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Guerra alla guerra! I conflitti militari nella fase di stallo tra gli imperialismi

Il nuovo anno si è aperto con momenti di alta tensione a livello internazionale dovuti all’azione militare mirata con la quale gli USA hanno eliminato Qassem Soleimani, generale alla guida delle forze Quds, unità d’élite dei Guardiani della Rivoluzione, e numero due della politica iraniana dopo l’Ayatollah Khamenei.

Questo atto non è un’iniziativa estemporanea dettata da scelte effettuate senza ponderazione, ma è una delle forme con cui in questa fase di stallo si sviluppa la competizione globale tra vari attori, in uno scenario che si avvicina a quello che poco più di un secolo fa fece precipitare il mondo nella prima carneficina mondiale.

È necessario dunque affrontare gli eventi che negli ultimi giorni si sono susseguiti in Medio-Oriente come passaggi di questioni che vanno ben oltre la già complessa relazione tra USA e Iran, e che devono invece essere compresi in quanto momenti di una dinamica che è insieme di lungo periodo, con tutto il portato storico ad essa collegato, ed è anche espressione dell’attuale scontro interimperialistico.

Innanzitutto l’azione statunitense si mostra in continuità con l’operato delle dominazioni coloniali prima e della penetrazione neo-coloniale poi, che per secoli hanno portato miseria e instabilità in tante aree del pianeta, intervenendo militarmente oppure finanziando e poi abbattendo regimi in funzione di quelli che di volta in volta erano i propri interessi in quella specifica contingenza storica.

Il caos in Medio-Oriente è responsabilità delle potenze occidentali, e i venti di guerra sollevati dall’assassinio di Soleimani sono il risultato dell’aggressione imperialista statunitense.

In questo caso e diversamente dalle tensioni che durante la presidenza di Trump hanno segnato il rapporto con la Corea del Nord, i vertici USA non si sono fermati alle parole ma con un vero e proprio atto di terrorismo hanno ucciso un importante esponente di uno di quei pochi paesi che in quel quadrante del mondo non sono ancora inseriti nell’orbita di influenza di Washington, e che hanno operato in contrasto e disaccordo con essa.

È solo allargando lo sguardo sugli eventi che hanno segnato il Medio-Oriente negli ultimi anni che possiamo dunque comprendere il significato dell’attacco al generale iraniano. Ricordiamo l’atto di pirateria che i marines britannici hanno condotto a largo dello stretto di Gibilterra, in acque internazionali nel luglio dell’anno passato, ai danni della Grace1, una petroliera sospettata di trasportare greggio iraniano in Siria.

Quell’occasione ha chiarito i termini della questione Iran: le sanzioni unilaterali imposte da Washinton, il programma sul nucleare, e il ruolo dell’Unione Europea. Quest’ultima tirata in ballo proprio dall’operazione dei marines che formalmente hanno dichiarato di aver attaccato con l’intenzione di difendere le sanzioni che l’UE aveva imposto a Damasco ma nella sostanza ha agito per proteggere l’embargo degli states sull’Iran.

In seguito alla risposta dell’Iran l’ex presidente Mahmoud Ahmadinejad chiarì perfettamente la situazione: “Trump è un uomo d’azione, un uomo d’affari, in grado di calcolare costi benefici e prendere una decisione. Diciamogli ‘calcoliamo i costi/benefici a lungo termine per le nostre due nazioni e cerchiamo di avere uno sguardo non miope‘”.

Se senza dubbio la guerra, l’unità nazionale contro un nemico esterno sono un potente strumento da utilizzare per distogliere l’attenzione da problematiche interne, e di questo l’amministrazione Trump, stretta tra impeachment, diatribe economiche ed elezioni imminenti ne è certamente consapevole, sarebbe parziale ridurre l’intera questione esclusivamente a una dinamica di politica interna.

