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Tre mesi dopo che i manifestanti gilets jaunes bloccarono per la prima volta le strade di tutta la Francia, il movimento persiste e ha creato una crisi nella presidenza di Emmanuel Macron – una crisi che mette al centro del dibattito francese la giustizia sociale e la partecipazione dei cittadini.

Più di tre mesi dopo l’inizio della mobilitazione dei cosiddetti “gilets jaunes”, tutti concordano ormai sul fatto che la Francia stia vivendo una pagina decisiva della sua storia. Nonostante gli instancabili tentativi delle autorità di reprimere, screditare e minimizzare il movimento – il cui esaurimento e la cui fine imminente ci vengono costantemente annunciati dal mese di novembre – i “gilets” sono ancora lì. In decine di migliaia scendono in strada ogni sabato in numerose città francesi da 16 settimane; continuano ad occupare rotonde e parcheggi, a bloccare centri commerciali, caselli autostradali, raffinerie di petrolio e piattaforme logistiche; organizzano assemblee, inondando i social e i media tradizionali; non sembrano proprio intenzionati a fermarsi.

Anche gli increduli e gli scettici dei primi tempi, che guardavano infastiditi questi “beaufs” della “Francia profonda” ribellarsi contro l’aumento dei prezzi del carburante o denunciavano una rivolta “piccolo-borghese” guidata dall’estrema destra, sono oggi costretti a riconoscere che il movimento dei gilets gialli si è dimostrato molto più complesso e sorprendente di quanto potesse sembrare. E che probabilmente lascerà un segno indelebile nella storia del paese.

Se in questa fase è difficile prevedere l’esito di questo straordinario episodio di storia popolare che si sta scrivendo sotto i nostri occhi, è ora tuttavia possibile fare una prima valutazione e un bilancio delle potenzialità e dei rischi che rimangono aperti. Anche se il “centro” neoliberista e l’estrema destra potrebbero ancora approfittare di questa insurrezione popolare, i gilets gialli hanno il merito di aver attirato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sulla violenza della polizia, evidenziando i fallimenti e i pericoli dell’utopia neoliberale e aprendo la strada a una possibilità storica di cambiamento – che non si basi sul nazionalismo e su un’agenda razzista sull’immigrazione, ma su una concezione diversa della democrazia e della solidarietà.

La violenza della polizia svelata

Il meno che si possa dire è che i gilets jaunes non siano stati favoriti da Emmanuel Macron e dal suo governo. Certo, già a dicembre, data l’ampiezza del movimento, il governo è stato costretto a rinunciare, almeno temporaneamente, all’aumento della carbon tax e ad annunciare una manciata di misure mirate a spegnere l’incendio. Rispetto a ciò che i pur numerosi movimenti sociali hanno ottenuto in Francia negli ultimi dieci anni – cioè niente – si sarebbe potuto credere ad una vittoria.

Tuttavia, non ci è voluto molto perché i gilets gialli capissero che questi provvedimenti – aumento di 100 euro del salario minimo (a spese dei contribuenti e non dei datori di lavoro), esenzione fiscale per gli straordinari, richiesta ai datori di lavoro di pagare un bonus di fine anno ai loro dipendenti (facoltativo e tax-free), cancellazione del contributo sociale CSG per i pensionati che ricevono meno di 2.000 euro al mese – non erano altro che specchietti per le allodole. Queste “briciole”, infatti, sono ben lungi dal soddisfare le esigenze del movimento: giustizia fiscale e sociale, ridistribuzione della ricchezza e partecipazione diretta alla democrazia. Molto presto, è stato chiaro a tutti che Macron in realtà non avrebbe cambiato rotta, anzi.

Allo stesso tempo, il movimento dei gilets jaunes si è dovuto confrontare con una violenza che non si era vista in Francia quantomeno dal 1968. Da novembre, intorno agli 80.000 agenti di polizia, gendarmi e membri di unità speciali sono stati mobilitati in tutta la Francia per “controllare“ le manifestazioni. Ogni sabato, decine di migliaia di bombolette di gas lacrimogeni, granate esplosive e “flashball” vengono sparati contro i dimostranti. Non enfatizzeremo mai abbastanza l’uso estensivo e abusivo di queste presunte armi “non letali” da parte delle forze dell’ordine.

