Menu

I lavoratori, la crisi economica e il virus. Quali rivendicazioni per il futuro?

Sul pericolo contagio, sulla obbligatorietà imposta al governo da Confindustria a non interrompere la produzione e sulla giusta reazione dei lavoratori, in altri articoli sono stati ampiamente illustrate le modalità e lo stato d’animo dei lavoratori e cittadini. Un disequilibrio che li ha portati a reagire o ad accettare a volte anche in modo disordinato (ferie o malattia) per sfuggire al contagio, ma anche a mobilitarsi per uno sciopero rivendicativo.

Per la prima volta dopo anni, la tragedia del coronavirus ha consentito di accelerare ed acutizzare un processo, già in atto da tempo, di disgregazione di sistema. Un processo di trasformazione sociale e culturale che ancora una volta, per usare un termine gramsciano, vede morire il vecchio sistema ma contemporaneamente non permette la nascita del nuovo. Una fase storica che certamente può creare una pericolosa instabilità ma contemporaneamente, per noi che crediamo che questo modello di sviluppo e di vita debba essere cambiato, un importante opportunità.

Per prima cosa, questa crisi improvvisa, ha permesso di smascherare il principio “dell’azienda famiglia”. Ovvero quel nucleo produttivo che vedeva al centro l’azienda come luogo sociale di aggregazione e regolatrice dei tempi di vita. Modello che per tanti anni è stata sponsorizzata dalle classi dominanti per cercare di contenere il dissenso, privatizzare gli utili e socializzare i problemi e le perdite. Progetto, socializzato grazie al ricatto del debito pubblico, necessario ed usato per non disturbare la produzione, il progetto di smantellamento dello stato sociale e liberalizzazione totale dei mercati. Unico obiettivo reale di vita in una società ipercapitalista liberista e globalizzata.

Purtroppo, grazie solo a questa pandemia, per la prima volta diversi lavoratori sono consapevoli che all’interno dei cicli di produzione sono considerati, come Marx aveva già classificato, solo strumenti di produzione. Una possibile fase di parziale consapevolezza che ha sviluppato, in quella classe non politicizzata di lavoratori, un sentimento di paura e d’istinto di sopravvivenza represso e compresso tra il proteggersi ed impedirsi di infettarsi (volontà di fare sciopero o stare a casa in malattia) o l’accettare il pericolo di lavorare per non mettere a rischio l’occupazione.

Uno stato d’animo che per la prima volta dopo tanti anni ci può dare l’opportunità di riuscire a mettere “il Re a nudo”. Evidenziare i contrasti che il mercato globalizzato e il sistema globalizzato capitalista finanziario sta attuando. Politiche sostenute dalle istituzioni e Governi Europei, che mirano a difendere un sistema industriale che ha fatto dello sfruttamento dei lavoratori uno strumento di competitività. E l’abbassamento del salario, con il ricatto dell’occupazione e l’aumento del precariato, un azione concreta per ridurre il costo del prodotto e rimanere competitivo nella corsa al ribasso imposta dal mercato. Una competitività teoricamente basata e venduta come concorrenza tra le aziende di filiera ma che in realtà è principalmente strutturata sull’abbattimento del costo del lavoro. Ovvero sulla competitività tra lavoratori, non solo all’interno della stessa nazione ma tra le nazioni stesse. Un sistema economico che non ridistribuisce ricchezza ma mira a concentrarla nelle mani di pochi, a discapito di sfruttamento e perdita dei diritti per le classi meno abbienti.

Questa crisi, che in realtà avrebbe dovuto essere solo sanitaria, evidenza in realtà, il limite della politica industriale italiana. Di uno Stato che basa tutta la sua ricchezza principalmente sull’esportazione e non prova minimamente a gestire e sviluppare, sia produttivamente che commercialmente, il mercato interno. Non si tratta di rilanciare una forma autarchica ma una politica di “sicurezza sociale” sottovalutata, soprattutto per quanto riguarda i beni principali di sussistenza sociale.

