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Populismo di secondo grado e manipolazione dell’esito referendario

Una analisi potente, teorica e politica, filosofica e quindi impietosa, della struttura logica del tentativo di smantellare la Costituzione e, subito dopo, di rovesciare in "quasi vittoria" la clamorosa sconfitta nel referendum.

Un testo assolutamente da leggere e meditare, allontandosi una volta per tutte da quel "pensierino bipolare" – psichiatricamente parlando – che viene incentivato in modo potente dalla struttura discorsiva da social net work.

Diciamo che anche alcuni "intellettuali di regime" (Cacciari e Recalcati su tutti) troverebbero qui molte ragioni per ritirarsi dalla professione ufficilmente esercitata.

Buona lettura.

*****

Tra i sintomi che affliggono le democrazie occidentali, la manipolazione dell’opinione pubblica e la manipolazione del voto sono i più noti. E non c’è consultazione politica e referendaria, con o senza quorum, che non confermi questo trend. Così, puntualmente, nell’ultima consultazione la tutela della Costituzione e il conseguente rigetto di una riforma irresponsabile che non ci avrebbe protetto da maggioranze retrograde, populiste e autoritarie, viene surclassato da altri dati, dotati di scarsa oggettività e più semplicistici. Non solo i cittadini avrebbero innanzi tutto votato per dire Sì o No al Presidente del Consiglio Renzi e al suo governo, ma con questa scelta, più che esprimersi sulla sua politica e le sue leggi, si sarebbero di fatto espressi sull’alternativa Renzi o il populismo, che è ovviamente sempre quello degli altri, Salvini e Grillo in primis. Sembra quasi superfluo evidenziare che la carente analiticità di questa lettura eleva il populismo a giudizio di secondo grado cui scadono nell’analisi del voto, ma già prima nei modi e nei toni della campagna referendaria, quegli stessi sostenitori che hanno eretto il Pd a partito antipopulista per eccellenza; il quale non cede alla tentazione di dividere ancora una volta l’elettorato nel popolo che interpreta correttamente i propri valori (cambiamento, bellezza, sogno, futuro) dal popolo che al contrario ne sarebbe incapace.

 

La comunicazione sistematicamente distorta dell’ideologia dominante

Si tratta di una trasfigurazione che non sorprende alla luce di una manipolazione mediatica che, nel tentativo di indirizzare l’opinione pubblica verso l’auspicato cambiamento, ha fatto largo uso di tipologie propagandistiche di comunicazione talmente fantasiose e insistenti da confermare la sua subordinazione alla classe dominante e alla sua ideologia.

La prima forma di manipolazione comunicativa è sintetizzabile nella politica dei miracoli: la riforma costituzionale ci avrebbe magicamente restituito un paese più democratico, contro il disfattismo del pluralismo e della dialettica; più onesto, contro i nepotismi e la corruzione di politici e cittadini; più giusto, contro le resistenze di un mondo del lavoro che non vuole capire gli universali vantaggi di cui godrebbe se si piegasse alla definitiva resa della modernizzazione capitalistica dell’esistente.

Accanto a questa visione miracolistica e menzognera è subito emersa una seconda forma di comunicazione, elaborata dai vari scriba del potere (filosofi, giornalisti, persone cosiddette di cultura), secondo la quale cambiare è giusto. La troviamo espressa dal filosofo Cacciari, ma meglio formulata dal giornalista Serra: «la sola idea che qualcosa accada è più convincente dell’idea che quella cosa possa essere sbagliata». La riforma «fa semplicemente schifo» (cit. Cacciari), ma è pur sempre una riforma, come tale va sostenuta.

Al miracolismo della prima forma di comunicazione, questa aggiunge il fanatismo e la dichiarata morte della ragione.

La terza forma di comunicazione è la rappresentazione pulsionale del voto, se le prime due non fossero già stilisticamente emotive, che potremmo sintetizzare nel motto il Sì gode, il No odia. Essa ci giunge dal discorso con il quale lo psicoanalista Recalcati è andato a consacrare, nel corso della campagna referendaria, la Leopolda e il suo fondatore, proclamandosi quale padre di Telemaco, il figlio giusto, il giovane che avrebbe il coraggio di desiderare e osare a dispetto dei padri e verso il quale il fronte del No nutrirebbe tutto il suo odio paternalistico e impotente. E non solo. Oltre l’odio della giovinezza, altri due sintomi devasterebbero la psiche di chi nega: l’angoscia del cambiamento che porta al conservatorismo e la fascinazione masochista per la negazione che stimola il godimento della distruzione. Non viene in mente a questi dilettanti del pensiero che la negazione non nega mai “nulla”, ma afferma sempre qualche cosa, nel mentre nega. E che i più grandi movimenti di emancipazione della storia sono sorti sul coraggio della negazione determinata da cui sono scaturite nuove direzioni della storia.

Ad accumunare queste tre forme di comunicazione è il palese rifiuto del rigore logico, del ragionamento, del discorso veritativo; lo scarso rispetto dell’interlocutore a cui giunge un messaggio irrazionale difficile da elaborare. In definitiva il consapevole dismettersi dalle regole del discorso secondo le quali ogni pretesa di validità deve essere formulata in modo che possa essere esposta alla critica in una situazione in cui gli interlocutori trattandosi da pari giungono o ad un accordo in cui vale la forza razionale (la coazione non costrittiva, come direbbe Habermas) dell’argomento migliore, o ad un disaccordo comunque fondato. Una situazione che quand’anche non fosse concreta deve essere comunque presupposta come possibile o reale, soprattutto se a esprimersi sono intellettuali e politici di professione.

