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Discutendo di privatizzazioni

Nelle esagitate discussioni sulle privatizzazioni che sono avvenute dopo il crollo del ponte di Genova è forse necessario introdurre dei fattori di razionalizzazione e di storicizzazione.

Uno di questi può essere l’indagine conoscitiva della commissione Bilancio, Tesoro e Programmazione la quale nella seduta del 7 Dicembre 2000 si servì della consulenza di rappresentanti delle maggiori sigle sindacali e poi del Professor Marcello De Cecco.

Dopo interventi sindacali brevi e scarsamente significativi (data l’incoerenza tra le osservazioni fatte e il sostanziale appoggio alle privatizzazioni), interessante appare invece l’intervento di De Cecco che esordisce dicendo non a caso: “Vorrei preliminarmente rilevare che le mie opinioni sul tema delle privatizzazioni non sono molto di moda. Considero gran parte di quello che è stato scritto sulle privatizzazioni animato più da ideologia che da principi economici. D’altronde tutti gli economisti hanno dietro un’ideologia. E’ importante – però – non scambiare l’una con l’altra: i ragionamenti economici vanno limitati al campo dell’economia; se poi alcune opinioni derivano da ideologie basta dirlo. Ho voluto premettere queste parole per sottolineare che dal punto di vista della teoria economica non c’è nessun motivo per cui lo Stato non dovrebbe essere proprietario di imprese, anche manifatturiere: si può essere contro o a favore, ma le posizioni favorevoli o contrarie – del tutto legittime – sono necessariamente da ricondursi ad una ideologia di base. A mio avviso l’economista in quanto tale non deve prendere posizione: infatti, dal punto di vista dei rendimenti economici di un sistema capitalistico privato, un’impresa privata può essere gestita male e un’impresa pubblica può essere gestita molto bene (così come è possibile anche il contrario).

E aggiunge: “Mentre in paesi come la Francia e la Germania la percentuale di imprese direttamente o indirettamente nelle mani di istituzioni pubbliche – soprattutto in alcuni settori – è ancora molto elevata (oggi molto più che da noi), in Italia con l’esperienza delle privatizzazioni la «mano pubblica» (una bella espressione della nostra lingua) si è ritirata dall’economia per una buona parte del totale e in pratica di pubblico è rimasto veramente poco.”

De Cecco poi si sofferma sulla natura delle imprese di Stato e dice: “Le società pubbliche italiane, cioè la parte dell’industria italiana che si trovava nelle mani di enti pubblici o direttamente dello Stato, avevano una caratteristica: erano gestite senza capitale. Si diceva infatti che il capitale era nelle mani dello Stato; dunque esse erano essenzialmente gestite attraverso l’emissione di obbligazioni, sostituendo il debito al capitale. Per quale motivo? Perché l’impresa pubblica italiana è nata non da una ideologia, ma dall’emergenza e da fattori contingenti: dalla crisi degli anni trenta e dalla necessità di costruire velocemente le infrastrutture dello Stato italiano (ferrovie, strade e quant’altro) in un paese che si affacciava allo sviluppo in ritardo, seguendo quanto stava accadendo soprattutto nella Germania guglielmina, nella Germania imperiale, cioè nel paese che dal 1870 in poi aveva fatto registrare la più impressionante esperienza di sviluppo

A proposito della Germania guglielmina De Cecco aggiunge: “La Germania funzionava con sistemi di finanziamento molto avventurosi, che l’Italia copiò: sistemi che richiedevano una presenza dello Stato pressante e continua, proprio perché funzionavano senza capitali. Il sistema previdenziale tedesco, per esempio, adottò per primo nel mondo il modello a contribuzione al posto di quello a capitalizzazione: non avendo i soldi, davano la pensione ai vecchi sulla base dei contributi dei giovani (che all’epoca erano tanti, sia in Germania sia in Italia). Anche le banche tedesche (la fonte del «guaio», cioè del modo in cui l’industria italiana divenne pubblica) effettuavano i servizi di credito senza avere i soldi. Infatti è la banca tedesca (e non quella inglese) a creare i depositi: essa partecipa alle imprese, le finanzia; poi i soldi tornano indietro e diventano depositi. Questi sistemi di credito e di previdenza sono due modi per mangiare la propria torta e nello stesso tempo continuare ad averla. Hanno funzionato molto bene, ma sono estremamente rischiosi; sono sensibili a tutte le oscillazioni del ciclo mondiale ed hanno una forte fragilità finanziaria