La volontà da parte dei padroni di voler rimanere aperti nonostante la Pandemia, evidenzia tutta questa arroganza per il profitto e contemporaneamente l’estrema debolezza del sistema capitalista italiano.

Nonostante l’Italia si collochi al secondo o massimo terzo posto come Stato produttivo europeo, trenta giorni di chiusura sono, per il sistema paese, un problema serio. Tanto serio da non dichiarare zona rossa la zona iper-produttiva di Brescia e Bergamo e provocare migliaia di morti.

Ha vita breve una classe imprenditoriale che rifiuta di accettare ed affrontare la crisi di sovrapproduzione avanzante e scarica sull’aggravante della “obbligatoria chiusura aziendale”, la possibile concausa al suo fallimento.

Un atteggiamento questo che evidenzia ancor più il danno portato alle economie nazionali da un mercato libero, che “doveva regolarsi da se”, ma che in realtà ha nascosto la totale assenza di programmazione e pianificazione economica da parte dei governi. Defraudati da questo sistema economico, del ruolo politico e trasformati in puri e semplici consigli di amministrazione.

Nella realtà, infatti, a Reggio Emilia sono già oltre 2500 le aziende, a Modena altre 1200 e oltre 11.000 nel Veneto, che hanno riaperto con delega del prefetto. Una possibilità giuridica contenuta nel decreto che la dice lunga sul potere ricattatorio di Confindustria nel confronto di questo Governo. Un cavillo che ha consentito di andare in deroga alla tabella codice ATECO contrattata con i sindacati Confederali, e richiamare al lavoro tutti i dipendenti. Indipendentemente dal fatto che questi siano strategici per la sconfitta della pandemia.

Noi, dicevo, abbiamo questa possibilità e non a caso il sistema ha, parallelamente alle azioni di contenimento del contagio, attuato una forte dislocazione di polizia, vigili e forze armate sul territorio, apparentemente per impedire gli assembramenti. Un occupazione militare giustificata dal rispetto dello slogan “state a casa” che in realtà è finalizzata a controllare e contenere eventuali rivolte dei lavoratori/cittadini. Come è già avvenuto nel sud del paese, zone in cui è maggiormente tollerato soprattutto dagli organi di controllo, il dilagare del lavoro nero. Un lavoro che oggi manca a un’economia nascosta, evasiva di contributi e tasse e parente a un mercato mafioso e illecito ma che ha permesso, purtroppo a causa di uno Stato assente, alle classi meno abbienti e sfruttabili di potere sopravvivere. E a uno Stato, di garantirsi serbatoio elettorale, politico e finanziario.

Non è un caso se si sprecano fior di servizi televisivi per illustrare le bellissime tecniche moderne di controllo attraverso l’utilizzo di App o Droni. O peggio già approvati, investimenti destinati dalle amministrazioni locali per operatori atti al controllo del territorio e non invece destinati a contrastare il disagio sociale.

Voglio però tornare alla questione della nostra opportunità.

Dobbiamo rilanciare tutte le battaglie condotte in questi ultimi 15 anni sulla repressione economica esercitata da questo sistema capitalista liberista ed in particolare dalla comunità europea nei confronti dei popoli europei, con incluso l’uso ricattatorio del problema del debito. Un problema che in realtà potrebbe essere reso inesistente proprio dall’emergenza coronavirus. Un ricatto comunque rilanciato, ma poi smentito per la stabilizzazione della moneta e dei titoli finanziari sui mercati, durante la conferenza stampa di Cristina Lagarde in riferimento allo stanziamento di fondi necessari al superamento della pandemia. Un non-errore della Lagarde confermato proprio dal rinvio della commissione europea di 15 giorni per decidere come definire, non la quantità di denaro ma la formula giuridica per attribuire il debito agli stati colpiti dall’emergenza.

Non è corretto dire che il problema del debito è inesistente ma certamente superabile. E dobbiamo dirlo ai lavoratori, evidenziando lo stanziamento di 1100 miliardi di euro emanati dalla Banca Centrale Europea come se nulla fosse. O come la velocità con cui il governo italiano si è mobilitato per ridistribuire, con nuove formule, fondi economici.

