Menu

Farsi commissariare dalla Troika. Il sogno dei banchieri italiani

Sabato scorso Il Sole 24 Ore ha aperto con una lunga intervista a Carlo Messina, Ceo di Intesa Sanpaolo. Si tratta di ben due pagine in cui Messina esplicita tutto ciò che pensa rispetto alla crisi economica ed espone il suo piano in 5 punti per farvi fronte.

Si tratta probabilmente del contributo più interessante uscito in queste settimane dopo il lungo editoriale di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo.

È interessante per due motivi: innanzitutto perchè pochi come Messina sono in grado di sapere effettivamente come stanno le cose e poi, in secondo luogo, perché a parlare è uno degli uomini più influenti d’Italia.

Proviamo a darne una lettura critica, tenendo ben presente che a parlare non è un commentatore disinteressato ma un manager che è pagato diversi milioni di euro all’anno per fare gli interessi non delle cittadine e dei cittadini ma degli azionisti della più grande banca italiana.

IL DEBITO PUBBLICO È UNA SCELTA OBBLIGATA?

Cominciamo riportando questo estratto:

“In particolare, aggiungerei interventi a fondo perduto. I finanziamenti possono andare bene per superare le difficoltà del momento ma poi sono debiti, sia pure garantiti dallo Stato, che vanno restituiti.”

Messina in buona sostanza è perfettamente in linea con Mario Draghi: il pubblico dovrà assorbire in parte o in tutto il debito del settore privato (secondo lui in forma indiretta per mezzo di sovvenzioni).

Come testimoniano le parole di Messina non siamo difronte a un problema di liquidità ma di solvibilità e se lo Stato non interviene molte aziende sono destinate a fallire.

La cosa curiosa è che Messina non fa alcun riferimento alle nazionalizzazioni ma parla di “interventi a fondo perduto” senza prevedere alcuna condizionalità.

Sia per ragioni di carattere etico ma soprattutto di carattere pratico non vediamo possibile che i soldi della collettività vadano erogati a fondo perduto senza vincoli e certezze relativi al loro impiego e senza avere il controllo sulle scelte aziendali.

Se si decide di socializzare i debiti va socializzata anche la proprietà.

Se lo Stato volesse sostenere le imprese a fondo perduto avrebbe bisogno di risorse che, secondo il Ceo di Intesa Sanpaolo, vanno reperite necessariamente con un’espansione del debito pubblico. Infatti, afferma Messina:

“L’utilizzo del debito pubblico per contrastare l’emergenza sanitaria e garantire il finanziamento dell’economia reale è una scelta obbligata, ma non può essere la risposta definitiva. Dobbiamo e possiamo creare i presupposti per evitare di andare verso livelli eccessivi di rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo: impegniamoci per uscire dalla crisi con una prospettiva di rilancio della economia. Il momento di agire è ora.”

Ma chi l’ha detto che il debito pubblico sia una “scelta obbligata”? Su questo torneremo più avanti.

Messina sa che il travaso del debito dal privato al pubblico comporta lo spostamento del rischio insolvenza dalle imprese allo Stato e quindi prospetta 5 punti per far fonte a questo ulteriore aggravio di bilancio.

La premessa al suo piano è la seguente:

“Il nodo cruciale è il debito pubblico. Anche nel caso di un rimbalzo notevole del prodotto interno lordo nel 2021 e di una stabilizzazione della crescita intorno all’1-2 per cento. Sarebbe un bel risultato. Impossibile fare meglio considerando i nostri fondamentali, a partire dall’anagrafe, perché l’Italia è un Paese con un numero sempre maggiore di anziani e un indice di natalità molto basso. Tuttavia dobbiamo essere consapevoli che, anche raggiungendo tale livello di crescita, da considerare un successo, il debito pubblico resterebbe comunque elevato. Come cercare di neutralizzarlo? In questa situazione non si può imporre alle famiglie italiane, anche a quelle con redditi da 100 mila euro, di pagare dazio con prelievi tipo imposte patrimoniali o sul reddito. Ugualmente non è accettabile pensare di fare affidamento soltanto alle soluzioni attualmente in discussione sui tavoli europei. Dobbiamo lavorare a misure in grado di farci ripartire basandoci sui punti di forza che abbiamo e che resteranno. Non possiamo pensare di uscire dalla crisi senza sciogliere nodi strutturali accumulati da decenni e mutualizzando il nostro debito a livello europeo. Non credo che gli altri Paesi siano disposti a farlo e non sarebbe neppure giusto.”