Ma oltre a questo elemento logico-formale, queste tre forme di comunicazione hanno in comune un rapporto problematico con la realtà che si traduce nella sistematica volontà di occultare il conflitto socio-economico, che continua indefessamente a frammentare la società civile e il mondo del lavoro, trasfigurandolo in conflitto pulsionale senza neanche più la decenza etica di imputare alle classi subalterne piuttosto che l’odio risentito, la rassegnata disperazione; di distogliere l’opinione pubblica dal percorso accidentato che ha condotto questo governo a esercitare i suoi poteri; di rimuovere l’iter politico che da circa 5 anni ha determinato una nuova accelerazione delle politiche neoliberiste, a partire dalla revisione dell’art. 81 della Costituzione votata a larga maggioranza sotto il governo Monti; di silenziare i diritti sociali, il Welfare, i diritti dei lavoratori, le nuove politiche di rilancio dell’economia. Un processo di rimozione che parte da molto più lontano, dalla crisi della sinistra comunista e socialista europea successiva al crollo del comunismo sovietico, ma che da quando gli effetti della crisi americana si sono fatti sentire anche in Europa, ha condotto la politica italiana con sfacciata pervicacia a tentare di costruire un sistema costituzionale coerente entro il quale giustificare il graduale smantellamento del Welfare e di tutte le conquiste sociali della sinistra. Facendo passare tutto questo come necessario per la tenuta economica del paese o come conveniente per la classe lavoratrice.

Che lo status quo ante abbia le sue responsabilità è ovvio e non può essere qui discusso. Potendoci solo riferire alla memoria breve, a partire solo dal 2012 emerge un quadro coerente e sistematico tendente a stravolgere il patto costituzionale e il cui terminus a quo è l’approvazione da parte delle due Camere della modifica dell’art. 81 che ha imposto l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale. La votazione avvenuta sempre a maggioranza dei due terzi (nessun voto contrario alla Camera, uno scarno numero di voti contrari, Lega e Udv, al Senato) ha reso vano il ricorso all’eventuale referendum confermativo. Parliamo di una riforma della Costituzione pervasiva che ha ricevuto poca attenzione dai mass media, discussione inesistente presso l’opinione pubblica, ha attraversato un iter parlamentare singolarmente veloce (dal novembre 2011 all’aprile 2012). Quand’anche un Parlamento sovrano, che tale rimane anche quando deve relazionarsi con un governo tecnico, avesse deliberato nel rispetto delle procedure, esso ha posto in essere la paradossale situazione di una democrazia che in maniera silente, opportunistica e incurante delle conseguenze del proprio operato, delibera in spregio di quella Costituzione su cui pure è seduta. Perché infatti con la revisione dell’art. 81 si è di fatto inserito nella Costituzione un principio che impedendo politiche di spesa in disavanzo è incompatibile con i fondamentali principi della Carta. I quali al contrario ci parlano di solidarietà sociale e di una democrazia programmatica, e quindi di uno Stato interventista che deve portare a compiuta realizzazione i diritti fondamentali della persona, in particolare i diritti sociali (cfr., V. Giacché, Costituzione italiana contro trattati europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia 2015).

Il percorso politico che da questo stravolgimento giunge alla proposta di riforma costituzionale è fin troppo noto: una serie di interventi legislativi sul lavoro, sulle pensioni, sull’istruzione, sulla salute, sulla pubblica amministrazione sono stati condotti sotto il criterio del neoliberismo selvaggio, quindi della compressione dei diritti e dei salari, dell’erosione del Welfare, della maggiore flessibilità e della precarietà, e in genere della perdita dei diritti faticosamente acquisiti attraverso lotte e conquiste socio-politiche. Un iter legislativo che rispetto alla revisione dell’art. 81 si attesta più sulla dimensione del continuum che non su quella del rinnovamento.

Ed ecco che in una situazione di crisi economica, di scenari geopolitici assai poco rassicuranti, con un mondo del lavoro contro, la disoccupazione giovanile crescente, un partito frammentato, il Presidente del Consiglio con un’ostinazione assai rara da vedersi in un uomo di Stato, tenta di portare a compimento una riforma costituzionale con il sostegno di una maggioranza parlamentare votata con legge incostituzionale, trasformando la consultazione referendaria in un plebiscito alla sua persona e al suo governo. Con altrettanta pervicacia e ostinazione si incammina in una campagna referendaria ostile e demagogica, come se fosse però una campagna elettorale, alimentando la demonizzazione e la paura dell’avversario, fomentando le pulsioni popolari sempre pronte a esplodere e prospettando, come di fatto è accaduto, una crisi istituzionale nel caso di insuccesso. La gravità di questo scenario è stata rappresentata con una forza comunicativa di eccezionale valore da costituzionalisti, giuristi, filosofi del diritto, comitati del No, che alla luce del voto si è rivelata vincente e che sarebbe quindi superfluo ripetere.

Ciò che tuttavia sconvolge dell’esito referendario è il continuum mediatico della manipolazione forse indicativa di quanto la gravità dello scenario precedente sia drammaticamente viva anche in quello post voto.

 

Ragioni del Sì e «bonapartismo soft»

Per capirlo occorre focalizzare l’attenzione su due fattori. Il primo è rappresentato dalle reazioni dei sostenitori del Sì, i perdenti che si sono subito avventati sulle analisi del voto, facendo emergere il solo dato, obiettivamente comodo, facile da strumentalizzare e “come volevasi dimostrare”, dell’avanzata populista conseguente a chi con il suo No non avrebbe compreso quanto questo buon governo intendesse invece scongiurare.

Con un rovesciamento paradossale, il fronte del No diventa il maggiore responsabile del disfacimento politico cui il fronte del Sì e del suo leader ci hanno portato con la crisi istituzionale post voto. Con un altro rovesciamento i perdenti, il fronte del Sì, diventano i veri vincitori, perché rispetto alla variegata ed eterogenea composizione del fronte opposto rappresentano una forza compattamente schierata a favore del governo e della sua missione salvatrice.