Le cifre ufficiali del Ministero dell’Interno parlano da sole: attualmente ci sono almeno 10 morti (di cui una causata direttamente dalla polizia), 2.100 feriti, 8.701 arresti, 1.796 condanne e 243 denunce presentate all’IGPN (la polizia delle polizie). Il giornalista David Dufresne, che si è fatto conoscere fin dall’inizio del movimento per aver documentato e denunciato giorno dopo giorno gli abusi della violenza della polizia, ha finora contato 21 persone che hanno perso un occhio, 5 persone che hanno perso una mano, 202 ferite alla testa, 479 segnalazioni di uso eccessivo della forza. La violenza della polizia colpisce anche i più vulnerabili: gli “street medics” venuti per aiutare i manifestanti, i giornalisti e fotografi, e gli adolescenti. La situazione è talmente grave da indurre Amnesty International a denunciare l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti e gli studenti delle scuole superiori.

Nonostante questi fatti molto gravi, il governo sembra chiudersi in una colpevole e testarda cecità. Infatti, lungi dal mettere in discussione le politiche economiche e sociali che hanno generato la rabbia popolare, il governo si sta impegnando nel minare la credibilità del movimento, de-umanizzando i suoi partecipanti e ristabilendo l’ordine con la forza.Non si contano più gli usi dei termini “bruti”, “sediziosi” e “vandali” nelle bocche del presidente, del ministro degli interni Christophe Castaner e dei membri della maggioranza per descrivere i manifestanti, presentati dal governo come una folla astiosa fascistoide e xenofoba.

La testardaggine di Castaner nel negare la violenza della polizia e continuare a sostenere davanti alle telecamere che non conosce nessun agente di polizia o gendarme che abbia attaccato gilets gialli, è sconcertante. Il mese scorso, intimava i francesi di non scendere in piazza, avvertendo con un tono minaccioso: “Coloro che manifestano laddove ci saranno disordini sanno che saranno considerati complici”.

Ma è forse proprio questo il più grande successo dei gilets gialli: nelle ultime settimane, il tema della violenza dello Stato è diventata è emmerso per la prima volta nel dibattito pubblico francese. Dopo due mesi di deplorevole silenzio sulla violenza della polizia contro i manifestanti, i media, che finora si erano concentrati sulla violenza solo quando era stata perpetrata dai “casseurs”, sono stati costretti a svegliarsi. Sembra lontano il tempo dell’affare Benalla, quando l’opinione pubblica e i media non si indignavano del fatto che il collaboratore di Macron avesse picchiato i manifestanti, che si fosse accanito su un uomo a terra visibilmente controllato dalla polizia, ma solo del fatto che lo avesse fatto senza essere un membro delle forze di polizia.

Oggi, per la prima volta, sentiamo alla radio e in televisive degli intellettuali che si rifiutano di condannare la violenza dei manifestanti e che cercano cercano di spiegarla con la violenza economica e sociale imposta dai politici alle popolazioni e dalla strategia di violenza adottata dalla polizia. Per la prima volta, il governo non è più in grado di usare la violenza per minare la credibilità del movimento; al contrario, è la violenza della polizia che fa parlare le persone e contribuisce ad amplificare il movimento.

Per la prima volta, i media si sono resi conto dell’eccezione francese in termini di armamento delle forze dell’ordine. Il dibattito pubblico è pienamente impegnato nella questione se non sia opportuno vietare alcune attrezzature, in particolare le famose armi “non letali” vietate nella maggior parte dei paesi del mondo – in particolare il lanciatore di proiettili da difesa LBD 40, le granate istantanee a gas lacrimogeni GLI F4 (quelle che hanno ucciso l’attivista ambientale Rémi Fraisse nel 2014), e le granate di dispersione GMD. Tutti ne parlano, e David Dufresne sta facendo ormai il tour dei programmi televisivi. Persino il Parlamento europeo e l’ONU hanno condannato l’uso sproporzionato della forza e l’uso di alcuni tipi di armi da parte della polizia.