L’Iran dispone di uno dei più attrezzati eserciti mediorientali, mentre a livello commerciale i rapporti con la Cina si sono intensificati al punto da rendere quest’ultima il suo principale partner. Il tentativo statunitense di isolare la Repubblica Islamica, da una parte attraverso il consolidamento del fronte dei suoi alleati regionali (Israele e Arabia Saudita in primis) intransigenti verso Teheran, dall’altra attraverso sanzioni economiche che dovevano colpire indirettamente anche l’Unione Europea, è naufragato; di riflesso a queste iniziative, l’Iran ha intrecciato più stretti legami con Russia e Cina, divenendo un elemento fondamentale nella partnership strategica fra questi due attori, ormai degni rivali della superpotenza statunitense.

A fine dicembre 2019 questi tre paesi hanno svolto esercitazioni navali congiunte nell’Oceano Indiano e nel Golfo di Oman, e la risposta della Casa Bianca, tutt’altro che estemporanea, non si è fatta attendere.

La perdita del ruolo egemonico che gli Stati Uniti hanno mantenuto per decenni è segnalata da vari eventi: il rafforzamento di un “arcipelago sciita” (in Iraq come in Libano) centrato su Teheran capace di bilanciare la forza delle alleate petro-monarchie del Golfo, la battuta d’arresto in Siria, l’avvicinamento della Turchia alla Russia e l’invio di truppe in Libia, le mobilitazioni di massa contro le politiche neoliberiste in quello che un tempo era il proprio “giardino di casa”, ovvero il Sud America, e il fallimento del golpe in Venezuela.

Trump è tutt’altro che un pazzo, bensì il rappresentante istituzionale di interessi consolidati che di fronte alla perdita della propria preminenza tentano di recuperare il terreno perduto sul campo militare, ambito che garantisce loro ancora un vantaggio strategico. L’aggressione imperialista all’Iran alza deliberatamente la tensione tra i blocchi economici, ricordandoci come la guerra sia un’opzione sempre percorribile per le grandi potenze quando il capitalismo attraversa crisi strutturali: al di là dell’importanza della zona coinvolta, i conflitti sono sempre una straordinaria occasione di valorizzazione.

Ma la risposta “proporzionata” – così è stata definita dal governo iraniano – costituita da un bombardamento missilistico preventivamente comunicato dai vertici iraniani ai corrispettivi iracheni, nonché la successiva dichiarazione di Trump che afferma di essere pronto alla pace annunciando unicamente nuove sanzioni contro Teheran ci appaiono come elementi di conferma del sostanziale mantenimento di una situazione di stallo fra gli imperialismi.

A livello geopolitico si vive un equilibrio di forze che per quanto dinamico, con momenti di frizione e tentativi di forzature – Trump ha chiesto a UE, Russia e Cina di abbandonare l’intesa sul nucleare firmata con l’Iran nel 2015 e da lui già disconosciuta, e ha inoltre auspicato un maggiore coinvolgimento dei membri della Nato nel settore mediorientale – resta essenzialmente invariato.

Lo Zio Sam sta scherzando col fuoco, rischiando un passo falso che potrebbe scatenare una vera e propria “guerra guerreggiata” ma a differenza di quanto accaduto in passato – proprio il 16 gennaio del 1991 gli Stati uniti entrarono nella prima guerra del Golfo – deve fare i conti con una struttura economica mondiale costituita da una rete di relazioni che rendono i vari blocchi economici interdipendenti tra loro.

Le contraddizioni e le frizioni che si sviluppano tra questi generano di conseguenza contraddizioni interne, è per questa ragione che un’escalation militare risulta nei fatti sconveniente per tutti. Il rischio è quello di procedere verso una forzatura che metterebbe a rischio gli stessi states.

Il fatto che, in seguito all’attacco della Casa Bianca, la Camera USA abbia approvato una risoluzione per limitare i poteri di guerra di Trump rappresenta il riflesso politico delle contradizioni interne agli USA. Da una parte i gruppi d’interesse più ancorati al vecchio ruolo di “gendarmi nel mondo” spingono nella direzione della guerra, dall’altro coloro che hanno rapporti economici con l’Unione Europa e con la Cina non hanno alcuna intenzione di reciderli per precipitarsi a capofitto in una guerra dalla conseguenze per nulla scontate.