Il secondo fattore sono le ragioni del Sì, che è a questo punto razionalmente e politicamente necessario provare ad analizzare. Lungi dal voler confutare che il rovesciamento dialettico abbia una consistenza reale, e cioè che questo fronte possa essere corrispondente all’elettorato del Pd, la qualcosa potrà essere verificata solo alle prossime consultazioni politiche, si tratta di individuare le possibili “ragioni” che hanno determinano questo fronte per capire se possa emergere un dato oggettivo, alquanto trascurato dalle analisi del voto, in cui tutte le parti del Sì possano riconoscersi. Seguiremo un ordine che procede gradualmente dal più al meno razionale.

Iniziamo quindi con il Sì cognitivo, ma sempre critico, dell’elettore informato e documentato, che dopo aver soppesato, analizzato, seguito i dibattiti ha finito per formarsi un’opinione positiva della riforma, pur sempre con la riserva, espressa persino dai promotori, di lacune e passaggi indeterminati da migliorare.

Successivo a questo, vi è Sì politico del sostegno al governo, che ha fatto cose buone e buone leggi; poi il Sì pulsionale alimentato dalla paura del M5S e della Lega, in genere dei populismi che invece questo governo non rappresenterebbe, da cui deriva il Sì obbligato dalla mancanza di alternative. E infine, il Sì movimentista, il cui principio “riformare è giusto” va a sostenere una riforma che per quanto sbagliata possa essere rimane la riforma che il paese attende.

Non è qui il caso di entrare nel merito della validità degli argomenti elencati, che è stato invece l’esito del voto referendario a confutare, come accade in una democrazia. Ed è anche superfluo evidenziare che le diverse ragioni possono essere confluite nello stesso voto, secondo una gerarchia di importanza che varia da elettore a elettore. Queste ragioni sono comunque tutte confluite in quel 40% che ora il leader perdente rivendica a sostegno pieno della sua politica, del suo Pd, del suo governo. In un confuso intreccio di ruoli politico-istituzionali (Presidente del Consiglio, segretario del partito) in cui meno si fa chiarezza e più è facile la manipolazione. Nel senso che non è affatto facile stabilire quanto il Sì cognitivo abbia inciso rispetto al Sì politico o a quello pulsionale o movimentista.

C’è un dato oggettivo che però non può essere manipolato, che accomuna le ragioni elencate, le quali sottostanno ad una meta-ragione che possiamo indicare nella strumentalizzazione della Carta Costituzionale finalizzata al consolidamento del potere dell’esecutivo. Vale a dire una indecente strumentalizzazione che il Governo e il suo partito di maggioranza hanno messo in atto per consolidare il proprio potere. Detto ancora altrimenti, la trasfigurazione di un referendum referendario in una campagna elettorale in cui il Presidente del Consiglio ha usato la riforma della Costituzione come se fosse il programma politico di un partito. Non a caso tutti gli aggiustamenti dei difetti e delle lacune della riforma venivano con una leggerezza sconcertante rinviati a successive deliberazioni parlamentari come si ipotizzerebbe per qualsiasi legge ordinaria, legge a cui la Carta si è quindi cercato di ridurre.

Da questa meta-ragione consegue una precisa prassi: a seguito della dichiarata volontà del Presidente del Consiglio di dimettersi in caso di sconfitta, tutti i sostenitori del Sì, consapevolmente o inconsapevolmente hanno di fatto legittimato con il loro voto una prassi antidemocratica quale è certamente l’uso strumentale di una Costituzione. Questo è il dato oggettivo che unisce il 40%. Decisamente più oggettivo delle ragioni favorevoli alla riforma, favorevoli al cambiamento, favorevoli al governo, ma il più foriero di pericoli quale grave sintomo dello stato di salute della democrazia italiana. Che è entrata evidentemente in una ancora più grave spirale di deficit di legittimazione democratica.

Un deficit che oltre ad essere sostenuto dal sistema economico-finanziario e bancario internazionale, dall’Europa dell’Euro, da Confidustria, dalla grande imprenditoria, ha trovato il sostegno massiccio dei mass media (televisione e giornali in primis) e di una parte del mondo culturale accademico e extra-accademico con una pervicacia, una costanza, una virulenza che non lasciano sperare sulla possibilità di trovare luce nella comunicazione sistematicamente distorta di cui queste forze sono state strumentali protagoniste.

In definitiva, il discorso politico-mediatico dominante ha tentato con una mossa proceduralmente democratica (voto a maggioranza di un parlamento, comunque votato con legge incostituzionale, e referendum confermativo) di far passare una riforma costituzionale tendenzialmente antidemocratica con un modus operandi che nella sostanza anticipava i contenuti antidemocratici della riforma.

Si affaccia dunque nella storia politico-istituzionale della nostra Repubblica il malsano tentativo di istituzionalizzare una sorta di «bonapartismo soft» all’italiana attraverso una prassi (strumentalizzazione partitica della Carta) che letta insieme agli elementi fondamentali della riforma ci restituiscono un quadro assai coerente in cui metodo e contenuto si identificano (cfr. D. Losurdo, Democrazia o bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, Bollati Boringhieri, Torino 1993).

Proviamo ad elencarne alcuni: rafforzamento dell’esecutivo, depotenziamento della funzione legislativa del Senato, accentramento statale delle prerogative delle Regioni; riduzione della rappresentanza e dell’equilibrio dei poteri in nome della governabilità; limitazione della sovranità popolare attraverso soppressione del proporzionale, legge elettorale con premio di maggioranza del 54% al primo e secondo turno, sbarramento per i partiti minori, aumento del numero delle firme per le leggi di iniziativa popolare. Senza considerare la pericolosa modifica dell’art. 78 che avrebbe lasciato alla sola Camera dei Deputati la deliberazione a maggioranza assoluta della guerra. Una modifica che estromette un Senato che, sebbene avesse dovuto rappresentare solo le autonomie territoriali, avrebbe continuato a votare leggi di revisione costituzionale e trattati comunitari, a nominare 2 giudici costituzionali, a votare il Presidente della Repubblica e a essere composto anche da 5 membri da quest’ultimo nominati per aver illustrato la Patria, ma che senza un fondato motivo per i promotori della riforma non rappresenta sulle questioni della pace e della guerra l’interesse nazionale espresso nell’art. 11. Se a ciò si aggiunge lo sventato scenario di una maggioranza parlamentare sostenuta dal premio di maggioranza, il solo rischio di poter rimettere nelle mani di una minoranza non realmente rappresentativa della sovranità popolare una decisione di questa portata, la dice lunga sulla irrazionalità e regressione di una tale riforma costituzionale. Anche su questo punto la riflessione dei mass media è stata scarsa o nulla, con le dovute eccezioni (cfr. Intervista al generale F. Mini, No a riforma che sottrae al Parlamento decisione su dichiarazione di guerra, MicroMega online, 18 novembre 2016).

