capitali assume la forma dello sviluppo ineguale come affermava Lenin, allora la divisione dell’Europa tra Pigs e paesi più conformi ai parametri non è una situazione contingente ma strutturale. Se la moneta unica presuppone contraddittoriamente per il suo buon funzionamento quell’omogeneità di parametri che essa invece dovrebbe favorire, allora ci troviamo in un circolo che non permette soluzioni interne di tipo riformista al disegno europeo. L’uscita dall’euro e in prospettiva dall’Unione Europea diventano allora una parola d’ordine che ci consenta di rimettere in discussione l’intero tentativo di soluzione capitalistica della crisi sistemica.

* Rete dei Comunisti

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