Quanto l’Italia abbia copiato dalla Germania viene così descritto: “Gli italiani hanno copiato sia la previdenza sia la banca tedesca. La banca mista – in particolare – è servita a creare una quantità di imprese: essenzialmente il moderno sistema industriale italiano è stato creato dalle banche miste di origine tedesca importate da Crispi in Italia dopo la grande crisi bancaria dei primi anni novanta. Sono queste le banche che fecero il grande boom giolittiano. Anche la prima guerra mondiale in Italia fu portata avanti con una forte presenza della mano pubblica: direttamente come regia dell’intera economia di guerra, indirettamente tramite queste banche, che nelle imprese da loro dipendenti potevano contare sulle commesse pubbliche e che poi alla fine della guerra – e specialmente dopo la quota 90 della lira – si trovarono in grave difficoltà. La crisi internazionale e nazionale che è seguita indusse un’emergenza, risolta dal governo del tempo con la creazione dell’IRI. Così, con la nascita dell’IMI e poi dell’IRI, fu creata l’impresa pubblica in Italia.

E a proposito del sistema bancario bancario di allora “L’IRI fu creata sulle spoglie di due banche: la Banca commerciale italiana e il Credito italiano. La Comit era ancora in mani tedesche: quindi era un istituto di credito del nemico che aveva perso la guerra. Contro di essa si rivolsero le vendette della classe politica ed economica italiana, che a quei tempi era fortemente nazionalista; prova ne sia che le proprietà industriali del Credito italiano (che non era più tedesco, essendo stato nazionalizzato) furono restituite dallo Stato italiano ai proprietari. Il gruppo torinese che ancora esiste (Pirelli, Agnelli e così via) ha riavuto quello che stava in pegno al Credito italiano, mentre i tedeschi sono stati trattati peggio. Dalle spoglie di quella Banca commerciale nacque l’IRI. La Banca commerciale italiana, il Credito italiano e l’industria di proprietà di queste due banche tornarono all’Italia e passarono nella mano pubblica.

Quindi abbiamo un quadro che è molto diverso da quello che potremmo immaginare seguendo l’ideologia dominante. Ma non è finita. Circa i rapporti tra industria privata e industria pubblica De Cecco dice: “Si potrebbe dire che per un lungo periodo lo sviluppo dell’industria privata – grande e piccola – è dipeso dalla presenza dell’industria pubblica che forniva servizi a prezzi bassi. Infatti l’industria pubblica italiana di base – fatta di grandi impianti, con un forte immobilizzo di capitali e con l’utilizzazione di economie di scala – è riuscita a fornire prodotti a prezzi convenienti per gli utilizzatori.

E ancora: “L’industria privata italiana grande e piccola (per esempio tutti gli utilizzatori dei metalli) ha lavorato i prodotti dell’industria pubblica con grande beneficio. Lo stesso vale per il petrolio, con la creazione dell’ENI. Senza industria pubblica, quella che forse è l’ultima grande filiera che sopravvive della grande industria italiana, cioè il settore automobilistico, non esisterebbe: infatti le autostrade sono state costruite dall’IRI, mentre l’ENI ha provveduto agli impianti di distribuzione di benzina. Oggi non ci si pensa, ma quando le pompe di benzina furono realizzate richiesero un enorme investimento su tutto il territorio. Chi avrebbe potuto farlo, se non questa grande istituzione pubblica? Se fosse toccato al privato, si sarebbe potuto aspettare un bel po’. Come sapete, invece, l’Autostrada del sole è stata costruita in cinque anni e la famosa automobilizzazione precoce dell’Italia è avvenuta nello stesso periodo. Ora, tranne qualche episodio sporadico – come nel caso dell’Alfa Romeo -, le automobili in Italia sono sempre state costruite dai privati. Si tratta quindi di una simbiosi molto forte tra industria pubblica e privata”.

Nello spiegare come mai questo circuito si è interrotto, De Cecco prima accenna al fatto che in realtà sono stati pochi i casi nei quali l’industria pubblica è finita nelle mani dei nostri proprietari privati poi aggiunge: “È successo che il livello di concorrenza internazionale, la globalizzazione e l’integrazione dei mercati, la creazione del mercato unico europeo hanno fatto sì che la concorrenza sui beni commerciati a livello internazionale è diventata estremamente forte per i produttori italiani sul loro stesso mercato e quindi essi hanno teso a ritirarsi nei settori meno esposti alla concorrenza internazionale: mi riferisco ai servizi nei quali fino a quel momento era prevalsa la mano pubblica. In quell’ambito essi hanno ritenuto di poter occupare spazi e di poterlo fare vantaggiosamente.”. Dunque non una ricerca di maggior efficienza, ma una ritirata delle nostre imprese.