In definitiva, entro il quadro storico-politico sopra delineato nella breve dimensione di un quinquennio, un preciso Governo con il sostegno dei poteri economici e politici nazionali e internazionali va a sostenere un vero e proprio attacco alla sovranità popolare orchestrato con gli slogan della semplificazione, dello snellimento legislativo, della stabilità e governabilità, ma che si sarebbe ridotto nel bisogno di operare una serie di riforme senza più gli intralci di una democrazia parlamentare dialettica e pluralistica. Di una democrazia che si costruisce molto meno sull’apporto di partiti, movimenti e associazioni, di cui si farebbe volentieri a meno, e molto di più sul rapporto diretto del leader, quale autentico interprete della volontà popolare, con i cittadini.

 

Le ragioni del No e le sue mistificazioni

È a partire da questo dato oggettivo che si può capire la grande partecipazione popolare alla consultazione referendaria, e almeno tre delle ragioni che hanno motivato questo fronte. Ragioni di cui è chiaramente difficile stabilire la proporzione in percentuali, ma che i mass media dominanti stentano ad evidenziare con la dovuta enfasi, concentrandosi più sul dato propagandistico di una volontà irrazionale e disfattistica che avrebbe determinato con la caduta del governo anche il conseguente caos istituzionale.

La prima di queste ragioni è il No cognitivo e politico con il quale insieme ad una riforma giudicata rischiosa per le sorti della democrazia si è rigettata anche la sua strumentalizzazione politica.

La seconda è il No politico e sociale, certo molto variegato, ma con la quale non si è voluta perdere l’occasione di esprimere un giudizio sull’operato del Governo, opportunità la cui legittimazione è venuta dallo stesso Presidente del Consiglio che, come si è detto, aveva presentato la riforma come programma politico della maggioranza parlamentare con tutto ciò su cui essa aveva legiferato. Ceti più o meno abbienti, più o meno istruiti, frange consistenti della disoccupazione, della precarietà e della povertà, tra cui quell’81% dei giovani tra i 18 e i 35 anni, sono parte considerevole di questo voto. Dal che, se non si può direttamente indurre che tutto il disagio sociale sia confluito nel fronte del No, si può indirettamente dedurre che tale disagio, data la forte affluenza alle urne, sia fortemente consistente in questo fronte.

Il voto massiccio per il No è dunque sotto certi aspetti forte e chiaro. Ma questa forza e chiarezza, invece di portare all’autocritica viene completamente ignorata e dirottata su qualcos’altro. Invece dell’autocritica doverosa ad una riforma costituzionale sicuramente da alcuni bocciata perché compresa nel suo senso autentico, invece dell’autocritica alle scelte politiche del governo, dell’autocritica ad una campagna referendaria la cui costanza è stata la denigrazione dell’avversario e l’istigazione al conflitto civile, invece dell’autocritica alla visione pulsionale del conflitto politico (l’odio dei giovani) matematicamente smentita dall’81% del voto giovanile contrario, invece di una onesta presa di coscienza politica della volontà popolare assistiamo ad una vera e propria esaltazione vittimistica della parte sconfitta che rasenta il culto del capo, questo sì talmente emotivo e impulsivo da giungere alla trasfigurazione dei contenuti del suo operato. Sicché l’idea perdente continua ad essere «un’idea meravigliosa» che ha il solo difetto di non essere stata capita e la campagna referendaria «una campagna elettorale emozionante», la cui sconfitta non a caso è anch’essa equiparata a «una sconfitta elettorale», come l’ex Presidente del Consiglio va ripetendo dal discorso tenuto in occasione dell’annuncio delle dimissioni.

La sconfitta viene giustificata e compresa alla luce dell’errore di aver personalizzato la propaganda referendaria a tal punto da rendere questa scelta la principale causa del suicidio politico del Presidente del Consiglio. Viene insomma ricondotta all’emotività e ai limiti caratteriali (arroganza, autolesionismo) di un personaggio che invece di comportarsi da uomo di Stato, evitando di portare il paese in una crisi istituzionale dettata come minimo dall’egoismo politico e da un inesistente senso del limite che l’agone politico non deve mai superare, si atteggia a uomo etico e capro espiatorio del sistema, come dimostra la lettura che l’ideologia dominante ha fatto delle dimissioni nel segno della dignità e della correttezza dell’uomo rispettoso delle istituzioni, quando aveva appena fallito il tentativo di stravolgerle. Un atteggiamento talmente antimachiavellico e irrispettoso dei rapporti di forza che l’uomo di Stato dovrebbe sempre essere pronto a gestire per la tenuta della Repubblica, da essere equiparabile a quel «moralista politico, che si foggia una morale così come il vantaggio dell’uomo di Stato la trova conveniente», da cui Kant metteva in guardia. Quand’anche il fronte dell’ideologia dominante che ha sostenuto questo percorso, i cui esiti avrebbero potuto essere nefasti per la democrazia, si sia impegnata durante e dopo in un discorso autocritico, lo ha fatto più spesso con un linguaggio che potesse far sembrare anche una critica una gentile cortesia. Come quando in occasione del referendum sulle trivellazioni a fronte prima dell’invito governativo all’astensione poi della conseguente manipolazione del dato astensionistico, al posto di una decisa denuncia arrivò, dal quotidiano che ha maggiormente sostenuto l’ascesa al potere del Presidente del Consiglio, solo un timido gerundio politico: «ci stiamo avviando verso un governo personale». (I. Diamanti, Referendum trivelle, la mappa del non voto, “La Repubblica.it”, 19 aprile 2016)

Di gerundio in gerundio giungiamo all’oggi, ma dal linguaggio giornalistico che ammicca al potere ancora nessuna forma indicativa e tanto meno imperativa.

