Il provincialismo è una malattia culturale grave. Quasi mortale. Lo dimostra ogni giorno il livello della discussione pubblica – imposta dai media mainstream – normalmente al di sotto degli standard minimi vigenti altrove. E, come andiamo ripetendo da anni, questa brutta malattia è diffusa soprattutto “a sinistra”, dove è totale la sudditanza alle cazzate sparate da Repubblica e Tg3 (che pure non dovrebbe più poter essere scambiato con la TeleKabul del compianto Sandro Curzi).
Ma neppure noi osavamo credere a una sindrome autenticamente bipolare (in senso quasi clinico), per cui se un’analisi critica impietosa dell’Unione Europea viene fatta da compagni italiani viene immediatamente bollata come “sovranista” (o peggio), mentre se arriva in traduzione da una prestigiosa rivista francese ottiene una pubblicazione in prima pagina.
E’ quello che è accaduto con la versione italiana di Le Monde Diplomatique, tradotta e pubblicata in allegato da il manifesto. Ovvero da un quotidiano che ha pesantemente contribuito a diffobdere, qui da noi, una visione ideologica, “romantica” assolutamente e fasulla della Ue.
Vi proponiamo perciò l’editoriale di apertura di Frédéric Lordon, che potremmo sottoscrivere pressoché per intero, con distinguo veramente marginali. Straordinaria, secondo noi, soprattutto l’analisi sulla “sinistra colta” incapace di prendere atto della realtà; e, al contrario, l’atteggiamento del nostro “blocco sociale” che capisce immediatamente qual’è il problema (dovendo fare i conti con la perdita di potere d’acquisto dall’introduzione dell’euro in poi).
Buona lettura e che l’ideologia “europeista” vi abbandoni…
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Invece di vertere sui problemi comuni dell’Unione, le elezioni europee giustappongono ventisette consultazioni sulla politica interna. Nella maggior parte degli Stati, gli elettori si pronunceranno soprattutto a favore o contro la squadra al governo. Ma il margine di manovra di cui dispone ciascuno di questi governi nazionali è fortemente limitato dai trattati europei. In queste condizioni, che fare? E, per la sinistra, come uscirne?
Uno spettro si aggira per la sinistra: l’Europa. Ossessionerà anche i «gilet gialli» dal momento in cui si porranno concretamente la questione delle politiche alternative da proporre – cosa che in effetti sta già succedendo. Qualsiasi idea che miri a fare «qualcos’altro» è destinata infatti a scontrarsi con il muro dei trattati. Allentare le politiche di austerity che stanno distruggendo i servizi pubblici, mettere fine all’anomalia democratica di una banca centrale indipendente senza alcuna legittimità politica, cancellare le strutture che consentono alla finanza di controllare imprese e governi, contrastare un regime di concorrenza distorto (attraverso il dumping sociale e ambientale) o le delocalizzazioni fuori controllo, richiedere la possibilità di aiuti di Stato: tutti questi provvedimenti, finalizzati all’attuazione di una politica di giustizia sociale, sono resi formalmente impossibili dai trattati.
«Allora rifacciamo i trattati!». Dopo «l’Europa sociale», «l’euro democratico» è l’illusione surrogata che consente a una «sinistra incoerente» di rimandare ancora il momento di affrontare il problema europeo. Da Yanis Varoufakis (si legga il suo articolo alle pagine 12 e 13) a Benoît Hamon passando per Raphaël Glucksmann, tutti vogliono «rifare i trattati». Diciamolo subito: non accadrà mai.
I trattati sono un errore solo per chi ritiene che una comunità politica non possa essere così folle da impedirsi di modificare le proprie posizioni in materia di moneta, di bilancio, di debito o di circolazione di capitali, vale a dire da rinunciare volontariamente alle politiche che pesano maggiormente sulle condizioni materiali della popolazione. Sono invece perfettamente funzionali per i pochi che perseguono il progetto, neanche tanto velato, di difendere a tutti i costi un certo tipo di politiche economiche favorevoli a un certo tipo di interessi. Tra l’altro con la carica nevrotica di un paese che, per blindare l’edificio, racconta da più di mezzo secolo che l’ortodossia monetaria e di bilancio è il suo unico baluardo contro il nazismo…
Ecco quindi come si presenta l’impasse europea:
1. Sottrarre, come fanno i trattati, i contenuti sostanziali di alcune delle più importanti politiche pubbliche alle deliberazioni di un’assemblea ordinaria, per proteggerli all’interno di trattati modificabili solo attraverso procedure straordinarie è un’anomalia che squalifica radicalmente qualsiasi pretesa democratica.
2. Un progetto che volesse rendere l’Europa davvero democratica dovrebbe proporre una revisione dei trattati che istituisca un vero parlamento, a cui sia restituita l’integralità dei campi decisionali attualmente fuori dalla portata di qualsiasi nuova deliberazione sovrana.
3. Purtroppo, allo stato delle cose, a una simile revisione si opporrebbe quantomeno il rifiuto categorico della Germania. La Germania, infatti, ha posto come condizione della sua partecipazione all’euro la difesa della propria ortodossia all’interno dei trattati. Se fosse messa in minoranza proprio su questo, preferirebbe l’integrità dei propri principi alla permanenza nell’Unione.
