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La vana attesa della catastrofe

C’è chi spera nella catastrofe. Ci spera chi da una vita vorrebbe farla finita con questo modo di vivere, col capitalismo, con la marginalità, la miseria economica, intellettiva e affettiva che esso ci regala.

Si sta, così, in attesa di una catastrofe che ci liberi del modo di produzione capitalistico. Si spera di poter demandare a lei l’abbattimento di questo sistema iniquo, della produzione di sofferenza su scala globale. O si attende una catastrofe che renda definitivamente facile per chiunque la scelta di rompere con gli attuali rapporti di produzione.

Se ne parla, fra compagne e compagni, della catastrofe che incombe. Ebbene, chi ne parla deve riconoscere, se già non lo fa, che nel parlarne soggiace il desiderio profondo che la catastrofe si concretizzi, che la catastrofe ci liberi tutti e tutte.

E tuttavia, l’attesa messianica della catastrofe è vana. La si attende sotto forma di tracollo dell’economia, chiusura generale di tutte le industrie, disoccupazione al 100% (abolizione del lavoro tramite pandemia); oppure crisi del petrolio, le compagnie chiudono tutte i battenti, non si estrae più, razionamento dell’elettricità, blackout e saccheggi, crollo dell’infrastruttura logistica che tiene in piedi il capitalismo, fine.

E invece: helicopter money, Corona-Bond, Trump che si mobilita per una limitazione delle estrazioni di petrolio a livello internazionale. E qualcuno potrà anche dire che l’helicopter money porterà una iper-inflazione, lo scontro di interesse fra Italia e Germania renderà impossibile l’emanazione dei Corona-Bond da parte della BCE e che non si riuscirà a trovare alcun accordo sulle estrazioni di petrolio. E forse avranno pure ragione.

Ma vorrà solo dire che la politica istituzionale inventerà nuove soluzioni per preservare al meglio gli interessi del grande Capitale. Il punto è il principio: l’attesa è vana. E questo perché non esiste la catastrofe in generale, ma solo la catastrofe secondo una prospettiva della società divisa in classi.

Il punto è che non esiste una catastrofe che sia anche una liberazione: la NOSTRA catastrofe è sempre per la LORO salvezza. Che cosa è la grande proprietà, in ultima istanza, se non la possibilità di investire per la propria sopravvivenza (non solo come meri individui, ma soprattutto come individui-proprietari che traggono il proprio benessere da uno specifico modo di produzione).

E se i capitalisti vogliono sopravvivere in quanto capitalisti, questo implica anche la necessaria sopravvivenza dei lavoratori: la nostra catastrofe non metterà a rischio la nostra sopravvivenza. Se così fosse non sarebbe estremamente facile ribellarsi – in nome della propria pura e semplice sopravvivenza – al presente modo di produzione? Ma così non sarà.

Non sarà mai facile ribellarsi. Anzi, è proprio l’atto di ribellione che mette a rischio la sopravvivenza. L’unico operaio di cui un capitalista non se ne fa nulla è l’operaio che alza la testa; quell’operaio per il capitalista può anche schiattare. Anche chi non ha da perdere nulla se non le proprie catene, quindi, mette comunque almeno a rischio la pelle. Ribellarsi non è mai stato facile, mai lo sarà.

E allora… Che fare? Non sperare, non attendere. Finalmente la Storia ha fatto nuovamente capolino nelle vite di noi tutti (smentendo platealmente il pessimismo postmodernista e l’ottimismo liberale à la Fukuyama). Le contraddizioni del modo di produzione capitalistico sono oggi sotto gli occhi di tutti: è evidente la falsità del mantra liberale per il quale “il privato è sempre meglio”, l’incapacità del sistema di garantire, al medesimo tempo, la salute e il sostentamento dei cittadini è chiara ed evidente.

Ed è evidente, come mostrato dal modo in cui Cina, Cuba, Venezuela, hanno reagito all’epidemia, che il capitalismo non è ad oggi la migliore delle alternative concepibili. Anzi, di fronte all’efficienza della pianificazione posta al servizio della società, il capitalismo non può non apparire una barbarie.

Tutto ciò non ha nulla a che vedere con una qualche auspicabile morte spontanea dell’attuale modo di produzione. Le istituzioni lotteranno duramente non solo per garantire la tenuta dell’ordine sociale, ma anche per la ricostituzione di un discorso pubblico che sia in grado di rilegittimare un sistema economico che ha mostrato tutte le proprie falle.

Quindi, ora non è tanto il momento giusto per cantare vittoria, quanto il momento di prendere posizione una volta per tutte e attivarsi. Non è mai stato così importante per chi lavora, per chi non è proprietario di nulla, diventare comunista; e non è mai stato così importante, per chi è comunista, organizzarsi, farsi partito (ché un comunista senza organizzazione può fare ben poco, oltre che regalare maggior varietà agli opinionismi da baretto).

Se questo virus fa in qualche modo paura ai grandi capitalisti è perché adesso questi hanno un po’ più paura che si costituisca una gran massa di lavoratori non più disposti a mettersi al loro servizio. C’è sicuramente molto lavoro da fare, ma non è mai valsa tanto la pena di mettersi al lavoro per la costruzione dell’alternativa, di una proposta di socialismo che sia percepita come praticabile e desiderabile.

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1 Commento


  • IlCarbonetto

    Ma organizzarsi per far cosa? Questo e’ il problema, non serve a niente la protesta senza un progetto. Che fare, dunque?
    Per cominciare, organizzate il discorso intorno alla riappropriazione della produzione da parte dei lavoratori in cassa integrazione in deroga, azienda per azienda, strada per strada.

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