La mobilitazione di gilets gialli contro la violenza della polizia e a sostegno delle vittime del movimento ha svolto un ruolo importante in questa consapevolezza collettiva. Centinaia di testimonianze, foto e video dei gilets gialli feriti sono girate sui social – in un momento in cui i media mainstream mostravano solo la violenza dei “casseur”. A dicembre, un video che mostrava più di cento studenti delle superiori inginocchiati con le mani sulla testa e circondati da agenti di polizia in assetto antisommossa a Mantes-la-Jolie, un sobborgo di Parigi, è diventato virale sui social dei gilets gialli.

Questa posa è diventata uno dei simboli della protesta del movimento giallo. Le donne gilets gialli inoltre hanno più volte marciato contro la violenza della polizia. Diverse mobilitazioni, come l’Atto XII, durante il quale i mutilati del movimento aprirono la processione parigina, hanno avuto un grande successo nei media. La rottura di questo silenzio ha squarciato il velo su una violenza che si abbatte da decenni in Francia, in primo luogo sulle popolazioni dei quartieri popolari – le banlieues – e sui movimenti di protesta. Questo potrebbe aiutare a far convergere le lotte tra giubbotti gialli, quartieri popolari e circoli militanti.

Deriva autoritaria e crisi del neoliberismo

Questa onda repressiva fa parte di una più ampia svolta autoritaria del governo di Macron, sulla scia dei precedenti governi. Una stretta autoritaria che colpisce principalmente chiunque combatta contro il potere. Chiunque abbia partecipato agli “Atti” dei gilets gialli lo sa: in Francia non è più possibile manifestare senza mettere in pericolo la propria integrità fisica. Le maschere, gli occhiali protettivi e la soluzione salina, diventati indispensabili ai manifestanti per affrontare le nuvole di gas lacrimogeni che li sommergono, sono sistematicamente confiscati dalla polizia. La libertà di manifestazione, che è un diritto costituzionale, è sempre più minacciata. È stata ancora una volta Amnesty International a lanciare di recente l’allarme: l’applicazione dello stato di emergenza dopo gli attentati del novembre 2015 e l’uso sproporzionato della forza hanno limitato in modo preoccupante questo diritto fondamentale.

Oltre alla repressione della polizia, vi è anche la repressione giudiziaria, che è sempre più preoccupante, anche per gli avvocati. Il numero di gilets gialli intercettati ai margini delle manifestazioni e sottoposti a fermi di polizia “preventivi” e il numero di manifestanti condannati al carcere, a volte sulla base dei messaggi di Facebook, è sufficiente a farvi girare la testa.

La stampa ha recentemente rivelato che i magistrati della Procura di Parigi hanno ricevuto nuove istruzioni da rivolgere alla polizia in caso di arresto di gilets gialli, il che ha portato ad una schedatura sistematica e ad una detenzione abusiva da parte della polizia.

Le ripetute intimidazioni giudiziarie di alcune figure emblematiche e mediatiche del movimento – Eric Drouet, ad esempio, che è stato arrestato più volte negli ultimi mesi – non fanno che aggravare la situazione e alimentare l’indignazione popolare. Julien Coupat, un famoso attivista della sinistra situazionista francese, è stato tenuto in custodia della polizia per quasi 48 ore perché sono stati trovati nella sua machina un giubbotto giallo (il che è obbligatorio per legge), lattine di vernice e una maschera da cantiere. Nel frattempo, è altamente improbabile che le 133 indagini avviate dall’IGPN diano luogo a condanne…

La nuova “legge anti-casseurs” voluta da Castaner, sostenuta da LREM (La République en Marche, il partito di Macron) e dalla destra conservatrice e adottata a larga maggioranza in prima lettura il 5 febbraio in Assemblea, aggraverà presto questa situazione. Questa legge liberticida, che mira secondo i suoi sostenitori a prevenire la violenza durante le manifestazioni e a punirne gli autori, avrà i seguenti effetti: aumenterà i poteri del prefetto a danno di quelli del giudice, estenderà i divieti preventivi di manifestare, creerà un reato di occultamento del volto e creerà un reato di presunzione di partecipazione ad una manifestazione per danneggiare i beni o la violenza contro le persone.