Ecco il dilemma con cui la «sinistra democratica europea» dovrà fare i conti: democratizzare (veramente) l’euro presuppone una revisione complessiva dei trattati, ma di fronte a tale prospettiva la Germania finirebbe inevitabilmente per chiamarsi fuori… e l’euro andrebbe in pezzi. Certo, quando la realtà è troppo dura da affrontare, c’è sempre la soluzione di rifugiarsi nella fantasia – di qui la storiella dell’«euro democratico».
Per chi non volta le spalle alla contraddizione e sceglie le politiche progressiste contro il feticismo dell’euro il problema non è meno grave. Stefano Palombarini (1), ad esempio, ritiene che nel quadro dell’attuale blocco elettorale di sinistra la prospettiva dell’uscita dall’euro non possa essere presa in considerazione, dal momento che solo a sentirne parlare alcune delle sue componenti gridano al «ripiegamento nazionalistico».
Da un certo punto di vista ha ragione. Il dibattito sull’euro che ha impegnato la sinistra dal 2010 ha dimostrato quanto questo schieramento sia diviso al suo interno. La persistente chimera dell’«altro euro», di cui non ci si è sbarazzati nemmeno dopo il disastro greco – e che vede nella proposta di un «parlamento dell’euro» la sua espressione più patetica – testimonia proprio questo riflesso epidermico. Ed è sempre la questione europea l’ostacolo che ha impedito ad Hamon di ritirarsi in favore di Jean-Luc Mélenchon dopo il primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, facendogli perfino preferire l’umiliazione a una vittoria della sinistra.
Una impasse a sinistra
In effetti, c’è tutta una parte dell’opinione pubblica di sinistra che, pur disapprovando, a volte con veemenza, il contenuto specifico delle politiche europee e i conseguenti vincoli sulla condotta delle politiche nazionali, non accetta l’idea generale, e coerente, di rompere con l’euro. Questi individui non fanno che pontificare contro «l’Europa dell’austerity», ma non appena si propone loro di uscirne rispondono «assolutamente no!». Finché tale impasse rimarrà irrisolta, la sinistra non riuscirà ad andare al governo.
Il fatto è che la sinistra avrà sempre a che fare con la classe istruita, che è la protagonista principale di questa situazione. Tale classe si ritiene la punta avanzata della razionalità all’interno della società, mentre di fatto costituisce il suo elemento più incoerente: in preda più di ogni altra alla paura, sublima i suoi timori in un umanesimo europeista e in posizioni internazionaliste astratte che le consentono, o almeno così crede, di ergersi su un piedistallo morale – qualunque sia il prezzo economico e sociale (pagato dagli altri). Questa compagine continua a cercare nell’«euro democratico» e nel suo «parlamento» una soluzione irrealistica alle proprie contraddizioni interne. Ed è proprio con lei, come osserva Palombarini, che sfortunatamente una strategia politica di sinistra deve fare i conti.
Come tenere insieme uno schieramento di forze che va dalle classi popolari, che vivono sulla propria pelle i danni provocati dalle politiche europee e che sono quindi meno preda degli scrupoli dell’europeismo, alla borghesia istruita di sinistra, che per la sua estrema sensibilità ha una crisi isterica alla sola idea di rompere con l’Europa? È fuor di dubbio che alle prime bisognerà concedere l’uscita dall’euro, perché vivono la cosa in concreto. Alla seconda si dovrà riservare un trattamento speciale, cioè trovare qualcosa da accordarle.
In cosa consisterà allora il contributo del vero internazionalismo alla soluzione del dilemma europeo che attraversa la sinistra? A non lasciare la classe istruita orfana dell’Europa e a offrirle una prospettiva storica europea alternativa. Bisogna cioè convincerla che rinunciare al suo oggetto transizionale, l’euro, non significa perdere tutto e che potrà ancora credere a ciò che le piace credere e che da un certo punto di vista ha ragione a credere, vale a dire, in generale, allo sforzo di decentrare i popoli nazionali e di avvicinarli il più possibile, a partire logicamente da quelli europei. Ma non più in qualsiasi modo, a tutti i costi, intrecciando questo fondato desiderio internazionalista con le peggiori proposte dell’economismo neoliberista – l’internazionalismo della moneta, del commercio e della finanza.
Pur cercando di convincerla che non ci sarà un «altro euro» e che «l’euro democratico» non esisterà mai, bisogna quindi dire alla classe istruita, che in larga parte, di fatto, ha nelle proprie mani le sorti di un’egemonia di sinistra, che non deve rinunciare all’europeismo generico a cui tiene tanto. E quindi farle una nuova proposta in tal senso. Una proposta abbastanza forte da sostituirsi a quella ormai perduta dell’euro, a cui la borghesia di sinistra continua ad aggrapparsi perché ha troppa paura del vuoto. La promessa di una sorta di «nuovo progetto europeo», al quale bisogna dare la consistenza di una prospettiva storica.
