L’analisi di quel che sta avvenendo ai vertici degli Stati Uniti, sui media mainstream, è sostituita sistematicamente da “strilli” che dovrebbero uscistare indignazione e predisposizione al tifo da stadio. Ovviamente contro Trump, il “Mule” asimoviano che è arrivato alla Casa Bianca demolendo la residua credibilità dei due comitati elettorali (a chiamarli “partiti” si fa inutile confusione).
Zero analisi, zero comprensione. Questo editoriale, preso nientemeno che da L’Avvenire – sì, il quotidiano dei vescovi italiani – mette qualche elemento problematico, invitando a sollevarsi dalla condizione di “tifosi” e, quantomeno, ad interrogarsi sull’andamento oggettivo del campionato.
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Pare che l’ombra dell’impeachment cominci ad allungarsi su Donald Trump. Si è quindi tentati di dire: dov’è la notizia? La trappola organizzata dal Partito democratico e da una parte del Partito repubblicano, che per l’elezione del 2016 aveva puntato su altri, anche se fallimentari cavalli, era scattata già nell’estate scorsa, quando era stata denunciata a gran voce l’irruzione degli hacker (russi, ovviamente) nei computer del Partito democratico e poi in quelli di Hillary Clinton. Da lì a parlare di elezione “truccata” dal Cremlino a favore di Trump e a trasformare il neo-Presidente in un burattino di Vladimir Putin, il passo era breve. Ora ci si prepara a quello finale: cacciare l’«intruso» dalla Casa Bianca. E l’«intruso» non fa molto per intralciare questi piani e, anzi, errore dopo errore, sembra votato ad agevolarli.
Poco importa se, con ogni evidenza, contro di lui vengono agitati argomenti in gran parte privi di senso. Le liste elettorali americane non furono alterate. Le mail rubate ai democratici rivelavano solo che i vertici del Partito avevano favorito Clinton contro la candidatura di Bernie Sanders (e infatti Debbie Wasserman Schultz, presidentessa del Partito, si era dovuta dimettere). Quelle hackerate a Clinton stessa si risolvevano in un cumulo di pettegolezzi di poca sostanza, come all’epoca riconosciuto dai grandi giornali internazionali. D’altra parte, Clinton ha ottenuto 3 milioni di voti più di Trump. Potevano, gli hacker, modulare gli effetti di Stato in Stato, da una circoscrizione elettorale all’altra? Ovvio che no.
Ed è così, più o meno, per tutto il resto. I servizi di intelligence Usa (17 agenzie, 107mila dipendenti, nel 2013 fondi per 52,6 miliardi di dollari) indagano da mesi sul Russiagate e non hanno ancora trovato una prova conclusiva. Qualcuno davvero crede che Michael Flynn, ex capo dei servizi di spionaggio militare, scelto da Trump come consigliere per la Sicurezza nazionale, non sapesse che i suoi incontri con l’ambasciatore russo negli Usa erano osservati e ascoltati? Qualcuno davvero pensa che il ministro degli Esteri russo Lavrov abbia spalancato gli occhi per la sorpresa quando Trump, alla Casa Bianca, gli ha detto che il Daesh pensa di fare attentati con bombe nascoste nei Pc o nei tablet, minaccia di cui discute da mesi sui giornali? Questa, però, è la minestra servita ogni giorno agli americani e agli europei. Ed è stupefacente che quasi nessuno si renda conto di quel che giace sul fondo del piatto.
Ovvero, una lotta di potere al vertice del sistema di Governo degli Usa che rischia di azzoppare gravemente la superpotenza che influenza un’ampia porzione del Pianeta. Chi dice di amare gli Usa, e ancor più chi dice di amare la democrazia, invece di esultare per ogni colpo portato a Trump dovrebbe preoccuparsi, e molto. Ci sono parti del sistema giudiziario, dei servizi segreti e della struttura amministrativa ribelli alle direttive del Presidente eletto dagli americani. Se in Italia o in Francia i capi dei servizi segreti e della polizia andassero in tv o sui giornali a dire che il Presidente è diventato tale grazie a una potenza ostile, parleremmo di situazione eversiva.
Come si può pensare che negli Usa, al contrario, ciò sia un sintomo di salute politica e istituzionale? E non capire, proprio alla vigilia di un G7 paurosamente ricco di implicazioni e di cui l’Italia ha la presidenza, che ciò è destabilizzante per l’Occidente intero? Donald Trump ha fatto di tutto per agevolare i suoi nemici, portando con sé una dose incredibile di improvvisazione e pressapochismo, oltre che una visione delle cose del mondo almeno confusa e a volte repulsiva. Sulle questioni interne giudicheranno gli americani. Sull’atteggiamento indifferente e persino ostile verso poveri e migranti senza potere abbiamo già detto tutto lo sconcerto e persino l’indignazione. Per il resto, da cittadini di un Paese alleato, che dai progetti dell’America in qualche misura dipende, possiamo dire che il presidente Trump si è rimangiato quasi tutto ciò che, nel bene e nel male, aveva proclamato nella campagna elettorale. Voleva litigare con la Cina e rinnegare i trattati commerciali, è successo il contrario. Voleva rivedere le alleanze in Medio Oriente e la politica della bomba facile, sta per arrivare in Arabia Saudita e firmare vendite di armi da record, superiori persino a quelle degli ultimi anni.
E così via, in un tentativo sempre più affannoso di recuperare consenso compiacendo i neocon repubblicani che gli fanno la fronda. Siamo sicuri che il gioco valga la candela? Che il prezzo pagato per cacciare Trump non risulti, alla fine, troppo elevato? Che i tanti democratici ben intenzionati non stiano alla fine regalando a Cina, Russia e Iran, tanto per citare alcuni dei loro spauracchi, proprio il risultato da questi cercato, e cioè la fine del «secolo americano»?
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