Questo provvedimento legislativo – insieme all’integrazione delle misure di emergenza nel diritto comune, alla legge “fake news” che limita la libertà di stampa, alla legge sull’asilo e sull’immigrazione che inasprisce le norme sull’accoglienza dei più vulnerabili e alla legge sul segreto professionale che limita il lavoro dei giornalisti nei mesi scorsi – è la dimostrazione plastica della deriva in materia di sicurezza che caratterizza il mandato quinquennale di Macron.

Ci sono ancora molti altri esempi che portano a questa costatazione della deriva autoritaria del potere. Nel mese di dicembre, ad esempio, agli operatori sanitari è stato ordinato di prendere i nomi dei gilets gialli che venivano curati durante le manifestazioni, ufficialmente per tenere traccia del numero di feriti – una misura normalmente messa in atto solo in caso di attacco terroristico. A gennaio, la Segretaria di Stato Marlène Schiappa si è dichiarata a favore dell’identificazione di coloro che avevano contribuito al fondo di sostegno Leetchi al pugile Christophe Dettinger – che aveva raccolto 120.000 euro in 24 ore dopo che è diventato virale un video che lo mostrava respingere i poliziotti a colpi di pugni.

Allo stesso tempo, vengono colpite anche le organizzazioni politiche che esprimono una voce fuori dal coro neoliberista. Hanno il sapore di un attacco politico mirato, infatti, le perquisizioni ai danni della FI lo scorso ottobre. A ciò si aggiunge il tentativo di perquisizione della sede del quotidiano dell’opposizione Mediapart qualche settimana fa, dopo nuove rivelazioni sul caso Benalla – dal nome dell’ex consigliere di Macron, che avrebbe combinato dall’Eliseo un contratto di sicurezza con un consorte di Putin sospettato di legami mafiosi e che nel dicembre scorso avrebbe fatto affari con un secondo oligarca russo per un totale di 2,2 milioni di euro. La redazione di Mediapart, che si è rifiutata di subire questa perquisizione per proteggere la segretezza delle fonti, principio fondamentale in una democrazia, ha ricevuto il sostegno di molti media.

Come spiegare questa deriva autoritaria del governo e la sua ostinazione a “mantenere la rotta”, a costo di una repressione di una violenza mai vista nella storia della Quinta Repubblica? Perché questo rifiuto categorico di tener conto delle esigenze democratiche, fiscali e sociali dei gilets gialli? Anche “il Generale” Charles de Gaulle, pur essendo l’architetto di questa repubblica semi-monarchica, aveva deciso di dimettersi dopo le rivolte del maggio 1968 e dopo essere stato sconfessato dal popolo francese in un referendum l’anno seguente. Se Macron rimane e persiste, è perché incarna meglio di qualsiasi Presidente della Repubblica prima di lui l’ideologia neoliberale.

La filosofa Barbara Stiegler ci ha recentemente ricordato che ciò che è “nuovo” nel “neoliberalismoemerso all’inizio del secolo scorso e poi diffuso in tutto il mondo è che non intende più semplicemente lasciar fare, come il liberalismo classico, ma intende imporre alla società la direzione che deve seguire. Questa direzione è quella del grande mercato globale governato da regole apparentemente eque e non distorte, in cui d’ora in poi dovranno prevalere, non più rapporti brutali di predazione in cui i più grandi continuerebbero a divorare i più piccoli, ma le regole d’arbitrato di una concorrenza leale in cui tutti devono avere pari opportunità di far valere le proprie capacità e rivelare i propri talenti.

Questo, ci dice Stiegler, sarebbe la fine della storia e lo scopo ultimo dell’evoluzione della vita e degli esseri viventi – una “rotta” che non può essere criticata o discussa. Questa rotta costituisce il cuore dell’utopia neoliberale, e implica il ritorno di uno Stato invasivo che impone un’agenda vincolante per la società nel suo complesso. Lo stato neoliberale deve imporre al genere umano, volontariamente o forzatamente, un adattamento a questo nuovo ambiente “moderno” (che si è creato da solo ma al quale non è adatto).