Insomma se pure le cose dovessero volgere al meglio nel 2021 la situazione resterebbe comunque grave.

Nonostante ciò, la prima cosa che fa Messina è esplicitare la sua contrarietà a qualsiasi ipotesi di patrimoniale. Ha questa urgenza perché anche lui intuisce che sarebbe la cosa più ovvia da fare per neutralizzare istantaneamente un ulteriore aumento del debito pubblico.

Ora, si potrebbe pensare che Messina si opponga alla patrimoniale semplicemente perché è ricco e non vuole che lo Stato gli metta le mani in tasca. Più probabilmente, oltre a questo, Messina ha delle ragioni di carattere professionale. La prima: una delle principali voci di profitto per le banche è data proprio dalla gestione dei patrimoni… capirete bene che il Ceo di una grande banca non può che esser contrario ad una loro riduzione, seppur minima.

In secondo luogo, come vedremo in seguito, tutto il suo piano si fonda su una poderosa riallocazione della ricchezza privata delle famiglie italiane (in particolare da conti correnti a strumenti finanziari), riallocazione da fare ovviamente per mezzo delle banche che guadagnerebbero non poco da questa operazione.

Interessante è anche il suo realismo rispetto a possibili soluzioni frutto di un negoziato con i partner europei che – su questo la sua opinione è condivisibile – non saranno mai disposti a mutualizzare il debito.

Meno condivisibile – anzi! – è l’idea che abbiano ragione gli altri paesi. Si dimentica, il signor Messina, ciò che è stato fatto rispetto ai debiti della Germania nel 1953 e, successivamente, nel momento della riunificazione. E dimentica anche che l’Olanda ha prosperato in questi anni fungendo da paradiso fiscale all’interno dell’Ue ed aiutando le grandi imprese ad eludere di fatto il fisco. Ciò ha determinato per molti paesi, compresa l’Italia, minori entrate ed aggravato ulteriormente la condizione dei loro bilanci.

Insomma: la mutualizzazione dei debiti sarebbe legittima e potrebbe configurarsi come una sorta di compensazione rispetto a scelte passate che hanno avvantaggiato alcuni e non altri.

DI CHI È IL DEBITO PUBBLICO?

Procediamo seguendo il ragionamento di Messina:

“La priorità è mettere in campo tutte le iniziative possibili per riportare il debito pubblico sotto controllo.
L’Italia è ricca, molto più dell’Olanda e della stessa Germania. Stiamo parlando di 10 trilioni di euro, tra risorse delle imprese e risparmi delle famiglie. Il problema è che soltanto una parte minima risulta investita in titoli del debito pubblico italiano. In totale solo il 4% dei titoli di Stato è nei portafogli delle famiglie italiane. È da qui che occorre cominciare per una svolta”

Messina dice una verità e una mezza verità.

La verità è che le famiglie italiane (non tanto le imprese) hanno una ricchezza privata netta enorme superiore a quella di tedeschi e olandesi anche se concentrata nelle mani di pochi. Diamo qualche numero, per capirci: la ricchezza finanziaria – che Messina mette al centro del suo piano – è il 40% circa del totale ed è nelle mani solo del 20% delle famiglie (all’interno di queste circa la metà possiede gran parte delle risorse).

Fa bene Messina a sottolineare questo dato, solitamente taciuto o relegato alle analisi di noi “cattivi” che proponiamo la patrimoniale come strumento per fronteggiare questa crisi.

La mezza verità invece è che le famiglie detengono solo il 4% dei titoli di Stato. Questa percentuale, che rappresenta i titoli detenuti direttamente dai privati, è in realtà molto più alta. Gli italiani infatti posseggono quote di fondi di investimento, fondi pensione e polizze assicurative che in portafoglio hanno tanti titoli di Stato italiani. Il debito pubblico è detenuto “solo” per 1/3 da investitori esteri.

