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Giovanni Pesce, lettera ad un padre

Ricorre oggi il decimo anniversario della scomparsa di Giovanni Pesce, Comandante Partigiano dei GAP, medaglia d’oro. La figlia del Comandante, Tiziana Pesce, compagna dell’ANPI, di Milano, gli ha scritto una lettera così densa di valori e di amore che ci spiace quasi doverla pubblicare corredata di queste poche parole di introduzione, ed in coda alcuni pensieri nostri, dato che la figura del Comandante Visone è un patrimonio di tutti gli antifascisti e quindi – in teoria – di tutti gli Italiani.

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Papà, ma quante volte hai lasciato il cuore?
Me lo chiedo ogni volta che penso a te, ogni volta che parlo di te. Difficile ripercorrerle, tutte quelle volte.
Forse potrei iniziare da quando a 11 anni in Francia diventasti un pastorello, e un frammento del tuo cuore rimase con Medoc, il cagnolino tuo unico compagno: il tempo dei giochi e della spensieratezza era già finito, per lasciare il posto a un piccolo uomo, maturato troppo in fretta, in mezzo ad altri uomini, i “musi Neri” minatori della Grand Combe che lavoravano in condizioni tragiche, destinati in gran numero a morire di silicosi. Il tuo cuore, tra fatiche, privazioni e lavoro duro fino allo sfinimento, iniziò il percorso che avresti condotto per tutta la tua vita in mezzo ai compagni.
Quando la mattina del 17 novembre 1936 lasciasti giovanissimo la tua casa ed i tuoi affetti alla Grand Combe per andare a combattere in Spagna, perchè non era più tempo di indugi . Seguisti il tuo cuore, palpitante per le parole di Dolores Ibarruri, già pienamente consapevole che “La lotta in Spagna è la lotta tra la democrazia e il fascismo”, come disse Josè Diaz alle Cortes.
Quando dopo la sconfitta delle Brigate Internazionali fosti costretto a tornare in Italia. E il tuo cuore rimase accanto ai tuoi compagni tra gli ulivi vicino all’Ebro. Alcuni di quei volti restarono adagiati su quella terra, altri li ritrovasti in seguito, tra le future strade resistenti . La Spagna ti colpì così forte da insegnarti a resistere.
E il tuo cuore rimase anche a Ventotene, in quella piccola isola-prigione che fu allo stesso tempo la più grande scuola politica che un giovane potesse sperare di avere, accolto dalle grandi figure dell’antifascismo che ti insegnarono il senso più vero della lotta di classe che ti accompagnò per tutta la vita.
Oggi penso a quando avresti voluto far riposare il tuo cuore ad Acqui Terme, dai tuoi unici parenti che ti avevano accolto a rischio della loro vita, ma non trovasti quasi il tempo di riempirti di quell’affetto per tornare subito a correre con la storia. Era l’otto settembre: e non avesti dubbi, nulla da farti perdonare come pure avevano altri che divennero come te patrioti della primissima ora, e la tua scelta fu lineare, sicura, e – naturalmente – percorrendo la strada più di sacrificio.
Quando, a Torino, il tuo cuore divenne quello di Dante Di Nanni e dei tuoi gappisti che furono arrestati, e poi fucilati. Tu, unico sopravvissuto, ti sentisti morire insieme a loro ma rafforzasti la tua volontà di libertà per non deludere i loro sogni. Ed Ivaldi, l’anima della resistenza gappista di Torino, divenne Visone, l’architrave silenziosa ed inesorabile della lotta dei gap a Milano.
Quando nel settembre del 1944 Nori fu arrestata. Ti vedo passeggiare avanti e indietro in quella notte infinita, senza sogni.
Quando finalmente sentisti cantare “Fischia il vento” e ritrovasti i tuoi compagni. Il tuo cuore rimbalzò nel petto e tu facesti fatica a trattenere la commozione e la gioia per l’imminente vittoria , per la libertà riconquistata e per il futuro da costruire.
Quando Umberto Terracini, in una piazza del Duomo gremita, ti appuntò sul cuore la Medaglia d’Oro al Valor Militare che tu, non retoricamente, dedicasti a tutti i partigiani, quelli vivi, ma soprattutto quelli che morirono in nome della libertà.
E qui credo sia indispensabile citare quel bellissimo brano della tua prefazione di Senza Tregua. ”I morti e i vivi si affollano nelle pagine del libro. Sono volti sempre nuovi, pochi diventano familiari perché pochi scampano. Sembra di averli lasciati all’angolo di una strada e di ritrovarli dopo. Li ritroviamo oggi. Riemergono nell’abisso della memoria i molti che la morte ha ingoiato. Gli altri sono diventati diversi: la vita “normale” ha disperso quelli che un periodo di vita eccezionale aveva riunito una volta.
Il tempo di “Senza tregua” è diventato leggenda. Alcuni dei suoi eroi militano in differenti uniformi o addirittura non militano affatto. Che è rimasto dell’eroismo degli uomini? Soltanto la cara memoria dei martiri e il ricordo dei migliori? Gli uomini creano e scompaiono. E le loro opere?
E l’opera più solida è l’Italia antifascista, la pace, la fratellanza dei popoli. E l’opera dei protagonisti di Senza tregua. Tocca ai giovani continuare sulla strada maestra, ai giovani continuare la Resistenza.”
Sono trascorsi dieci anni da quando non ci sei più. Manchi. Tanto. Ma se avessi potuto vedere quella piazza Scala strapiena di persone e di bandiere rosse… ebbene lì è stato il mio e il nostro cuore che abbiamo lasciato quel giorno, ricordandoti con l’affetto e con la commozione per un uomo “inaccessibile allo scoraggiamento”. come recita la motivazione della Medaglia d’oro. E il tuo cuore batterà sempre nei cuori del futuro. I nostri. Il mio.

