Il primo turno delle elezioni presidenziali francesi si è rivelato assai meno destabilizzante di quanto previsto da commentatori e analisti. A guardare il risultato della tornata di domenica scorsa si nota infatti che al secondo turno il candidato dell’establishment liberale ed europeista, già tecnocrate in vari governi e banchiere, ha ottime chance di stracciare al secondo turno la sua sfidante Marine Le Pen, che ha ottenuto già al primo turno buona parte dei voti potenzialmente a sua disposizione.
Se è vero che il sistema politico sul quale si sono basate finora la stabilità e la governance della V Repubblica nel paese più importante all’interno del progetto imperialista europeo dopo la Germania, cioè l’alternanza socialisti / gollisti, è anche vero che il sistema sembra aver diligentemente trovato una redditizia carta di riserva. Macron, uomo dei poteri forti sostenuto fin dall’inizio da ambienti interni o vicini al Partito Socialista e ovviamente appoggiato al secondo turno anche da tutte le formazioni di centro e centro-destra, ha attirato milioni di consensi in fuga dai due schieramenti politici tradizionali. I socialisti sono brutalmente tracollati, perdendo a sinistra verso Melenchon e a destra verso Macron. Ma i Republicains non hanno affatto approfittato dello smottamento di Benoit Hamon fermandosi al 20%, percentuale invece raggiunta dal candidato delle sinistre Melenchòn che ha saputo intercettare i consensi di vasti settori popolari investiti da una gestione autoritaria e liberista della crisi che ha scatenato nei mesi e negli anni scorsi vasti movimenti e mobilitazione di protesta nel mondo giovanile e del lavoro. Dall’affermazione di Melenchon emerge nel panorama politico francese una posizione terza e relativamente autonoma, capace di intercettare importanti settori popolari altrimenti egemonizzati dall'estrema destra.
Ma se è vero che in un paese centrale dell’Unione Europea la campagna elettorale si è giocata almeno a sinistra sui temi legati ai trattati europei, ai vincoli di bilancio, alle questioni sociali – con Melenchon che ha criticato l’arrendevolezza di Tsipras di fronte alla Troika e, seppur ambiguamente, affermato la necessità, in caso d’impossibilità di riforma dell’UE, di un’uscita della Francia dall’Ue e dalla Nato – è altrettanto vero che il vuoto creato dalla crisi dei partiti tradizionali è stato repentinamente ed efficacemente riempito da un candidato che rappresenta il peggio dell’Unione Europea e della sua natura antipopolare.
Un segnale di stabilità e di stabilizzazione, quello di Parigi, che segue di poche settimana la vittoria dei liberali di Rutte e delle forze europeiste alle elezioni legislative tenutesi in Olanda, respingendo l’assalto degli “euroscettici” xenofobi di Geert Wilders. Un dato da non sottovalutare, in considerazione del fatto che tra qualche mese le elezioni tedesche potranno anche vedere un aumento dei consensi per i socialdemocratici a danno dei democristiani di Angela Merkel, ma niente che impensierisca l’oliata e per ora infrangibile meccanismo di governance della cosiddetta locomotiva dell’Unione Europea, dove l’ascesa dell’estrema destra sembra non solo essersi bloccata ma addirittura invertita.
Come abbiamo avuto modo di scrivere nei mesi scorsi, l’Unione Europea è tutt’altro che sull’orlo di una crisi irreversibile, e anzi sembra approfittare in maniera sempre più efficace delle crisi interne ed internazionali che è costretta a subire per rafforzare un processo di integrazione, gerarchizzazione e centralizzazione che è imperfetto e contraddittorio quanto si vuole, ma che si rivela sempre più micidiale.
D’altronde il cambio di passo a livello internazionale determinato dalla Brexit e dalle politiche aggressive di Donald Trump – che promette di sfasciare l’Unione Europea e comunque tenta di evitare il declino di Washington a suon di provocazioni militari e guerre commerciali – non lasciano altra scelta ai think tank e al capitale monopolistico continentale: rafforzarsi al proprio interno per agire sempre più compattamente in un quadro di competizione globale sempre più feroce oppure soccombere.
Se non vogliamo essere stritolati da una tenaglia micidiale tra i vari poli della competizione interimperialistica o, peggio, “votare i crediti di guerra” a favore di una classe dirigente europeista avida e irresponsabile, la battaglia per la rottura dell’Unione Europea a partire da presupposti anticapitalisti e internazionalisti non può che essere accelerata e rafforzata. In questo senso valutiamo positivamente la decisione di quei settori della sinistra popolare francese che stanno rifiutando il ricatto del voto utile e del meno peggio al ballottaggio tra Macron e Le Pen.
Rete dei Comunisti
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