Questo non vuol dire i restanti due terzi siano in mano a fondi e assicurazioni nostrane, perché tra i domestici ci sono anche Banca d’Italia, altri istituti bancari, etc., ma di sicuro parliamo di volumi ben superiori al 4%, che ragionevolmente si possono stimare intorno al 15-20%.

Messina dice una cosa sbagliata, e lo fa consapevolmente: il suo obiettivo è alimentare una narrazione che possa supportare le proposte che si appresta a fare.

È il caso di ricordare che, dalla seconda metà degli anni ’90, gli italiani hanno progressivamente e sempre più massicciamente abbandonato gli investimenti in titoli di Stato. Lo hanno fatto proprio su consiglio delle banche che hanno dirottato il risparmio verso il gestito, per loro ben più remunerativo dell’amministrato.

IL PIANO DI MESSINA: UN FILM GIA’ VISTO

  1. INDEBITARSI ANCORA (TANTO PAGA CHI LAVORA)!

Arriviamo alle proposte vere e proprie di Messina:

“Va messo a punto un nuovo strumento finanziario che serva al Paese per reggere l’urto dei mercati. Occorre creare le condizioni affinché gli italiani si convincano a spostare parte della loro ricchezza verso l’acquisto di titoli che potremmo chiamare bond sociali. Così ci sarebbe la possibilità, concreta, di far salire dal 5 al 10-20%la parte del debito pubblico controllata dal risparmio privato italiano.”

Ad essere onesti ci aspettavamo qualcosa di più originale. In pratica per finanziare il nuovo debito lo Stato non dovrebbe ricorrere esclusivamente ai mercati, o agli strumenti vecchi e nuovi dell’UE, ma soprattutto ai ricchi italiani.

Per “creare le condizioni” Messina intende che questi nuovi bond devono essere caratterizzati da “rendimenti competitivi e sgravi fiscali”.

Al di là della difficile realizzabilità sotto il profilo normativo (la tassazione per i titoli di stato è al 12,5%, ben più bassa del 26% applicata alle altre rendite finanziarie, in virtù di un accordo OCSE che riguarda le emissioni di tutti i paesi e non solo dell’Italia, per non parlare poi di adeguatezza e concentrazione) non torna il motivo per cui questo debito possa risultare maggiormente sostenibile rispetto a quello contratto attraverso altri canali.

È evidente che c’è un non-detto nel piano di Messina.

Se si riconoscono rendimenti competitivi, ovvero più alti del normale, e si prevedono sgravi fiscali, quindi minor gettito, è ovvio che il costo del debito diventi più elevato.

Quale sarebbe allora la convenienza?

La premessa che non fa Messina, probabilmente per non spaventare i futuri acquirenti di titoli di Stato, è che, alla luce di quanto dice lui stesso, il nostro paese sarà a breve fuori mercato. Questi fantomatici rendimenti competitivi sarebbero comunque più bassi di quelli che si dovrebbero riconoscere per reperire le risorse necessarie sui mercati. Il concetto di competitivo quindi viene meno perché non esiste in senso assoluto ma solo se parametro e messo in relazione al rischio dell’emittente.

L’altro dato è che a prescindere dalla spesa per interessi in questo momento – e a maggior ragione in futuro – il problema grosso è costituito dal rimborso del capitale. Per ovviare a ciò, l’unica possibilità è che chi detiene i titoli di Stato, a scadenza, proceda al rinnovo. Ma per esser certi di questo serve un obbligo in tal senso, altrimenti il rischio è di ritrovarsi in una situazione ancor più insostenibile.

Noi saremo anche d’accordo con quest’ultima ipotesi, ma è evidente che ci troviamo davanti ad un’altra proposta ancora, e Messina si guarda bene dall’esplicitarlo.

Insomma, quello che davvero è inquietante è che, per l’ennesima volta, ci troviamo davanti a una riproposizione di quanto avvenuto in passato. Si configura lo stesso perverso meccanismo che ha portato nei decenni passati ad un aumento esponenziale del debito pubblico e contemporaneamente all’arricchimento di una piccola parte della popolazione.