Come più volte abbiamo ripetuto, in questo mondo multipolare anche l’Unione Europea punta a giocare un suo ruolo autonomo. Dopo le dichiarazioni di Macron sul “coma della Nato” e la spinta imposta dal presidente francese alla creazione di un esercito europeo, dopo l’adesione dell’Italia alla struttura militare comunitaria chiamata European Intervention Iniziative, il Commissario Europeo all’Economia Gentiloni ha colto l’occasione data dall’eliminazione di Soleimani per rilanciare un certo protagonismo dell’UE sulle questioni internazionali, che si tratti di Iran o di Libia – dopo aver affermato lo scorso anno la necessità di mantenere l’accordo sul nucleare firmato con Teheran e in concomitanza dell’incontro tra Giuseppe Conte e Haftar.

Nella stessa direzione convergono le dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen, che ha espresso l’intenzione di dare un ruolo “geopolitico” alla Commissione. L’opposizione all’aggressione statunitense e alla Nato devono vivere alle nostre latitudini insieme alla lotta contro l’Unione Europea, che cerca di acquisire una posizione preminente nello scontro interimperialistico, accentuando le tensioni di questo gioco padronale che ad ogni momento, in nome del profitto, potrebbe gettare il mondo nel baratro.

Ciò che il capitalismo non riesce a fare con la pace lo fa con la guerra e a beneficiarne sono sempre grandi gruppi di interesse, a pagare per esse sempre il pianeta, i popoli aggrediti e le classi popolari chiamate a combattere. È fondamentale dotarsi di tutti gli strumenti necessari a comprendere e a combattere il “nostro” polo imperialista ancora in costruzione, che tra le altre cose manca ancora proprio di un apparato militare comunitario capace di intervenire efficacemente nelle varie situazioni di conflitto.

Su questo aspetto però, come già detto, nonostante alcune frizioni tra Germania e Francia, l’establishment europeo sta accelerando con forza. Tanto più in questo ambito un’organizzazione giovanile come la nostra deve assumere un ruolo di primo piano e capire come ci si può opporre oggi alla violenza imperialista.

È nostro compito denunciare la connivenza con questa logica di potenza da parte delle varie istituzioni e in particolare delle università, coinvolte strettamente in percorsi didattici e convenzioni militari tanto con aziende private quanto con lo Stato italiano e la Nato. Il nostro compito deve essere quello di contrastare non solo questi progetti che mostrano un legame perverso tra ricerca scientifica e guerra, ma anche quelli con un forte portato ideologico come la “mini-naja” votata quasi all’unanimità nel marzo scorso, un percorso formativo militare della durata di sei mesi e rivolto ai diplomati tra i 19 e i 22 anni, volontario e non retribuito.

Un simile provvedimento ha difatti l’obiettivo di educare un ristretto esercito professionale alla logica dello scontro imperialistico, al punto da prevedere incontri con le realtà economiche del paese per conoscere l’articolazione del sistema produttivo nazionale, connettendo l’affermazione politica e del proprio mercato alla capacità militare. Segno delle differenze degli eserciti odierni – d’élite e dotati di armi capaci di colpire senza l’ausilio della mano umana – con gli eserciti di massa del passato.

Il sistema formativo acquisisce di conseguenza un peso rilevante nello sviluppo degli apparati di guerra, sia per quanto riguarda l’addestramento dei militari sia per quanto riguarda lo sviluppo delle tecnologie da impegnare nei teatri di guerra.

Nel DNA della nostra organizzazione c’è sempre stata la lotta contro la guerra, strumento di valorizzazione del capitale e in mano alle classi dominanti per opprimere i popoli dentro e fuori le proprie aree di influenza.

Da sempre ci battiamo contro una ricerca e un mondo della formazione piegati alle esigenze della guerra, dal meeting Aerospace & Defence a Torino ai vari eventi di propaganda della NATO. Ma anche al di fuori di questi abbiamo sempre dimostrato e praticato la nostra opposizione contro ogni aggressione imperialista, come quando nel 2015, quando un nuovo intervento militare in Libia sembrava imminente, occupammo l’ex-caserma Stamoto a Bologna.

Oggi come ieri al clima di guerra rispondiamo con la mobilitazione nelle piazze, nelle scuole, nelle università, perché l’unica guerra che vogliamo è quella di classe.

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