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Il Comandante Giovanni Pesce ha un’unica figlia, Tiziana, che gli ha scritto questa lettera. Ma non è affatto vero, o almeno non lo è del tutto. Siamo, noi antifascisti, noi ragazzi e ragazze italiani che siamo cresciuti in questa “normale” Italia democristiana ma tuttavia libera, un po’ tutti suoi figli.

Anche noi che qui scriviamo abbiamo letto i suoi libri, compreso il suo insegnamento. Che era poi semplice: un essere umano, se si trova davanti ad un’ingiustizia, ad un’oppressione – quale era il cancro fascista – deve lottare e combattere con ogni mezzo, anche quelli estremi, per porre fine a questa ingiustizia ed all’oppressione.

Il Comandante Pesce, a noi, ha insegnato quasi tutto: il coraggio, la determinazione, la lucidità, l’umanità, la purezza del credo comunista e allo stesso tempo libertario. Quando si dovette sparare, sparò. Ma non fu, come sostiene oggi qualche scriba del quale sarebbe troppo onore per lui anche fare il nome, un assassino o un terrorista. Lo è – assassino – chi cerca di uccidere oggi i nostri ideali, gli ideali antifascisti e partigiani, gli ideali di libertà, che hanno fatto di questo paese, fascista purtroppo nell’anima, invece un paese libero e degno di essere amato.

Come noi amiamo Giovanni Pesce, di amore filiale che va al di là del sangue. Perché quando ci fu da far cessare gli spari, fu il primo a ritornare alla vita civile e normale, evitando il più possibile gli onori e non riscuotendo, come hanno fatto molti, alcun vantaggio dall’avere vinto, dall’essere il Comandante Pesce. Le sue armi divennero allora la parola scritta: lui che ebbe il francese come lingua madre, divenne scrittore e memorialista efficace. Non soltanto per i contenuti, ma per la maniera piana e fruibile con la quale scrisse i suoi libri.

Per questo, noi qui, noi italiani, siamo un po’ tutti figli del Comandante Pesce. Chi scrive ebbe una sola volta la ventura, lui già vecchio, di stringergli la mano. E stringendola non riusci, pur solito ai discorsi, a trovar parole. Forse, le si possono trovare ora: grazie, Comandante, non potrai mai essere dimenticato, perché le tue idee vivono in noi.

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