Con questa soluzione i ricchi sarebbero sempre più ricchi grazie a rendimenti e sgravi mentre il resto della popolazione vedrebbe gravare sulle proprie spalle una mole ancor più enorme di debito pubblico che si potrebbe ripagare solo con politiche di moderazione salariale e tagli alla spesa sociale.

  1. RIPULIRE CAPITALI ILLECITI

E purtroppo il programma di Messina non si ferma a questo.

“Rendimenti competitivi, sgravi fiscali, scudo penale per chi trasferisce capitali dall’estero trasformandosi da esportatore di capitali in propulsore della ripresa e dell’accelerazione della crescita italiana. Ci sono ancora 100-200 miliardi di euro dei risparmiatori italiani fuori dall’Italia. Ora è arrivato il momento di farli rientrare. I possessori potrebbero così dimostrare di credere nel proprio Paese. Destinare queste risorse all’acquisto dei bond sociali e al rifinanziamento delle imprese sarebbe un gesto apprezzabile e apprezzato.”

A leggere bene c’è da restare basiti.

Dal 2008 in poi gli Stati, per necessità di bilancio, sono stati costretti ad adottare una seria politica di contrasto ai reati fiscali. Con firma nel 2014 e la ratifica successiva da parte di quasi 100 paesi del Common Reporting Standard (Crs) elaborato in sede OCSE e la sua operatività già in circa 50 Stati è iniziato lo scambio di informazioni che permette di sapere praticamente tutto rispetto ai capitali detenuti all’estero. Il Crs, unito alle normative antiriciclaggio sempre più stringenti e agli innumerevoli accordi bilaterali, ha posto fine ad un’epoca in cui allegramente si occultavano all’estero i capitali con estrema facilità.

Prima che tutto ciò entrasse in funzione, gli Stati hanno concesso generosissimi condoni per regolarizzare le posizioni. In Italia abbiamo avuto lo Scudo Fiscale e la Voluntary Disclosure, vere e proprie ingiustizie che gridano vendetta.

Ora, come dice Messina, restano fuori dall’Italia solo tra i 100 e i 200 miliardi (tra l’1% e il 2% della ricchezza totale italiana). La cifra potrebbe essere ancor più precisa proprio in virtù delle informazioni in possesso delle autorità, evidentemente Messina usa una forbice così grande proprio perché vuole includere anche una parte di quanto nascosto nelle cassette di sicurezza.

Coloro che detengono questa ricchezza sono quelli che hanno valutato di non utilizzare i condoni precedenti, presumibilmente non tanto per ragioni di convenienza fiscale ma perchè hanno reputato che lo scudo penale previsto non gli garantisse abbastanza tutele. Ciò lascia immaginare che tali ricchezze siano frutto di attività illecite particolarmente gravi.

Messina, con molto cinismo, immagina di sfruttare questa situazione per costringere questi soggetti a riportare i capitali in Italia. Il patto proposto è semplice: voi sottoscrivete i bond sociali e/o rifinanziate le imprese e noi vi assicuriamo uno scudo penale ancor più ampio rispetto al passato.

È una proposta inaccettabile sotto il profilo etico e pratico.

In primis etico, perché davvero stiamo ragionando di personaggi criminali, non vogliamo nemmeno immaginare di cosa siano frutto quei soldi se addirittura non bastavano a farli stare tranquilli le immunità precedenti…

E poi pratico e molto concreto: ora abbiamo strumenti e informazioni per perseguirli, perché non farlo? Anche se per recuperare il dovuto ci vorrà un po’ di tempo.

Certo, alle banche deve fare molta gola l’idea che arrivino 100-200 miliardi su conti di clienti a cui obbligatoriamente far sottoscrivere prodotti come questi fantomatici social bond, per tutti gli altri questo non può essere abbastanza da passar sopra o tacere della provenienza di queste somme.

Messina passa poi alle imprese con sede legale all’estero:

“Nello stesso filone c’è il capitolo delle aziende che hanno trasferito la sede all’estero per ottenere vantaggi fiscali. L’emergenza sociale e l’aumento della disoccupazione rappresentano l’opportunità di voltare pagina riportando queste aziende in Italia. È l’occasione per affermare l’orgoglio di essere italiani.”