Ma non avevano detto che le casse erano vuote e i bilanci dei comuni blindati e che non si poteva avviare investimenti pubblici?

Addirittura sono previsti fondi ai Comuni destinati ad aiutare quelle persone che non lavorano e che non riescono a pagare il conto al supermercato. Per non parlare poi, in questi ultimi due giorni, dei 700 miliardi di euro messi in campo dalla Banca Centrale Statale tedesca per difendere la borghesia imperialista e capitalista della Germania.

Se queste sono le premesse, credo la forma Europa sia seriamente in pericolo. Almeno nella forma con cui sino ad oggi, l’abbiamo conosciuta. Ed è per questo che noi dobbiamo provare, in questa frase, a giocare una partita importante che anche altri hanno evidenziato. Come la questione, per esempio dell’assenza di una forza politica che rappresenti i lavoratori, su cui bisognerà cominciare a riflettere seriamente, anche se non credo sia prioritaria.

Ma oltremodo però, dobbiamo provare ad uscire dal promuovere una politica di sola mobilitazione dei lavoratori. Dobbiamo provare a sfruttare la rottura che vi è in atto tra la cosiddetta borghesia illuminata, in realtà classista, e i salariati. Dobbiamo evidenziare che quel ricatto del debito ha impedito la ridistribuzione della ricchezza nel nostro paese e privilegiato solo le classi capitalistiche nazionali “familiaristiche” ovvero che appartengono alle stesse famiglie oligarchiche, come nel medioevo, i cui amministratori hanno gli stessi cognomi e ruotano all’interno delle consociate legate ai gruppi finanziari privati o dello Stato.

Noi dobbiamo fare in modo che anche i lavoratori riconoscono questa differenza di classe.

Perché lo scontro che è in atto è tra due modelli capitalistici: la forma meritocratica liberale dei paesi occidentalizzati, la cui maggior parte della produzione è affidata al settore privato e quello guidato dallo Stato, rappresentato dalla Cina ma già diffuso in Asia e Africa, dove si privilegiano alti tassi di crescita economica ma che limita i diritti politici e civili delle persone. Uno scontro in atto che non risparmierà nessuno. Soprattutto le classi meno abbienti, che saranno colpite, nel nostro paese, già a partire dalla prossima finanziaria.

Quello che sta avvenendo è un passaggio che da tempo cerchiamo di rendere visivo, e credo che il rilancio della divisione tra sfruttati e sfruttatori e il rapporto con il sistema capitalista in crisi e le istituzioni europee, siano fondamentali anche per rivendicare e guadagnare riconoscimento rispetto a un lavoro che in questi anni è stato fatto. Un nostro comunicare che è stato sempre snobbato sopratutto dai mezzi di comunicazione che oggi si scagliano contro i vertici europei.

Guardate lo scandaloso atteggiamento di questi giorni, dei mezzi di comunicazione, organi da sempre di propaganda della borghesia italiana, contro il rinvio della decisione di aiutarci della Banca Centrale Europea o contro Olanda e Germania in primis

Non abbiamo altra scelta: dobbiamo riempire di contenuti le possibili future mobilitazioni dei lavoratori che riusciremo a mettere in atto. Oggi abbiamo questa possibilità e dobbiamo sfruttarla fino in fondo fornendo una sponda politica importante perché i lavoratori sono spaventati e non sanno cosa li aspetta. Un momento pericoloso anche perché quando regna la paura, la destra è sempre riuscita ad essere egemonica.

Noi non possiamo permettere che, una volta tornati a riavviare le fabbriche, si aumentino i ritmi e il pericolo di nuovi e gravi morti sul lavoro, per recuperare il fatturato “perduto”. Una corsa inutile per il popolo, perché da una crisi di sovrapproduzione e di saturazione dei mercati non è possibile uscirne nell’immediato, senza investimenti pubblici, patrimoniale e ridistribuzione della ricchezza.

*Potere al Popolo, Modena

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *