La nuova inchiesta giudiziaria abbattutasi sull’amministrazione pentastellata della Capitale, con l’arresto eccellente del presidente dell’assemblea capitolina , Marcello De Vito, squarcia definitivamente il velo non tanto su una già acclarata gestione politica fallimentare del Movimento 5 Stelle, quanto sulla presa d’atto che i presunti investimenti imprenditoriali privati, fuori da una logica di programmazione urbanistica pubblica funzionale alle esigenze della popolazione, si confermano operazioni affaristico-speculative, con l’inevitabile fetazione di corruzione e malaffare.
La giunta 5 Stelle a cui la popolazione romana ha consegnato la maggioranza assoluta per il governo della Città, senza più gli alibi dell’inesperienza accampati nei pregressi incidenti di percorso giudiziari ed amministrativi, rivela la propria incapacità politica e culturale a comprendere che il governo non è un esercizio di pratiche di corretta osservanza amministrativa, ma è attività che risponde agli interessi materiali, per conto dei quali si esercita la funzione di governo politico.
Il sostegno elettorale ricevuto dalle periferie vecchie e nuove, dalle aree del disagio sociale, dal ceto medio impoverito, dalla piccola imprenditoria e dell’artigianato …, avrebbero dovuto indicare quali interessi materiali e maggioritari del corpo sociale cittadino andavano posti a capo dell’azione di governo della città.
La scelta compiuta, a dispetto di ogni evidenza e lungimiranza politica, è stata nella migliore delle ipotesi quella dell’inazione, per contraddizioni interne, della subalternità ai vincoli di bilancio e alle politiche di rientro dal debito, sprofondando la città in una condizione di degrado e sacrificando legittime aspettative popolari. Le crisi dei Municipi III e VIII, culminate con lo spodestamento di mini-sindaci 5 stelle da parte del centro-sinistra, hanno confermato sul piano territoriale l’incapacità di tradurre in azione di governo il mandato ricevuto, palesando una sconcertante inconsistenza politico-amministrativa ormai percepita diffusamente dalla popolazione.
Mentre la giunta di governo cittadino nella morsa delle proprie contraddizioni e incapacità, cercava di recuperare i rapporti, soprattutto sul piano mediatico, con una realtà metropolitana in forte sofferenza con cui, aldilà della demagogia elettorale, si è sistematicamente rifiutata di costruire relazioni; i comitati di affari -il mix di speculatori, banchieri, faccendieri, immobiliaristi -pronti ad intercettare i flussi della finanza globale alla ricerca di impieghi nel territorio, forti di una conoscenza della macchina amministrativa sapientemente resa disponibile ai propri interessi, continuavano a tessere la rete delle relazioni politiche con una pervasività inimmaginabile anche negli ambiti del Movimento dei 5 Stelle. Addirittura investendo De Vito presidente dell’assemblea Capitolina figura apicale delle relazioni tra politica e amministrazione e infiltrandosi direttamente, secondo l’ipotesi dell’inchiesta, attraverso l’assessore Frongia nell’azione di governo.
Prima della cronaca, emerge in modo incontestabile un giudizio di merito sul sistema di corruzione e malaffare che investe sistematicamente le esperienze di governo cittadino: l’impossibilità di articolare una qualsivoglia strategia, fondata su una visione della città e delle priorità sociali, è la conseguenza diretta dello smantellamento degli strumenti finanziari ed amministrativi dell’intervento urbano, della realizzazione sul piano territoriale delle condizioni di governo imposte dai vincoli di bilancio derivanti dai trattati della U.E., pietra tombale sul ruolo pubblico nella economia. Atto fondante del trasferimento della centralità della politica cittadina, per la necessità di procurarsi i necessari finanziamenti, dalle aspettative della popolazione agli interessi dei gruppi imprenditoriali- finanziari.
L’ ingresso del capitale privato è la condizione per contrattare minime “compensazioni sociali” allo sfruttamento di risorse ambientali, strutturali, culturali della città: dalla gestione dei servizi agli interventi urbanistici, tutta la vita sociale e subordinata alla centralità dell’interesse privato.
Il vecchio equilibrio tra pubblico e privato posto a fondamento dell’ordinamento economico-sociale, con il primato riconosciuto e garantito dell’interesse generale, appare ormai non solo completamente esautorato ma ribaltato. Il cambio di funzione degli apparati politici ed amministrativi territoriali da luoghi di progettazione e programmazione dell’intervento sulla città e di gestione del patrimonio ad “amministratori fallimentari” di un territorio che, al di fuori della logica del profitto privato, non riconosce altra razionalità.
Il soddisfacimento dei bisogni cittadini – mobilità, ambiente, sicurezza sociale del territorio, ecc- sono costretti sul filo del rasoio della continua emergenza, agli antipodi della programmazione di cui avrebbero necessità e trasformati a leva all’appropriazione privatistica.