Onestamente ci fa sorridere questo patriottismo che dovrebbe emergere a fronte di incentivi, sarà che siamo inguaribili romantici…
In realtà il problema posto sarebbe di facile risoluzione senza ricorrere a incentivi.
Basterebbe entrare in maniera significativa, grazie alla deroga prevista in ambito UE agli aiuti di Stato, nel capitale di queste società e a quel punto imporre il trasferimento della sede legale.

Saremmo poi curiosi di sapere se le sussidiarie di Intesa Sanpaolo con sede legale in Lussemburgo o a Londra sono funzionali ad esigenze di carattere meramente operativo o sono anche finalizzate ad una sorta di ottimizzazione fiscale… magari Messina ci risponde!

  1. TFR E PATRIMONIO PUBBLICO: CI GUADAGNANO LE BANCHE!

Le proposte di Messina riguardano anche i tfr delle lavoratrici e dei lavoratori:

“La terza manovra è semplice. In Italia vengono accantonati ogni anno 26 miliardi di Tfr, i trattamenti di fine lavoro. Perché non creare le condizioni affinché una parte venga investita in titoli pubblici esentasse?”

Qua è bene fare chiarezza perché quanto afferma Messina è assai ingannevole. Dal 2007 le lavoratrici e i lavoratori possono decidere di lasciare il proprio Tfr in azienda o destinarlo a forme di previdenza complementare.

Nel primo caso, se l’impresa ha meno di 50 dipendenti effettivamente il tfr rimarrà in azienda e sarà rivalutato annualmente dell’1,5% più il 75% dell’inflazione. Queste somme costituiscono una forma di liquidità a basso costo per le Pmi. Liquidità che altrimenti sarebbero costrette a richiedere alle banche.
Se invece l’azienda ha più di 50 dipendenti il Tfr viene accantonato presso un fondo tesoreria gestito dall’Inps che riconosce la medesima rivalutazione. Anche in questo caso le somme non restano ferme ma, come previsto dalla legge istitutiva, vengono impiegate per esigenze di finanza pubblica. Proprio come fanno le aziende,
lo Stato utilizza gli accantonamenti del Tfr come liquidità, evitando così di ricorrere ai mercati, emettendo obbligazioni e aumentando il debito pubblico.

Dei 26 miliardi di Tfr, circa il 25% viene destinato a fondi pensione, il 30% va al fondo tesoreria e il restante 45% rimane nelle casse delle Pmi.

Poichè i fondi pensione hanno già in portafoglio molti titoli di Stato, presumiamo che Messina si riferisca alle altre due voci.

Riguardo alle somme depositate presso il fondo tesoreria non ha alcun senso utilizzarle per sottoscrivere titoli di Stato perchè sono già destinate a esigenze di finanza pubblica. Sarebbe un’operazione a perdere tranne, guarda caso, che per gli intermediari, cioè le banche.

Venendo invece a quanto sta in mano alle Pmi, ci pare francamente assurdo pensare di sottrarre in questo momento liquidità. Anche in questo caso le uniche a guadagnarci sarebbero le banche a cui le piccole e medie imprese dovrebbero far ricorso per compensare questo ammanco di risorse.
Inoltre, seppure si dovesse decidere in tal senso, al massimo
si potrebbe pensare di destinare anche quella parte al conto tesoreria e non certo all’acquisto di obbligazioni. Tali obbligazioni con tutta probabilità dovrebbero riconoscere rendimenti ben superiori alle rivalutazioni previste per legge e soprattutto da un punto di vista contabile non farebbero altro che accrescere la mole di debito pubblico.

Anche in questo caso quella di Messina pare una proposta tagliata su misura per le banche e non certo pensata per fare gli interessi della collettività. Riprendiamo il filo:

“E ancora. Perché non lanciare un piano per la valorizzazione del patrimonio dello Stato e degli enti locali?
Il progetto c’è e l’ho suggerito da tempo, senza particolare successo. Eppure la quarta manovra, il lancio di titoli che abbiano come sottoscrittori sia investitori istituzionali sia famiglie e come sottostante immobili pubblici (scuole, caserme, sedi della pubblica amministrazione), permetterebbe di alleggerire il bilancio dello Stato con un altro effetto importante: avvicinare i cittadini al patrimonio immobiliare locale, che con le risorse raccolte potrebbe essere risanato e migliorato.”