Poi De Cecco parla della crisi del modello e dice: “Guardando all’intera esperienza del settore manifatturiero possiamo dire che la siderurgia (e un certo tipo di meccanica) era il comparto criticamente in perdita per via dell’accumulazione di interessi passivi diventati giganteschi a causa dell’aumento dei tassi di interesse internazionali. Non è sbagliato dire che è stata la siderurgia pubblica a portare a fondo l’industria pubblica italiana, perché l’accumularsi delle perdite ed il finanziamento delle medesime senza capitali e a tassi di interesse elevati è risultato assolutamente impossibile a partire dagli anni ottanta e fino all’inizio degli anni novanta: a quel punto non è stato più possibile sostenere le perdite. Ci si è trovati quindi di fronte ad una situazione di emergenza. In altri casi si può essere anche verificata una scelta, ma il vero e proprio fattore scatenante è stata la crisi della siderurgia, determinata essenzialmente dal fatto che quell’industria – sensibile ai mutamenti del ciclo economico – nel periodo delle vacche grasse non aveva accumulato depositi in banca ed aveva realizzato vari tipi di diversificazione non particolarmente riusciti; arrivato poi il periodo delle vacche magre, l’industria si è trovata a sostenere senza capitali tassi di interesse molto elevati sui propri debiti. Ciò ha impedito che l’esperimento delle partecipazioni statali – cioè dell’economia mista italiana – potesse continuare nel settore manifatturiero di base.

Poi De Cecco quasi sbotta: “Dopo tutto l’industria di Stato è dei cittadini e sarebbe stato dovere degli eletti del Parlamento italiano difendere il valore di queste imprese, che apparteneva appunto al cittadino che paga le tasse: a me come a tutti gli altri. Personalmente, per esempio, non ho capito cosa io abbia guadagnato da queste privatizzazioni e, come me, cosa abbiano guadagnato molti altri tax payers; ma questa è un’espressione inglese che da noi non è stata mai usata troppo. In Italia le ragioni del cittadino che paga le tasse non vanno molto di moda: più che altro contano le ragioni dei produttori e quelle dei consumatori quando sono industriali, ma mai quelle del cittadino che paga le tasse; a mio modesto avviso devo dire che queste ultime non rientrano mai tra i motivi ispiratori della politica italiana. Sarà un bene o un male, ma è così. Per pagare gli interessi, negli ultimi dodici anni prima dell’inizio del processo di privatizzazioni si è accumulato un enorme debito pubblico, che non dipendeva unicamente dall’industria pubblica

Quanto alla corruzione e ai boiardi di Stato De Cecco contestualizza: “In proposito va sottolineato che la classe dirigente dell’industria pubblica nata negli anni trenta dal salvataggio dell’industria privata era migliore del management privato: ci teneva ad esserlo e ci teneva ad avere modi di vita e di gestione assolutamente contrapposti a quelli dei privati, per mostrare che si poteva fare meglio. Ed effettivamente così fu per lungo tempo, durante gli anni in cui due classi politiche – prima quella del regime fascista e poi quella dei primi dieci-quindici anni della nuova Italia – contennero le proprie brame e mantennero nei posti di responsabilità le persone che avevano salvato l’industria privata spostandola nelle mani pubbliche. Era stata così compiuta un’importante riforma istituzionale, che oggi si studia nei libri e che ebbe enorme risalto in tutto il mondo: quando ero studente a Cambridge, tutti venivano in Italia a studiare l’economia mista del nostro paese e in un paio d’anni sull’argomento furono pubblicati due o tre libri, perché a quei tempi era considerata la via del futuro. Ma ad un certo punto, come succede a tutte le classi dirigenti senza ricambio, ci si cominciò ad espandere anche in settori nei quali dovrebbe invece prevalere la capacità di gestione. E quando si cominciò ad invocare le tessere anche in quel campo, poco dopo si determinò la situazione che tutti conoscete meglio di me: i boiardi di Stato e la corruzione. Si tratta appunto di uno dei fattori che ha determinato la successiva scelta di procedere alla privatizzazione. Non che nel settore privato questi fenomeni non esistessero, ma nella mano pubblica facevano più impressione e questo elemento nuovo indusse un modo piuttosto peculiare di risolvere il problema: gettare via la creatura insieme al bagnetto. In altre parole, invece di mandare via quei boiardi di Stato – sostituendoli con persone paragonabili ai vecchi manager indipendenti dai partiti -, per eliminare quelle figure è stato necessario abbattere l’edificio. In realtà poi alcuni, usciti dalla finestra, sono rientrati dalla porta delle istituzioni create successivamente. Come metodo per eliminare una classe dirigente non è stato poi molto efficace; anzi, sicuramente è stato molto costoso.

