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Chiamarlo “distanziamento sociale” non è un errore

Semmai è un lapsus. Come tutti sanno, Freud sosteneva che i lapsus in realtà sono un vero e proprio segnale veritiero che la psiche ci trasmette. E infatti aver chiamato distanziamento “sociale”, invece che “personale” gli obblighi che abbiamo dovuto adottare ha creato molte perplessità.

In realtà, mettere un metro di distanza tra i corpi, coprire naso e bocca con una mascherina, mettere i guanti per non toccare quello che hanno toccato gli altri, non sarebbe una presa di distanza dal nostro essere individui sociali.

Anzi, mascherine, guanti e distanze dovrebbero essere intesi come rispetto e valorizzazione della socialità: la mia voglia di stare cogli altri si manifesta col rispetto che ho per chiunque io, pur non volendo, potrei contagiare. A costo di una certa solitudine, momentanea, ma finalizzata alla tutela del benessere collettivo. Sociale, appunto.

Ma le cose, a ben vedere, quando escono dalla teoria, ed entrano nella pratica, diventano molto più precise. Precise e taglienti, come una coltellata alla nostra coscienza.

Mi spiego: per paura del contagio da Coronavirus, noi abbiamo preso le distanze non dalla socialità, ma dai problemi sociali che Covid-19 ha fatto emergere e ci sta sbattendo in faccia, con mascherina o senza.

Ogni giorno di questa lunga quarantena, centinaia di anziani sono morti, a casa o nelle cosiddette Rsa, che – diciamocelo – sona una sigla dietro alla quale nascondere l’ottocentesca definizione di “ospizio”.

Insomma, abbiamo scoperto quello che sapevamo, cioè che la medicina di base non funziona, che l’assistenza è trattata male. Chi in questa quarantena ha tentato di farla funzionare, è morto: troppi medici, paramedici e inservienti sono morti, come troppi sono i morti tra i loro pazienti.

A questo punto vi starete chiedendo che c’entra tutto questo con la definizione “distanziamento sociale”? Ecco la risposta: le politiche sociali degli anni dell’euforia modernista, del “meno stato più mercato”, del “privatizziamo per efficientare”, dei tagli alla “spesa improduttiva”, furono l’avvio del “distanziamento sociale” verso la cura e l’assistenza pubblica.

Il “distanziamento sociale” dalla difesa dei diritti in generale, del diritto alla Salute in particolare.

Poi è arrivato Covid-19, l’esattore che chiede di onorare il patto a un Faust collettivo, quello che ha venduto l’anima alle diavolerie liberiste.

Ecco che siamo disorientati. Facciamo finta si tratti di una tragica fatalità, che colpisce quelli che non ce l’hanno fatta. Ma quelle morti d’asfissia tra le lenzuola di un letto, di annegamento nell’acqua dei propri polmoni, e di solitudine e terrore dell’abbandono, non sono una fatalità. Non sono inefficienze o scandali di questa o quella casa di riposo.

Sono il “distanziamento sociale” cui abbiamo condannato gli anziani, disinteressandoci delle loro materiali condizioni e dei loro diritti, mentre andavamo al centro commerciale a godere della modernità della merce e della felicità dello spreco di tempo, di denaro.

Storditi dal consumismo come troppo a lungo siamo stati, siamo stati ingaggiati dall’inconsapevolezza che quello che ci stava succedendo intorno era ingiusto, sbagliato, criminale.

Abbiamo scelto di essere consumatori, abbiamo abdicato all’essere cittadini. E vennero imprenditori senza scrupoli, e politici senza ideali. Li abbiamo lasciati fare, sperando che qualcosa ce ne venisse in tasca. Invece, c’è chi si è arricchito con la sanità privatizzata e chi di quelle privatizzazioni ci sta ancora morendo.

Perché la ricchezza mal distribuita non è una fatalità, è una patologia storica che si chiama capitalismo. Non è qualcosa che a noi non ci tocca, è un fatto politico e sociale, certo e inesorabile, come il numero dei morti che ogni maledetta sera ci viene snocciolato come un rosario.

Da quei decessi e dal lutto dei loro cari oggi possiamo cavarcela dando la colpa al Coronavirus. Ma non possiamo più praticare il “distanziamento sociale” dallo stato in cui versa la Sanità pubblica.

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