Le analisi del voto confermano questa palese subordinazione, dove il No referendario e le sue ragioni cognitive continuano a non avere il peso che meritano, se addirittura si arriva a rincarare la dose e a considerare giusta e corretta l’esigenza di modificare un sistema di pesi e contrappesi che i padri fondatori avrebbero voluto «scomodo per evitare la concentrazione di potere dopo vent’anni di fascismo. Nonostante le loro nobili intenzioni, hanno portato a uno stato attuale nel Paese in cui governare richiede uno sforzo kafkiano» (G. Riotta, Le dimissioni di Renzi, la caduta di Roma, “La Stampa”, 7/12/2016).

Siamo alla messa in discussione dei fondamenti del liberalismo classico (Locke e Montesquieu) la cui forza attuale sta ancora oggi nella formulazione chiara e netta della limitazione dei poteri dello Stato, quindi alla messa in discussione del principio generale secondo il quale i poteri, la cui natura è di tendere all’ingrandimento, hanno sempre bisogno di essere bilanciati e limitati per evitare la facile deriva autoritaria del loro esercizio.

Con una leggerezza da dilettanti, si veicola insomma l’idea che il principio del controllo reciproco dei poteri e della loro distribuzione invece di essere una risorsa è decisamente un intralcio. E si capisce il perché. Questa è la stessa ideologia che ispira il Jobs Act, con il quale si conferisce più forza ai datori di lavoro per indebolire i diritti dei lavoratori, ispira la Legge 107 della scuola, con la quale si conferiscono maggiori poteri ai dirigenti e minori diritti ai docenti a cui vengono affidati più impegni a parità di salario. Un’ideologia che da una legge ordinaria all’altra stava per essere elevata a norma fondamentale di Stato.

Di conseguenza non sorprende che la manipolazione mediatica continui a sottrarsi ad un’interpretazione oggettiva e veritiera del voto, non sorprende che essa possa riconoscere di aver fallito nel tentativo di condizionare la volontà del 60% dell’elettorato.

Persino di fronte al dato matematico del voto giovanile, la teoria, piegata strumentalmente alla scelta politica, invece di riconoscere in questo voto la smentita empirica del dogma psicoanalitico, quell’odio dei giovani che si erge a valutazione del politico e del collettivo, sostiene che invece la conferma (e Popper avrà su questo limite della psicoanalisi sempre ragione). La vittoria del No sarebbe la prova di un odio che non avrebbe trovato «una canalizzazione simbolica», come a dire che non sarebbe stato intercettato neanche dai giovani in perenne contraddizione con se stessi (Intervista a M. Recalcati, “Un paese vittima dell’odio, che gode nella distruzione, “l’Unità.tv”, 7 dicembre 2016).

E tuttavia, a volere enfatizzare le conseguenze che coerentemente deriverebbero da questa pseudo teoria, il voto dei giovani dimostrerebbe al contrario senso di gratitudine e rispetto verso quelle madri e quei padri costituenti di cui evidentemente essi avvertono di essere gli eredi. Una conclusione questa che non sarebbe comunque molto diversa dalla trasfigurazione emozionale e psico-patologica del dissenso politico che è una delle caratteristiche più eclatanti della visione populistica, in questo caso giovanilistica, del politico. Una trasfigurazione che, al pari dell’ideologia dominante con la quale si identifica, non si lascia falsificare dalla realtà oggettiva, perché il suo scopo è appunto falsarla con continui aggiramenti.

Di conseguenza, con il solito elitismo morale per cui mentre si riconosce democraticamente l’esito del voto, poi lo si manipola, mentre si chiamano i cittadini a votare, poi li si disprezza, poca o nessuna enfasi è stata data ad una campagna referendaria che ha dato voce ad una società civile attiva, informata, democratica, pluralista che ha mobilitato associazioni e comitati, scuole, centri culturali e accademici, per non parlare di tutti i partiti politici e dell’associazionismo di sinistra. Una realtà che ha dato piuttosto ragione almeno ad un fattore di quella democrazia deliberativa e dibattimentale che stenta ad affermarsi, vale a dire, come direbbe Habermas, che le saracinesche del potere si sono dovute necessariamente alzare per immettere flussi comunicativi di legittimazione, che evidentemente chiedono non meno ma più Costituzione, non meno ma più democrazia, non meno ma più democrazia sociale. Il che non è ancora una garanzia dello stato di buona salute della democrazia se i bisogni e gli interessi che questi flussi comunicativi esprimono non saranno intercettati e tradotti dal potere istituzionale.

Bocciando la proposta di riforma costituzionale e la sua ideologica manipolazione, il fronte del No è stato dunque molto chiaro, ancora in due sensi.

Dando ancora una volta ragione a Calamandrei, quando nel suo discorso ai giovani affermava che la nostra Costituzione è sì polemica verso il passato fascista, ma tanto più verso il presente ogni volta che giudica negativamente l’ordinamento sociale attuale che non si sia adeguato ai suoi dettami. La vittoria del No dimostra che la nostra Costituzione è ancora molto polemica nei confronti di questo presente e di tutti i tentativi di spolemizzarla attraverso il rafforzamento dell’esecutivo, lo squilibrio dei poteri e leggi elettorali che non rappresentino il pluralismo partitico e la dialettica politica.