Niente più o meno di una “rivoluzione” neoliberale, quindi; quella che era oggetto del libro programmatico pubblicato da Macron durante la sua campagna elettorale – modestamente intitolato Révolution. In questo libro, Macron spiegava che la Francia soffre per il suo ritardo nell’adattarsi alla “modernità” dell’ordine economico globalizzato, in particolare a causa di un sistema politico e di istituzioni obsolete e rigide. Per rimediare a questo ritardo, la sua missione è quindi quella di rendere la Francia “attraente” per gli investitori per renderla più competitiva, in particolare riducendo le tasse e il costo del lavoro.

Tuttavia, nell’ideologia neoliberale, la “rotta” trascende le divisioni sinistra-destra e non può essere sfidata dalla resistenza sociale e popolare, poiché si tratta di educare la specie umana per il proprio bene, di salvarla dal proprio disadattamento. Il neoliberismo è quindi un dogma intrinsecamente autoritario; anche se preferisce fabbricare il consenso delle masse attraverso la “pedagogia”, non si sottrae all’uso della forza quando questa si fa necessaria. Friedrich Hayek, uno dei “padri” del pensiero neoliberale, che sostenne il colpo di Stato del 1973 e il regime dittatoriale di Pinochet in Cile, non fece mistero del fatto che il suo liberalismo poteva benissimo accontentarsi di un regime autoritario.

Oggi, tuttavia, in Francia come altrove, le contraddizioni interne del neoliberismo – in particolare la crescente concentrazione della ricchezza e la distruzione dell’ambiente – causano sofferenza e rabbia popolare che si esprimano nel rifiuto delle sue politiche. Questo spinge sempre più il potere neoliberale a rivelare la sua natura autoritaria.

Di fronte all’insurrezione popolare che la Francia vive dal 17 novembre, incapace di riconoscere i difetti della sua dottrina, il neoliberismo non può più governare se non con la violenza. Il movimento dei gilets gialli, il cui futuro non è prevedibile, avrà quindi messo il dito anche su questa verità essenziale: il nuovo liberalismo trasforma necessariamente la democrazia rappresentativa in un regime autoritario. Allo stesso tempo, mentre usa la forza per ristabilire l’ordine, il governo sta cercando di imporre la sua rotta e la sua pedagogia attraverso l’organizzazione di un “grande dibattito”.

Grande dibattito o golpe mediatico?

Nel suo discorso del 10 dicembre, Macron annunciava l’organizzazione di un “grande dibattito nazionale” che avrebbe permesso a tutti i cittadini di dibattere questioni essenziali per la nazione. Il 13 gennaio, l’Eliseo pubblicava la sua “lettera ai francesi” in cui il Presidente inquadrava il dibattito intorno a quattro “grandi temi”: fiscalità e spesa pubblica, organizzazione dello Stato e dei servizi pubblici, transizione ecologica, democrazia e cittadinanza. Il famoso grande dibattito si è aperto il 16 gennaio e proseguirà fino a metà marzo, in tutte le regioni di Francia. I francesi sono invitati ad esprimersi attraverso una piattaforma internet o durante assemblee organizzate dai comuni.

Un’iniziativa a dir poco inedita. Nella lettera del Presidente si afferma che “non ci saranno domande proibite”, ma che le recenti misure fiscali non saranno invertite. Non si parla dunque di ripristinare la patrimoniale – una domanda al centro del movimento dei gilets gialli – o di istituire un sistema fiscale più progressivo, mettendo in discussione la flat tax o le esenzioni fiscali e sussidi alle grandi imprese del CICE, ma solo di ridurre alcune tasse e “fare risparmi” – mentre i gilets gialli vogliono maggiori investimenti nei servizi pubblici e sociali. Fin dall’inizio si è capito che i termini del dibattito sarebbero stati fissati da Macron e dai membri del suo governo, che avrebbero guidato le discussioni e raccolto le idee dei partecipanti prima annunciare a metà marzo le conclusioni che ne trarranno.

Non ci è voluto molto tempo prima che i gilets gialli si rendessero conto che ancora una volta venivano presi in giro e annunciassero massicciamente che non avrebbero partecipato a quella che chiamano la “grande mascherata”. Tuttavia, da quando è stato avviato questo grande dibattito, l’intenzione del governo è diventata sempre più chiara: Macron ha deciso di trasformare il grande dibattito in una campagna di comunicazione per riaffermare per bene “la rotta”.