De Cecco parla anche del rapporto tra processo di privatizzazione e composizione del debito pubblico e afferma: “Nel momento in cui l’industria italiana è stata privatizzata, si è verificato anche un mutamento strutturale nella gestione del debito pubblico. Quest’ultimo nella fase dell’emergenza – dal 1980 al 1992 – era stato assorbito dai privati, cioè venduto alle famiglie senza intermediazione: caso quasi unico al mondo, i cittadini italiani benestanti di una certa età acquistavano direttamente dallo Stato le cartelle del Tesoro e le tenevano in banca a custodia. Il fenomeno, che può sembrare molto comune, costituisce in realtà quasi un unicum, nel senso che altrove non è avvenuto o comunque è avvenuto molto raramente. Di solito si acquistano le cartelle dalle banche, che a loro volta le hanno comprate dallo Stato; qui invece si è venduto direttamente al pubblico, proprio perché durante la ripresa dell’economia italiana negli anni ottanta le banche avevano bisogno di finanziare le imprese (per ristrutturazioni o comunque per finalità produttive) e quindi affidarono ai privati i titoli pubblici dei quali esse erano ampiamente in possesso. Per vendere titoli pubblici ai privati occorreva però modificarne la natura, perché mentre le banche sono capaci di commerciare con questi prodotti i privati li volevano solo conservare in cassaforte, come forma di risparmio. Il debito pubblico italiano si è così trasformato in una forma di risparmio previdenziale ed è diventato la previdenza integrativa degli italiani della classe medio-alta (non è mai stato detenuto dai poveri, ma sempre dai benestanti, a partire da coloro che a quei tempi guadagnavano circa 50 milioni all’anno).

Poi aggiunge: “Infatti, come il governatore della banca d’Italia ha ricordato in più occasioni, oggi il debito pubblico italiano è per il 50 per cento nelle mani di soggetti stranieri (mentre quando i fatti che ho descritto sono accaduti quella percentuale era inferiore al 5 per cento): in sostanza oggi circa milione di miliardi di debito pubblico è in mano a operatori stranieri. Non si tratta di debito classato, come si dice in gergo: anche se è debito di lungo periodo (perché, come si dice, la vita del debito è stata allungata), queste somme non sono più nelle mani – come in passato – dei proprietari di bottega (questa volta francesi, magari, invece che italiani) che vogliono assicurarsi una pensione integrativa: vanno invece alle banche straniere, che le tengono quanto loro conviene (un giorno, un anno o dieci anni, a seconda della convenienza) e poi le vendono. È un aspetto importante, perché significa che, come si dice al mio paese, bisogna «farli ridere», cioè occorre rendere continuamente conveniente la detenzione di questi buoni italiani.”. Inutile dire che il ruolo delle banche in questo processo è stato esiziale.

Sull’argomento De Cecco conclude dicendo che: “Questo tipo di proprietà implica una relazione continua e costante con quell’ambiente di settanta banche di investimento che si sono occupate di collocare presso il pubblico le quote di privatizzazione italiane; più o meno sono le stesse che oggi gestiscono il debito pubblico. Bisogna continuamente dare a questi istituti motivi per guadagnare: non certo illecitamente, ma dalle commissioni e dalle parcelle (parcelle professionali per le consulenze delle banche di investimento, commissioni per il collocamento, l’acquisto e in generale la gestione). Si tratta dell’attività più redditizia per le banche internazionali: negli ultimi dieci anni le banche hanno guadagnato facendo questo e non raccogliendo il denaro presso i risparmiatori o prestandolo alle imprese: e poiché così si guadagna bene, tutti si sono lanciati in questo settore. Le banche che lo hanno sempre fatto sono quelle che lo fanno meglio. Non mi riferisco alle banche italiane e nemmeno (se non in misura ridotta) a quelle europee: essenzialmente si tratta delle merchant banks inglesi e delle investment banks americane (ormai le prime sono state vendute in forme varie e di proprietà inglese non ce ne sono più). In definitiva oggi c’è un’opinione finanziaria internazionale che determina i prezzi del debito pubblico (dell’Italia, ma anche della Germania) classato internazionalmente. Credo quindi che l’esperienza delle privatizzazioni debba essere integrata in questa necessità di grande trasformazione strutturale e istituzionale della proprietà del debito pubblico italiano, che si è compiuta proprio nello stesso periodo.