Dando ancora una volta ragione a Togliatti che quand’anche contrario al sistema bicamerale, non finiva di insistere che qualsiasi fosse stato il numero delle Camere esse sarebbero dovute sottostare alla condizione di essere «entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo», che dunque qualsiasi ordinamento costituzionale deve lasciare che gli istituti parlamentari esprimano sempre la volontà popolare e tutta l’ampiezza e la complessità della sua rappresentanza; che lottare «per una Costituzione che sia una Costituzione popolare», «che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della Nazione» significa seguire «una linea di condotta conseguentemente democratica».

Che infine solo questa linea di condotta offre alla democrazia anche il criterio per capire da che parte stanno i suoi nemici (Discorso all’Assemblea Costituente, 11 marzo 1947).

 

da http://dialetticaefilosofia.it/

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3 Commenti


  • Maurizio

     Non so se, quando lo psicoanalista J.A. Miller sosteneva la necessità di ‘parlare la lingua dell’altro’, cercando di rendere l’analista una figura attuale, elastica, capace di lasciare sempre più le mura dello studio, si riferisse anche alle kermesse di corrente di partito, come quella tenutasi alla Leopolda. La passerella fiorentina rappresentava invero più un salotto esclusivo, il défilé di una piccola élite, che non le voci della città.
    La psicoanalisi, piuttosto che accasarsi presso un’avanguardia benpensante e piena, satolla di mezzi e verità, dovrebbe andare laddove la carne della città è viva, in bilico, precaria, disoccupata. Dove c’è il vuoto, dove qualcosa manca, cercando di dare voce a tutti coloro i quali la voce l’hanno persa, al prezzo di volgarizzarsi. Non è populismo dire che là dentro non erano rappresentate che alcune delle voci della società. Non certo quelle dei docenti toccati dalle recenti riforme, nè quelle dei giovani vittime del jobs act, manco quelle degli operai della Fiat colpiti dal ‘modello Marchionne’, uomo col quale il leader della Leopolda si dice in piena sintonia. Se la psicoanalisi la si vuole usare in città, dans la rue, si deve cercare di arrivare anche nelle periferie. Pena, il cadere in un gioco di specchi dove il padrone si bea delle sue parole e dei suoi tecnicismi, che si stagliano, ma sfumano in mezzo alla pletora di applausi e voci univoche del coro.

    Come uomini possiamo andare ovunque. Entrare in qualsiasi consesso liberamente. Come analisti sappiamo che esistono stanze che ci impongo di lasciare il soprabito fuori dalla porta. La questione dell’‘opacità’ dell’analista, vale a dire la capacità tenace di non lasciare trasparire che poco o nulla dei propri vissuti interiori, è un articolo cardine della costituzione analitica, che permette all’analista di restare tale, occupando quella posizione, indipendentemente dal mutare dei tempi e dei costumi. L’analista, e questo lo sanno davvero tutti coloro che sono addetti ai lavori, affinché il dispositivo funzioni e non si tramuti in qualcosa d’altro, deve saper mantenere questa posizione il più possibile decolorata, quel posto che Lacan definisce dello ‘scarto’. In seduta, certo. Ma non solo. Viceversa, il mostrare pubblicamente le proprie pulsioni, idee, vestendole del lessico clinico, può sfociare in qualcosa che assomiglia ad un ‘giudizio diagnostico’ extra moenia. E in un mondo mediatico dove se ti metti in posa sai che il tuo messaggio verrà replicato all’infinito, è qualcosa che può turbare, scuotere, colpire, pasticciare il lavoro in corso di tanti che si sono sentiti chiamati in causa. Penso al lavoro analitico delle mummie masochiste che voteranno no. Mi chiedo quale sarebbe la reazione dei miei analizzanti, del pd, o quelli di sinistra, o di destra, se mi vedessero non già schierato, quanto ‘arruolato’ imbracciando la doppietta del dsm in uno dei palchi politici ai quali ho partecipato. Apostrofando parte di essi come un ‘corpo unico’, definendoli in base a questa o quella affezione dalla quale sarebbero interessati. Quanto poco ci vorrebbe a pisciare su anni ed anni di faticosa costruzione di rapporti a volte difficili, densi di elementi transferali da tenere sotto controllo. Quanta fatica per raggiungere, con i limiti della mia imperfezione, la meta dell’uno per uno. Come entreranno in seduta tutti questi analizzanti che votano no? Anni ed anni di rettifica personale, con lavori minuziosi e faticosi sulla pelle del proprio inconscio, resisteranno alla diagnosi di massa effettuata dal video? E quelli che son padri e votano no, o che hanno padri che votano no, sono pronti a vivere da mummie, affette dalla patologia del masochismo? Si tramuterà in un allungamento delle sedute per elaborare la diagnosi inaspettata, o basterà non parlarne?

    L’uso del linguaggio analitico per definire, e mal apostrofare, non un singolo, ma un’intera categoria di persone unite esclusivamente dal loro orientamento referendario, è una brutta deriva. Usare la diagnosi per stigmatizzare, categorizzare, delocalizzare tutto quello che sfugge alla propria capacità di ordinare simbolicamente, risponde alla necessità arcaica del dipingere il dissenziente come barbaro, malato, una sorta di golem mummificato ed angosciante che cammina per strada terrorizzando la tranquilla popolazione e premendo alle porte, come nella serie Wayward Pines. Taglio di bistecca con  mannaia; tre pezzi di carne: i vecchi mummificati, gli adolescenti perenni abbagliati da grillo, e, finalmente, gli ‘eletti’ dotati di verbo, idee e sognatori. E pazienza se sul sito dell’ordine degli psicologi trovo scritto che: lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell’esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l’uso non appropriato della sua influenza.
    Diceva quel tale ‘Le eresie devono pur esistere’, ed è proprio questo il vero spirito laico dello psicoanalista. Aprire la porta ed accogliere tutto ciò che è dissonante, incomprensibile. Quell’elemento di sorpresa che distingue la clinica analitica da un processo di normalizzazione. All’analista non frega nulla dell’ordine pubblico.