Tre mesi prima delle europee, sta monopolizzando l’attenzione dei media e facendo finanziare con fondi pubblici una campagna elettorale inedita quanto squilibrata. Mediapart ha inoltre rivelato come il governo ha fatto tutto il possibile per garantire che il grande dibattito non sia inquadrato dalle regole di imparzialità che in linea di principio dovrebbero prevalere per qualsiasi dibattito pubblico di questo tipo, sia a livello locale che nazionale. Infatti, un dibattito di questo tipo dovrebbe normalmente essere organizzato da un’istituzione indipendente, la Commission nationale du débat public (CNDP), il cui ruolo è quello di supervisionare il dibattito secondo un codice etico e regole democratiche volte a garantire l’indipendenza, la neutralità, la trasparenza, la parità di trattamento e delle argomentazioni.

Questi principi sono sistematicamente ignorati nel grande dibattito in corso. Da più di un mese ormai assistiamo a una tournée del Presidente in tutta la Francia. È al centro di tutto. È lui che parla, è lui che dà la parola e che risponde. Invece di un grande dibattito, assistiamo a una serie di incontri di campagna elettorale. Quando non è lui, sono i suoi ministri. E i media mainstream si sono ovviamente messi al servizio dell’Eliseo trasmettendo ogni giorno ore di one man show, plaudendo al successo dell’iniziativa.

Questo non sorprende, considerando che l’elezione di Emmanuel Macron è stata monitorata dall’oligarchia francese che detiene la maggior parte del potere mediatico. Per il momento, ciò non sembra sconvolgere né il Conseil supérieur dell’audiovisuel, che dovrebbe garantire il rispetto del tempo di parola dei candidati, né la Commission des comptes de campagne mentre Macron utilizza diversi milioni di euro di fondi pubblici per la sua campagna-grande-dibattito.

La propaganda statale monopolizza quindi i media pubblici e privati. E, naturalmente, funziona. Pur rimanendo boicottato dai gilets gialli che continuano ad essere sostenuti da una maggioranza di francesi (più del 64% secondo i recenti sondaggi), il presidente, che era sceso al livello più basso dall’inizio del movimento, è recentemente salito di 6 punti per raggiungere il 34% della popolarità. Anche se Marine Le Pen, il candidato del Rassemblement National di estrema destra (RN, ex Front National) è ancora in cima alle intenzioni di voto per le europee, Macron è in crescita grazie a questo sotterfugio.

L’Assemblea delle Assemblee, o il ritorno del collettivo

Tutto questo non significa che il movimento dei gilets gialli sia finito. Al contrario, i gilets potrebbero non essere mai stati in condizioni migliori di quanto lo siano oggi. Il movimento è andato allargandosi costantemente a nuovi elementi fin dalla sua nascita – a partire dai movimenti liceali, studenteschi e dei movimenti sociali delle banlieues e delle grandi città – ma anche consolidandosi nel corso delle settimane.

ebbene i legami tra gilets gialli e sindacati fossero inizialmente difficili, gli iscritti al sindacato si sono rapidamente uniti alle rotonde e molti sindacati hanno dimostrato la loro solidarietà spesso sotto l’impulso di strutture di base, professionali o territoriali. Il 2 febbraio, un primo “sciopero generale” e una manifestazione coinvolgendo gilets gialli e sindacati (CGT, Solidaires e alcune filiali di FO) è stato un grande successo, con non meno di 300.000 partecipanti. Il prossimo sciopero generale nazionale per i gilets gialli e i gilets rossi è indetto per il 19 marzo, e nel frattempo ogni martedì, i “martedi dell’emergenza sociale” vedono picchetti e blocchi di raffinerie, porti, piattaforme logistiche, ecc.

Lontano dalla grande “mascherata” di Macron, i gilets gialli organizzano il loro grande dibattito. Da diverse settimane ormai il movimento si organizza e si struttura, in particolare all’interno di nuove assemblee. Tutto è iniziato a dicembre, quando un gruppo di gilets jaunes di Commercy, una piccola città della regione della Mosa a Est di Parigi, ha lanciato due appelli ai gilets gialli di Francia per creare ovunque assemblee fisiche, a misura umana, “citadine e popolari”, per lanciarsi nella stesura di “quaderni di rivendicazioni”.

