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Gli sciacalli a Corso Francia. Sulle vite degli altri…

La copertura giornalistica del caso delle due ragazze investite a Roma è il modo peggiore di concludere questo nefasto 2019.

Non è stato raccontato un fatto di cronaca, ma è stata prodotta della pornografia. Oggi  (venerdì, ndr) Repubblica, sul suo sito, a un certo punto ha titolato «Via ai funerali di Gaia e Camilla», come se fosse la diretta della finale dei mondiali o di una tappa del Tour de France. Non so se mi spiego.

Beninteso, faccio il cronista pure io e so benissimo che certe cose vanno raccontate, e dirò di più: ho cominciato a fare questo sporco lavoro – a 19 anni appena compiuti – con la mia capa di allora che mi mandò a casa di una madre che aveva appena perso la figlia piccola in un incidente stradale per chiederle una foto da mettere sul giornale.

Quindi, diciamo, arrivo a capire molto di un certo modo di ragionare che ormai dilaga nelle redazioni. E non solo in quelle dei giornalacci ma anche in quelle dei (presunti) giornaloni.

Il fatto è che c’è un limite a tutto: c’è il diritto di cronaca e il dovere di scrivere tutto quello che accade e che abbia una rilevanza pubblica – e un incidente mortale ha una rilevanza pubblica – però arriva anche il momento in cui il racconto va fatto in modo e non in un altro.

Provo a spiegare meglio: quando uscì l’autopsia di Pamela Mastropietro c’è chi scelse di scrivere semplicemente che la ragazza era stata fatta a pezzi (e già si capisce tutto) e chi invece preferì entrare nei dettagli su come sia stata disossata e sulla situazione dei suoi tessuti muscolari dilaniati. Perché? In questo caso la risposta è semplice: perché c’erano di mezzo un ne*ro assassino e una campagna elettorale in corso, quindi valeva tutto.

Nel caso delle ragazze investite in Corso Francia a Roma, malgrado i dubbi del gip, si è già decretato che l’investitore è un drogato da sbattere in galera per sempre. Se non basta la gogna per l’investitore, possiamo sempre rivolgerci a Feltri e affini per un bell’editorialino a tema «che ci facevano due sedicenni in giro a mezzanotte e mezza?». (E che ci fa un vecchio rinc******to in tweed a dirigere un giornale?)

Qui però non ci sono campagne elettorali né ne*ri e il motivo di tanta e tale perversione giornalistica va ricercato nella crisi profonda della carta stampata, che non vende più niente in edicola e spera di trovare la salvezza assecondando il peggio del peggio del peggio che si trova su Facebook e su Twitter.

Io credo che la cronaca nera sia importantissima: «È la pancia del giornale», diceva sempre un vecchio caporedattore amico mio. Credo però anche che la cronaca nera si debba fare in modo diverso da come la leggiamo (e la scriviamo) tutti giorni. Dovremmo sempre e comunque chiederci i perché del caso e, allo stesso tempo, dovremmo sempre cercare di rispettare tutte le parti in causa: vittime, parenti, colpevoli veri o presunti, testimoni, eccetera eccetera.

Come si fa? Con le parole. Questo usiamo noi: le parole. E ci sono parole peggiori di altre. E questo dovremmo saperlo bene. E sapere cosa può significare nelle vite degli altri. Perché è di quello che scriviamo: le vite degli altri. Sconosciuti a cui succedono cose orrende e che noi disturbiamo per cinquanta o sessanta righe di cronaca.

I perché necessari a costruire un buon pezzo, tra l’altro, sarebbe meglio non rivolgerli verso chi certe storie le subisce, ma verso il potere costituito, i dispensatori di «verità putative» che non ti salvano in caso di querela ma che devi rispettare pena l’ostracismo e la carestia di notizie dai giri di nera. Non bisogna avere nemici in questura, dicono, anche se quando le cose sono importanti ti nascondono la verità e ti riempiono di cazzate.

Faccio un esempio: oggi, se Pinelli cadesse giù da una finestra della questura di Milano e poi in conferenza stampa si presentassero tre poliziotti a dire che si è suicidato, difficilmente tra i giornalisti si troverebbe una Camilla Cederna a rispondere che questa storia fa acqua da tutte le parti.

Sul manifesto, Loredana Lipperini e Massimiliano Coccia scrivono una lettera che è anche un appello a tutti noi. E a tutti voi.

Se pensate che il peggio sia alle spalle, non illudetevi e tenete presente che stiamo entrando negli anni venti.

Auguri.

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