    Ridiamo pure delle mummie ma, dietro al grottesco, si nasconde il giudizio. Chi fa lo psicoanalista, lo sa. Essere masochista, paranoico, fobico, schizofrenico, dissociato, non è una colpa. Sono strutture che il soggetto si trova ad abitare, lui nonostante. La psicoanalisi non giudica, accoglie. Ho ricevuto un insegnamento in questo campo, giacché tra tanti maestri fallaci, qualche clinico rigoroso l’ho incontrato, seppur tardi. L’insegnamento consiste in questo: quando parli di clinica, e fai il mestiere dell’analista, usi il linguaggio al pieno delle sue potenzialità, gravido delle sue implicazioni e devi essere pronto a sopportare le conseguenze di ciò che dici. Il masochista non è secondo Lacan semplicemente colui il quale gode soffrendo, bensì un deietto(1). Dunque un soggetto deresponsabilizzato. L’accozzaglia del no sapeva di essere gruppo di burattini in cerca di padrone, come Peter Sellers di ‘Oltre il giardino’? In realtà i mille no che io conosco, il mio compreso, affondano radici in motivazioni ben coscienti e consapevoli. Molti di loro semplicemente hanno pensato di dire no perché questa riforma è fatta male. O perché non amano Renzi e la sua compagine. O perché hanno i loro motivi.

    Se usassimo il giudizio clinico fuori dallo studio, stravolgendo come detto l’essenza stessa della psicoanalisi, la Leopolda potrebbe apparire un luogo di obbedienza, dove si vota sì perché è ciò che ha detto il capo. Potrei abusare delle nozioni diagnostiche riempiendomi la bocca di parole come “forza della legge perversa”, alienazione e fedeltà. Potrei addirittura scomodare la perversione. Il perverso in fondo non è che un uomo di fede, un essere che cerca, edifica e venera un Dio al quale votarsi. Ma non farei lo psicanalista. Ciò nonostante nessuno riuscirà mai a togliermi dalla testa la convinzione che nel caso della nomina di Telemaco abbia agito una vera lex perversa. Tramutato in Caino, fa fuori il fratello di partito e ne prende il posto. Senza passare dalle urne, senza mai quell’incontro con il principio di realtà chiamato voto. Come mummia continuo a sedermi su vecchie e solide certezze: per cambiare la Carta Costituzionale, devi sapere cosa fai. Ma, soprattutto, devi esser certo di rappresentare davvero l’intenzione popolare, la maggioranza del paese, e questo, lo si voglia o meno, lo si ottiene attraverso il voto. Diversamente ti atteggi a minoranza autoeletta ed illuminata, che ti porta a redigere un quesito referendario nel quale mostri i pregi di questa tua modifica, ma tieni i difetti nella stilografica.

    Liquidare l’avversario perché indossa indumenti diagnostici, significa adottare una micidiale prospettiva secondo la quale la protesta, il dissenso, diventano ipso facto paranoiche, perché attentano alla verità del capo. Ecco allora il vecchio, democristiano, ritorno di noi vs loro. Con Berlusconi gli altri erano ‘invidiosi’, oggi invece accomunati da una unica trinariciuta ‘passione masochista’. La “Guerra all’Eurasia” è stata dichiarata e la costruzione del nemico, che ora è anche malato, prende forma nel coro dei plaudenti, concretizzandosi in un ‘fuori fuori’, rivolto agli ex amici di partito, vissuti come un’orda compatta di Uruk-Ai che cinge d’assedio le insonorizzate mura della Leopolda. Un’orda non pensante, che sta per entrare nella stanza dove alcuni eletti stanno riscrivendo la carta, anche per il loro bene, e questi nemmeno lo sanno. Come nel film ‘Gattaca’, come nelle parole di Philp Dick ‘Coloro che ti sono avversi, sono pazzi’.
    Questo perché il potere, alla fine, è sempre uguale a sé stesso, per sua stessa natura, è paranoico, e non tollera le voci dissenzienti perché è forcluso. E la sua forclusione è direttamente proporzionale alla forza muscolare che mette in campo per zittire le voci dissonanti. Libero di fare quel che vuole dentro a regole rigide impartite agli altri, costituisce quel discorso che la psicoanalisi deve avversare, non lisciare. Può essa essere messa al servizio di un potere che si blinda, che cambia i direttori dei telegiornali in corso d’opera per garantirsi una miglior audience? Che manganella i dissenzienti fuori le mura? Non mi si dica, per l’amor di Dio, che i manifestanti fermati alle porte della Leopolda dalle forze dell’ordine e dal servizio di sicurezza del Pd erano tutti facinorosi black block. Non mi si cerchi di avvalorare la tesi fatta passare dal palco: ‘là fuori loro ci odiano!’ Era Berlusconi ad usare la logica dell’amore vs odio, che tanto gli ha fruttato. Al netto delle condotte violente, era la voce contrastante. Erano quel reale inassimilato che, se forcluso a manganellate, torna, e sempre tornerà, come insegna Lacan, dalla finestra, che dovrà essere sempre più spessa, più barricata. Per proteggere gli eletti dall’avanzare scomposto del nemico, che avrà le sembianze vieppiù del persecutore, del perturbante, del kakon. ‘La mummia’, ‘il vecchio’, ‘il conservatore’, ‘ il cattivo partigiano’, passerella linguista degli orrori a significare che nell’altro qualcosa non funziona, e dentro alla piramide c’è la salute e la tranquillità.
    Nessuno in realtà li odia. Né tantomeno truppe cammellate vogliono rubare loro i sogni. Sono loro ad avere un sogno che cercano di imporre come buona pratica di vita urbi et orbi. Hanno un sogno, ma non rappresentano null’altro che sé stessi. Staccati dall’elettorato, incuranti della loro effettiva rappresentatività, paventano predoni onirici, quando non si tratta che della gente, degli uomini del quotidiano. Quella stessa gente che del referendum sa poco o nulla, malamente informata, e per nulla istruita. Il 33% degli Italiani ha appena sentito parlare delle questioni referendarie. Il 14% dichiara di non saperne nulla. E qua, la nuova compagine telemacoide dimostra di aver del tutto abdicato all’erotica dell’insegnamento, quella cioè di informare le masse, dando la giusta dose di conoscenza. Per dirla alla Orwell “l’ignoranza è forza”.