Proponevano poi l’organizzazione di un grande incontro nazionale che riunisca i delegati di tutto il paese per mettere insieme i quaderni: “Insieme, creiamo l’assemblea delle assemblee, il Comune dei Comuni. Questo è il senso della storia, questa è la nostra proposta. VIVA IL POTERE AL POPOLO, DAL POPOLO, E PER IL POPOLO!”. L’appello è stato accolto con entusiasmo da molti gilets gialli in tutto il territorio e centinaia di assemblee sono state organizzate per mettersi al lavoro.

La prima “assemblea delle assemblee” si è quindi tenuta vicino a Commercy i 26 e 27 gennaio. Più di 70 delegazioni provenienti da tutta la Francia – generalmente una donna e un uomo – parteciparono alle discussioni, presentando le loro lotte e richieste locali. Durante questi due giorni, gilets gialli provenienti da Parigi, Bordeaux, Tolosa, Digione, Rennes e altre grandi città, ma anche dalla “Francia profonda” – la Francia periferica invisibile da cui il movimento era partito – hanno discusso in plenaria e in gruppi di lavoro. Un vero e proprio laboratorio di educazione politica e democrazia che si affianca alle rotonde, ai parcheggi, alle piazze, alle reti sociali dove da tre mesi si scambiano idee e si costruisce una nuova coscienza della forza collettiva.

Il risultato nega ancora una volta le accuse di “movimento fascistoide” che da mesi piovono sui media – e che il governo ha opportunamente ripreso per conto proprio, in particolare nelle recenti accuse di antisemitismo. “Né razzisti, né sessisti, né omofobi”, spiegano i gilets gialli nel comunicato finale della prima assemblea delle assemblee, “siamo fieri di stare insieme con le nostre differenze per costruire una società solidale. Siamo forti della diversità delle nostre discussioni, in questo momento centinaia di assemblee stanno sviluppando e proponendo le proprie rivendicazioni. Riguardano la democrazia reale, la giustizia sociale e fiscale, le condizioni di lavoro, la giustizia ecologica e climatica, la fine della discriminazione”.

Tra le richieste strategiche e le proposte avanzate dai gilets gialli ci sono lo sradicamento della povertà in tutte le sue forme, la trasformazione delle istituzioni (referendum d’iniziativa popolare, costituente, ne dei privilegi dei rappresentanti eletti), la transizione ecologica (precarietà energetica, inquinamento industriale), l’uguaglianza e la presa in considerazione di tutte le persone indipendentemente dalla loro nazionalità (persone con disabilità, uguaglianza di genere, ne dell’abbandono dei quartieri popolari, del mondo rurale e dei territori d’oltremare).

Questi sono i temi più presenti ad oggi nel movimento. Naturalmente, il movimento non è del tutto omogeneo. La presenza di personalità e gruppi di estrema destra sugli Champs Elysées e altrove non deve essere negata o minimizzata, così come gli atti razzisti e omofobici che hanno macchiato le mobilitazioni. Tra l’altro questi sono stati ampiamente coperti dai media. Alcune figure più o meno autoproclamate “leader” dei gilets gialli, favorite dei media, come Benjamin Cauchy e Christophe Lechevallier, hanno legami con il RN o altri gruppi di estrema destra. Tuttavia, la loro legittimità è ampiamente messa in discussione all’interno del movimento, e i militanti di estrema destra sono regolarmente cacciati dalle manifestazioni.

Numerosi sono anche i tentativi opportunistici: nelle ultime settimane i partiti di gilets gialli hanno letteralmente brulicato. Jacline Mouraud, per esempio, una figura mediatica nei gilets gialli all’origine del movimento, ha lanciato il suo movimento “Les Émergents”, ma si è allontanata dal movimento che considerava affogato dagli estremi. Patrick Cribouw, un gilet giallo di Nizza, ha presentato la bozza di una lista “apolitica e asindacale” che intende presentare alle elezioni europee, chiamata “Unione Gialla”, per portare idee in particolare in termini di immigrazione e sovranità….