De Cecco continua parlando del dopo privatizzazione e afferma: “All’inizio degli anni novanta Romano Prodi, quando pensava ancora di poter trasformare le partecipazioni statali senza smantellarle, diceva che i gruppi pubblici italiani avrebbero potuto dire la loro nella ristrutturazione oligopolistica che si sarebbe sviluppata negli anni novanta e che poi si è puntualmente verificata. Questo fenomeno sta continuando tuttora e si chiama globalizzazione. Ebbene, nell’ambito della globalizzazione la grande industria italiana è presente soltanto in un paio di casi, con soggetti privati; per il resto non abbiamo carte da giocare, mentre i francesi e i tedeschi le hanno ancora in mano, poiché non hanno privatizzato quasi niente (gli stessi spagnoli hanno venduto le imprese agli stranieri, ma si sono tenuti le banche). Dal punto di vista della possibilità di intervenire sui mercati in quelle forme, quindi, l’Italia non dispone più degli strumenti che aveva un tempo”.

Sulle prospettive De Cecco dice “Va detto che oggi l’Italia è protagonista soltanto nella piccola dimensione; e non so fino a quando, senza l’ombrello protettivo che in precedenza era costituito da questi grandi gruppi pubblici, potranno durare nel tempo le esperienze dei piccoli produttori che oggi sono maggiormente esposti alle oscillazioni dei prezzi internazionali. Non stiamo parlando dei piccoli produttori di altri paesi, ma di quelli italiani, che non possono più fare affidamento sui prezzi dei prodotti di base e sul costo dei servizi pubblici ottenibili ai tempi delle partecipazioni statali. Non dimentichiamo che il prezzo basso – quindi non remunerativo – di un servizio pubblico comporta che qualcuno (non soltanto il consumatore, ma anche il produttore) paghi di meno rispetto a quello che dovrebbe; questa componente entra nei costi di produzione e ne abbassa il livello. Purtroppo a livello di sistema paese non possiamo più contare su un fronte di ricerca applicata (e anche, in qualche misura, di ricerca di base) capace di sostenere la concorrenza degli altri sistemi: la somma di tanti lillipuziani non equivale ad un soggetto grande, perché i lillipuziani non fanno né ricerca né invenzioni. Oggi i brevetti italiani sono pochi; inferiori, dal punto di vista quantitativo e qualitativo, a quelli degli altri principali paesi. Tutte queste attività sono molto più difficili oggi di quanto non lo fossero per grandi imprese che nel calderone dei loro bilanci potevano anche assorbire ricerche che duravano anni (magari non portavano a niente, però nel frattempo veniva mantenuta in piedi una struttura di ricerca che poi in un altro momento poteva inventare qualcosa di importante). Tutto questo lo abbiamo perduto.

Verso la fine dell’audizione però Laura Pennacchi pone alcune questioni al Prof. De Cecco una delle quali è la questione della rigidità del mercato del lavoro e dei salari. La risposta di Marcello De Cecco è ambigua ed è significativa dei problemi che sono proprio dell’attuale cultura di sinistra. Egli infatti dice: “Io ritengo che quei problemi affliggano la gran parte dei paesi: si tratta di questioni che fanno parte della creazione del consenso nei nostri sistemi, in quello tedesco così come in quello italiano (in quest’ultimo in particolare, anche se si assomigliano molto fra loro). Se si ammazza quel tipo di creazione del consenso, allora bisogna crearne un altro. Su questo tema si sta dibattendo sia in Germania sia in Italia.”.

Sembra quasi (da quest’ultima citazione) che le lotte per il salario e per il mercato del lavoro facciano parte solo di una questione che riguardi la gestione del consenso, mentre l’esperto dovrebbe ammettere che effettivamente queste lotte e questi processi siano stati alla fine non del tutto positivi per i paesi europei. E’ una riserva mentale che tocca molti economisti cosiddetti di sinistra (il tanto citato Krugman nel 1996 diceva che “la preoccupazione per i deficit di bilancio delle nazioni occidentali non può più essere considerata un problema ideologico, ma anzi è oggi un problema di pura ragioneria e per vederla in altro modo bisogna proprio nascondere la testa sotto la sabbia” per poi assumere posizioni molto diverse dopo la crisi che lui non pare abbia previsto) i quali forse, guardando le cose dal punto di vista di chi fa politica economica, finiscono per assumere una prospettiva interclassista di mediazione di istanze di classi diverse. Tuttavia, come si è visto, è interessante il lavoro di De Cecco di demistificazione dell’atteggiamento di chi legge il problema delle privatizzazioni solo nell’ottica del mainstream.

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