Naturalmente l’evidenza di questo dato strutturale non ridimensiona le responsabilità individuali di chi gestisce la città, ma il passaggio dal governo della città, fondato per definizione su un progetto, a governance, pura disciplina gestionale per finalità esterne a quelle per cui si è verosimilmente ricevuto il mandato, è la sintesi della funzione assunta dalla politica, indifferente alla collocazione politica dei vincitori elettorali, personale politico al servizio appunto della struttura della governance, alla gestione della quale ci si candida nel quadro di parametri e finalità predefinite, in cui gli interessi della popolazione , il patrimonio urbano in tutte le sue espressioni, sono “merce” da valorizzare secondo l’unica razionalità ammessa: quella capitalistica del profitto.
Se questa può essere la traccia per comprendere il dato strutturale del sovvertimento di priorità sociali, l’ affarismo privato in luogo della programmazione pubblica ,realizzato dalla governance multilivello dei trattati europei, a cui si condanna il modello di gestione della metropoli, sul versante politico, il reiterato manifestarsi di fenomeni di corruzione e clientelismo da parte del Movimento 5 Stelle, che aveva capitalizzato il “voto vendicativo” delle periferie contro l’austerity, il malaffare e i veleni delle privatizzazioni “sversati” in dosi massicce nella relazioni sociali cittadine, si apre una partita fondamentale per gli anni a venire. Infatti, lo sfaldamento dei 5 Stelle e la disillusione al cambiamento dei settori popolari, rischia di accrescere, da un lato, il consenso alla destra che nella torsione razzista, xenofoba e securitaria del disagio sociale ha costruito la base del suo consenso; dall’altro, il riaffacciarsi del nuovo ulivo versione Zingaretti, dopo la conquista della segreteria del PD, con i richiami alla costruzione di un fronte progressista europeista, si pongono come pseudo-alternative politiche, in realtà entrambe le opzioni sono al servizio dello stesso modello imposto dalla governance e delle mire speculative dei fondi finanziari- immobiliari e multinazionali. Evitare che questa finta alternativa, costruita mediaticamente, irretisca il nostro blocco sociale è aspetto essenziale della nostra capacità di dare rappresentanza agli interessi popolari in alternativa al modello della governce. I fenomeni corruttivi ci forniscono non solo le modalità di predazione privatistica in atto, ma una mappa del patrimonio di risorse al centro degli interessi della speculazione affaristica e la fisionomia dei soggetti economici alla conquista della città.
I progetti sulle grandi aree urbane dismesse, Tor di Valle piuttosto che l’area degli ex Mercati Generali, il palazzo di piazza dei Navigatori o l’area della ex fiera di Roma, sono l’esatta proiezione di un modello di Città in cui l’utilizzo ultimo, dopo le colate di cemento, è a misura di consumatori non certo di cittadini: uno stadio con annesse mega-aree di consumo del prodotto sportivo, un mega centro commerciale con aree di ristorazione per i flussi turistici negli spazi degli ex mercati generali, ecc. Opere con un comune denominatore: l’inutilità dal punto di vista della funzionalità del territorio e dei suoi bisogni, patrimonio e risorse espropriate alla collettività e messe a disposizione di pseudo-imprenditori che con rischio d’impresa di fatto inesistente si accaparrano punti di pregio per i loro affari. Toti, Parnasi, tra gli altri, sono i nomi ricorrenti di imprenditori che con gruppi bancari e/o finanziari, si contendono pezzi di patrimonio cittadino.
Allora, intorno alla mappa disvelata degli interessi della speculazione, costruiamo una rete di protezione e controllo sociale in ogni quadrante urbano attraverso la denuncia dei progetti di espropriazione privatistica, rivendichiamo il diritto alla permanenza nel pubblico e quindi alla disponibilità collettiva degli spazi riconvertiti, chiediamo comunque un pronunciamento delle popolazioni del territorio sulle possibile opere realizzabili negli spazi pubblici. Difendere la prevalenza degli interessi generali nella valorizzazione del patrimonio coinvolgendo la popolazione nella loro difesa è il passo decisivo per imporre un cambio di rotta nel modello di città, partendo dall’evidenza che ad ogni privatizzazione corrisponde un impoverimento collettivo
La divaricazione tra le urgenze sociali e la condotta dell’amministrazione cittadina non consente ulteriori dilazioni: promuovere una mobilitazione contro la privatizzazione strisciante della città, contro la giunta Raggi schiantata dalle contraddizioni interne e incapace di esprimere discontinuità amministrativa con il modello unico della governance, è un passaggio indispensabile per chiunque voglia assumersi la responsabilità di una battaglia per riaffermare il primato degli interessi popolari.
*Rete dei Comunisti, Roma
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