Una manciata di gilets gialli guidati da un’altra figura mediatica del movimento, Ingrid Levavasseur, ha deciso di creare una “lista gilets jaunes” per le elezioni europee. A guardarci bene, si scopre che alcuni dei candidati di questa lista hanno legami con LREM, il partito del Presidente della Repubblica, mentre altri, come Christophe Chalençon – che si era fatto conoscere a dicembre chiamando ad una presa di potere da parte dell’esercito – sono piuttosto controversi all’interno del movimento. Sono loro che hanno creato la polemica qualche settimana fa decidendo di incontrare Luigi di Maio, il leader del Movimento 5Stelle italiano e vice-premier in un governo in coalizione con l’estrema destra della Lega. 

Non c’è da stupirsi che Levavasseur abbia finalmente annunciato che stava abbandonando questa lista e che voleva ricominciare da capo “su delle basi sane”. Sembra infatti che la stragrande maggioranza dei gilets gialli si opponga alla strutturazione in vista delle elezioni europee, che rischierebbe anche di giocare a favore di Macron.

Di fronte a questi laboriosi tentativi, l’ala “insurrezionale” del movimento, i cui portavoce più famosi sono Eric Drouet e “Fly Ryder”, continua ad opporsi alle iniziative elettorali. Sono i più popolari all’interno del movimento, soprattutto perché favoriscono la mobilitazione di massa e gli “Atti” settimanali di giubbotti gialli a Parigi e nelle grandi città.

Un altro gilet giallo che in questi giorni sta facendo il giro delle radio e dei talk televisivi è François Boulo, un giovane avvocato dell’Ovest della Francia. Figlio di un piccolo imprenditore di una famiglia social gollista, Boulo ha certamente un profilo “piccolo borghese”, ma è stato gradualmente accettato e ora porta la parola dei gilets gialli di diverse rotonde di Rouen. Pone l’accento sull’alleanza con i sindacati e afferma che la paralisi dell’economia attraverso lo sciopero generale è l’unico modo per il movimento di vincere.

Insiste inoltre sulla necessità di contestare i trattati europei, in particolare per quanto riguarda l’equilibrio di bilancio e il funzionamento della Banca centrale europea – ritiene che gli Stati dovrebbero essere in grado di finanziarsi direttamente dalla banca centrale senza pagare i tassi d’interesse invece di dover contrarre prestiti da banche private (il rimborso del debito è la seconda spesa principale dello Stato francese, con 40 miliardi di euro all’anno). Attacca le misure fiscali messe in atto da Macron e dai suoi predecessori a vantaggio dell’1% più ricco e a scapito dei servizi pubblici e delle piccole e medie imprese (PME), e sostiene il ripristino della tassa patrimoniale e la limitazione dei crediti d’imposta CICE alle sole PME.

In questo paesaggio eterogeneo, è quindi difficile prevedere cosa accadrà al movimento dei gilets gialli. Quello che è certo è che questo movimento d’insurrezione popolare ha avuto il merito di accelerare la progressiva squalifica della famosa “rotta” neoliberale e di riportare nel dibattito pubblico questioni di giustizia fiscale e sociale e di partecipazione dei cittadini alla democrazia. Ha generato una politicizzazione di massa, iniziato ad articolare controproposte al dibattito già pronto del Presidente, e a proporre un’altra concezione della democrazia come sperimentazione e coeducazione, ripartendo dai problemi e dalle sofferenze del popolo. Questo slancio democratico, che consiste nel ridefinire dal basso e collettivamente gli obiettivi da perseguire, si oppone radicalmente alla concezione autoritaria neoliberale che nega le competenze politiche del popolo e sostiene la delega della sovranità popolare a leader ed “esperti”.

Di fronte al fallimento politico del progetto europeo e di tutte le correnti politiche dominanti nel mondo, che hanno in gran parte ripreso per proprio conto l’utopia neoliberale, il movimento dei giubbotti gialli sembra essere uno degli unici movimenti popolari che negli ultimi anni che non si sia strutturato sulla questione razzista dell’immigrazione e del nazionalismo. Per questo motivo, rimane un’occasione da non perdere, un’occasione storica.

 * Aurélie Dianara è ricercatrice in storia economica internazionale presso l’Università di Glasgow e una militante femminista, membro del coordinamento nazionale di Potere al Popolo.

 

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