È possibile avvicinare i popoli europei gli uni agli altri in tutt’altro modo rispetto a quello dell’economia. Studi universitari e, perché no, liceali, arte, ricerca, progetti sistematici di traduzioni incrociate, storiografie denazionalizzate, tutto può contribuire a farci diventare intensamente «europeizzati» – e quindi «europeizzanti».
Non siamo però obbligati a fermarci al registro degli interventi orientati verso l’«Europa della cultura», di cui sappiamo bene quali classi sociali beneficiano maggiormente. In realtà, l’Europa ha un grande debito da saldare nei confronti delle classi popolari e sarebbe particolarmente opportuno che se ne ricordasse, non in nome di un’economia del perdono o del riscatto, ma perché è nel suo interesse politico avere queste classi dalla sua parte. La loro ostilità, d’altronde perfettamente giustificata, non è stata forse una sua ferita aperta fin dai tempi del trattato di Maastricht? Se quindi questa nuova Europa, liberata dall’euro, vorrà recuperare un qualche legame con queste classi, dovrà rivolgersi a loro molto direttamente, in primo luogo parlando il linguaggio che le è più congeniale: quello, concreto, degli interventi finanziari. Non avrà modo più semplice per rendersi desiderabile che sostituirsi a Stati ormai deboli, tra l’altro resi tali proprio da lei durante il regno della moneta unica. Ampi programmi di riqualificazione delle periferie, piani di informatizzazione, fondi per la reindustrializzazione, finanziamenti di reti di istruzione popolare, sostegno ai tessuti associativi… le idee a partire dalle quali l’Europa potrebbe rinnovare l’immagine del proprio «marchio» di certo non mancano.
E proprio perché le idee abbondano, non devono mancare neanche i mezzi per realizzarle. In vero, è qui che si gioca la differenza tra le parole al vento e la coerenza di un progetto politico. La sua ambizione si misurerà esattamente in base alle risorse impiegate. Queste dovranno essere valutate molto semplicemente a partire da un obiettivo quantitativo globale, indicante una traiettoria a medio termine verso una quota di bilancio del 3%, per poi arrivare, perché no, al 5% del prodotto interno lordo (Pil) europeo – al posto del ridicolo 1% di oggi.
Non è che si debba partire dal nulla e che attualmente non esista niente di tutto questo: Erasmus, Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), ecc. Ma bisogna ampliare notevolmente la quantità delle risorse e i destinatari, rivolgendosi in particolare a classi finora completamente trascurate, dare a tutte queste iniziative un’ampiezza senza precedenti, riunendole in un discorso di portata storica, e, per rendere questo discorso più affidabile, prevedere nuove espressioni istituzionali visibili. Queste espressioni d’altronde, saranno necessarie, perché bisognerà che un organismo decida le aree, i volumi e la distribuzione degli interventi. Che forma potrebbe avere tale organismo se non assembleare? Qualcosa però di completamente diverso dall’impossibile «parlamento dell’euro», un’ipocrisia democratica destinata a coprire l’irrimediabile non-democrazia dell’unione monetaria.
Al punto in cui siamo, possiamo cominciare a sperare che anche la borghesia istruita, che si ritiene tanto intelligente mentre il più delle volte è in preda a una sconcertante cecità politica, capisca l’urgenza di salvare l’Europa da sé stessa e che questo obiettivo sarà raggiungibile solo al prezzo di un cambiamento radicale. Non con qualche «trasformazione» della moneta unica, congenitamente, e ancora per molto tempo, ordoliberista, ma proprio con il suo abbandono. L’Europa riacquisterà il favore del popolo solo restituendogli tutto quello che finora gli ha sottratto. E in particolare il fondamentale diritto democratico di sperimentare, provare e riprovare ancora. Rimuovendo la camicia di forza dell’euro, tutto tornerà a essere possibile, chiaramente secondo l’autodeterminazione sovrana di ogni corpo politico. E poiché si tratta di pensare una strategia per la sinistra: porre un freno ai mercati finanziari, socializzare le banche, limitare il potere degli azionisti, proprietà sociale dei mezzi di produzione… È sicuramente possibile spiegare ai più preoccupati che, se persistere sulla via dell’euro sarebbe la tomba di ogni speranza di sinistra, l’idea di una comunità politica europea non dovrà necessariamente uscire di scena, ma potrà anzi essere salvata. A condizione che le si forniscano le sue condizioni di possibilità storica, a coronamento di un lungo avvicinamento, ma questa volta davvero «sempre più stretto», tra i popoli del continente, avvicinamento a cui il «nuovo progetto europeo», disintossicato dal veleno liberista dell’unione attuale, darà finalmente il suo tempo, i suoi mezzi e la sua opportunità.
(1) «Face à Macron, la gauche ou le populisme?», Le blog de Stefano Palombarini, 10 luglio 2017, http://blogs.mediapart.fr
* Economista e filosofo. Direttore di ricerca presso il Centro nazionale di ricerca scientifica (Cnrs), autore di La Condition anarchique, Seuil, Parigi 2018. Tradotto e pubblicato da Le Mond Diplomatique – il manifesto
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