Una lettera di Paolo Di Vetta denuncia il crescente clima repressivo contro gli attivisti politici e le conseguenze dell'esclusione sociale.
Non si può affrontare ciò che ci sta accadendo separandolo dal contesto sociale in cui ci muoviamo e portiamo avanti la nostra iniziativa. Una realtà che in maniera sempre più evidente ci mostra una crescente esclusione sociale e un’aggressione sistematica a diritti e tutele che si davano per acquisiti, mascherata da modernità. Nel 2014 di fronte ad un avanzamento deciso delle lotte per il diritto all’abitare abbiamo visto apparire in una legge dello Stato un articolo, l’articolo 5 del piano casa, chiaramente anticostituzionale e discriminatorio, dal palese intento limitativo e vessatorio. Uno schiaffo potente per comprimere e mettere all’indice coloro che per necessità occupano un alloggio.
Siamo andati talmente avanti da quel giorno che oggi ci troviamo ad analizzare il cosiddetto pacchetto Minniti sulla sicurezza che realizza un passaggio di fase notevole per i dispositivi di controllo e prevenzione. Di nuovo i bersagli sembrano essere il disagio sociale, l’immigrazione, l’espressione del dissenso anche nelle forme dell’arte di strada, gli stadi. Tutto ciò che avviene dentro questi circuiti va sorvegliato, perimetrato, compresso.
Le lotte e le diverse pratiche messe in campo dai movimenti per la casa, nei posti di lavoro (soprattutto nella logistica), nelle periferie come nelle campagne, nelle scuole e nell’università, quando producono forme e intensità superiore alla tolleranza definita dentro regole sempre più stringenti diventano pericolose e in quanto tali vanno fermate, sembrerebbe a qualunque costo. Anche mettendo mano a strumenti giudiziari decisamente lesivi sul piano personale per i soggetti più attivi, e per quelli più esposti o più ricattabili come i migranti.
L’avanzamento sociale e la conquista dei diritti però sono stati indissolubilmente legati a momenti di forte tensione e conflitti capaci di cambiare le regole del gioco anche sul piano giudiziario e nessuno si è mai scandalizzato di fronte ad un blocco stradale, ad un picchetto, ad una occupazione di uffici pubblici. Anzi spesso la pressione sociale e la spinta dal basso hanno fatto si che la vita di tutti noi divenisse migliore. Ora che sta accadendo? Ci sono nuovi limiti alle pratiche di lotta e alle forme del conflitto? Che rapporto c’è tra l’espressione del dissenso, l’organizzazione delle realtà sociali colpite dalla crisi, la rabbia che esse esprimono e la volontà di garantire che questo possa ancora accadere liberamente? Quali forme di garantismo sono ancora immaginabili di fronte ad un utilizzo sempre più spregiudicato delle misure di prevenzione e del pregiudizio anche da parte della magistratura?
La prevenzione/compressione che si sta producendo anche nei miei confronti viene considerata legittima dalla procura, dentro un’azione penale fortemente connotata politicamente, e quindi io dovrei assistere inerte alla conferma dell’aggravamento della misura con conseguente allontanamento dalla mia città. Non ho nessuna intenzione di tollerare questa eventuale iniziativa e rifiuterò, decisamente, di spostarmi da Roma: un atto di disobbedienza civile che ritengo necessario; nello stesso tempo mi domando, aldilà della decisione personale, se è possibile iniziare ad attivare anticorpi capaci di produrre una inversione di rotta utile non solo alle vicende di chi è colpito ma in favore delle migliaia di persone a rischio di esclusione sociale che potrebbero a breve fare i conti con una legislazione fortemente pregiudiziale nei confronti del disagio e delle lotte.
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