    Io sono un uomo di sinistra dunque abissalmente lontano da Renzi, dal renzismo e dalla claque della Leopolda. E poco mi interessano. Dunque queste righe non sono da intendersi come una sorta di dichiarazione politica, non sarebbe questa la sede. Ma poiché il mestiere dell’analista tento di praticarlo, mi è parso doveroso ricordare che l’analisi è sfida, è verità minoritaria. E’ incontro con l’alterità, messa in discussione di un sapere, qualunque esso sia. L’analisi, in quanto tale, è una resistenza all’omologazione, al dire comune. Il dire analitico rompe le palle al padrone, non lo blandisce. E’ la sfida di ogni giorno nell’aprire la porta a uomini e donne che non hanno denaro, e hanno sempre meno parole. La vera sfida sta nel parlare con la medicina, con la psichiatria. Anche con la politica, ma non accovacciati al camino mentre il padrone sorseggia il tè.
    La sfida della psicoanalisi sta nell’essere laddove viene vista con sospetto, con timore. Anni passati a discutere con il Pd di Modena (che un tempo non lontano ospitava la federazione del partito comunista più grande d’Europa) di eutanasia, vittime del fine lavoro, della non legge sulla tortura, di perversione e di terrorismo, delle violenze perpetrate da parti delle forze di polizia. Ospite, relatore ed organizzatore in dibattiti dove alla fine del confronto ci sono state strette di mano cordiali, sorrisi. E niente più . Niente selfie, niente cene o foto di gruppo. Cortesia fredda ma gentile. L’utilizzo che ho fatto della psicoanalisi a quei tavoli, è il solo che conosco. Portare domande, interrogativi, questioni che possano puntare il dito sulla mancanza del maitre, sul suo sentirsi pieno nel dare risposte. La psicoanalisi non può dunque essere di casa dal padrone. Possono invece esserlo gli uomini, questo si, con le loro idee e le loro aspirazioni. Ma l’uso dell’analisi si fonda sul suo essere quotidianamente impegnata in un processo di ri-territorializzazzione. Credo che il suo vero valore stia in quell’essere territoriale e non padronale, come Deleuze e Guattari sostenevano a proposito della letteratura. “Odiate ogni letteratura da padroni”,Quanti stili, o generi, o movimenti letterari, sognano una cosa sola: assumere una funzione maggiore del linguaggio, offrire i propri servizi come lingua di stato”.

    Telemaco, dal suo palco autoreferenziale, non poteva dire ‘lo faccio perché io lo dico’, sarebbe stata una tautologia psicotica, un ‘farsi un nome’. La legittimità ad incarnare il posto di Telemaco, presuppone un Ulisse. Un padre, poi superato, nel solco del quale ci si muove. Già ma dove trovarli, ora che ci sono solo mummie in giro? Uno a dire la verità c’è stato. Col patto del Nazareno, che fece storcere più di un naso, stabilì un rapporto di non belligeranza, e di quasi filiazione nei programmi con Berlusconi, più di una volta sorpreso a rispecchiarsi nelle gesta del toscano. Poi le strade si sono divise. Dove trovare dei padri, dunque? Se i padri nobili mancano, si arruolano i padri morti. Quello che il gruppo leopoldino ha messo in atto è una vera e propria riesumazione del padre defunto, artatamente ricolorato al quale, come nella macabra scena de ‘La casa delle finestre che ridono’, si fanno pronunciare quelle parole mai dette che permettono di agire in nome e per conto di, guadagnando così la linea conservativa patrilineare. Berlinguer, Nilde Iotti, Indro Montanelli, Giovanni Falcone. Tutti morti, tutti per il si.

    '(…e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria è più prosa che poesia..'. )

    Come Rino Gaetano, fatico a vedere il volto poetico di Telemaco, che non è poi così nuovo. Scuola democristiana, Sindaco, presidente di Provincia. Se lui è poeta, ai miei occhi prosaici ci sono i frutti del suo lavoro. Mettere i propri uomini ai posti chiave dei media, è roba vecchia. L’appoggio da parte di parlamentari di destra, alcuni dei quali plurinquisiti, è un residuo del vecchio trasformismo. Ho visto troppi insegnanti scaraventati in giro per lo stivale, ridotti a merce viaggiante in omaggio al progetto della ‘buona scuola’. Altrettanti giovani annichiliti e depressi da un mercato del lavoro che gli sbarra la strada, facilitato in questo dal mirabile progetto delle ‘tutele crescenti’, per vedere il premier nella sua versione dantesca. Più prosaicamente ho visto metodiche da vecchia Repubblica, compresa la mancia da 80 euro. Non vedo poesia, dicevo. E mentre ascolto Giorgio Gori, partecipante della prima Leopolda divenuto poi sindaco affermare che ‘Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe l'esame di cittadinanza’, trovo in giro una vecchia dichiarazione del Pd, prima che la rottamazione avesse inizio: “La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza”. Partito Democratico, 2008…

    1)[1] ’Il volere invece del masochista è quello di occupare rispetto all’altro la posizione di oggetto, di cosa , di elemento disponibile, sacrificabile’. Ancora, ‘Ciò che il masochista intende far apparire (…) è che il desiderio dell’Altro fa la legge (…) ‘Il masochista appare in questa funzione che chiamerei quella del deietto’.


  • Daniele

    Chapeau a Maurizio, capita poche volte di leggere un'analisi scientifica, acuta e provata della disgrazia che stiamo vivendo, quindi chapeau!


  • Elena Maria Fabrizio

    Grazie a Contropiano per aver ospitato il mio articolo e a Maurizio Montanari per la "glossa" scientifica.

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