Fermi tutti!

Abbiamo capito bene?

Sta dicendo di fare una cartolarizzazione che ha come sottostante scuole, caserme e sedi della pubblica amministrazione?

In pratica lo Stato vende a privati, non meglio specificati, gli immobili di sua proprietà a cui poi, immaginiamo, dovrà un giorno riconoscere un canone di locazione.

Messina ha uno strano concetto di “avvicinare i cittadini al patrimonio immobiliare locale”.

È un po’ come vendersi la casa dove si abita per poi pagare un fitto, una roba da chi sta alla canna del gas e ha bisogno immediato di liquidità.

Ovviamente non è un caso che per fare un’operazione finanziaria del genere ci si deve appoggiare necessariamente alle banche che hanno il compito di collocare le obbligazioni derivanti dal processo di cartolarizzazione. Anche qui niente di nuovo: già Tremonti ai tempi di zio Silvio l’ha fatto ed è finita malissimo tranne che per gli intermediari.

  1. SBLOCCARE GLI INVESTIMENTI, MA PER CHI?

“La quinta manovra da fare è sbloccare gli investimenti su più fronti.

Quali?
Ne ricordo due. Ci sono 150 miliardi di fondi pubblici già contabilizzati per interventi sulle infrastrutture e nell’edilizia ma prigionieri della burocrazia. Faccio l’esempio dei porti, che vanno rafforzati perché sono decisivi per i collegamenti con la Cina e l’estremo Oriente. Attiviamoci oggi. Se ci pensiamo tra un anno sarà tardi perché, nel frattempo, avremo perso quote di mercato importanti a vantaggio degli altri porti europei. L’altro filone da incentivare sono i 150 miliardi di euro per promuovere la green economy, per la sostenibilità ambientale dei progetti di crescita. Non è possibile che non si riesca a farlo, che non si riesca a mettere queste risorse a disposizione di un processo di accelerazione della ripartenza. Aggiungo che, come Intesa Sanpaolo, siamo pronti a finanziarli. Sarebbe una spinta formidabile per il Paese.”

Pure questa l’abbiamo già sentita mille volte…

Soldi già stanziati che le istituzioni non riuscirebbero a spendere a causa di intoppi burocratici.

Il problema è che spesso quelli che fanno questo discorso confondono la burocrazia con la democrazia. Un po’ come ai tempi dello Sblocca Italia di Renzi dove il problema era la volontà popolare delle comunità che vivono nei luoghi in cui si pensa di realizzare ecomostri più che infrastrutture realmente utili.

Parlano di deregulation o cose del genere, che tradotto significa realizzazione di grandi inutili opere e mano libera a speculatori in barba alle normative ambientali e alla sicurezza di cittadini e lavoratori.

Lavorare per una transizione ecologica significa che i fondi a disposizione vanno allocati con cura, controllando che non vadano semplicemente a gonfiare le tasche dei soliti noti.

“Siamo uno dei Paesi più ricchi al mondo, con un tema aperto: assicurare la sostenibilità del debito per dare una spinta alla crescita. Le cinque manovre valorizzano i punti di forza dell’Italia, permettendoci di trovare una via di uscita ed evitando di fare eccessivo affidamento alla Bce. Il progetto Italia è necessario per il futuro del Paese e può valere più degli eurobond. Il risultato sarebbe certo: il dimezzamento dello spread. Uno scenario ideale per scatenare la vera forza italiana: la piccola e media impresa che, quando il mondo ripartirà, ha le carte in regola per riprendere spazi vitali e regalarci soddisfazioni adeguate. Le imprese italiane hanno fatto un lavoro eroico e, se bene orientate, permetteranno una ripresa che potrà risultare eccezionale.”

Se c’è una cosa su cui c’è quasi unanimità tra gli analisti è che il problema è proprio la piccola e media impresa. Nello scenario globale le Pmi sono impossibilitate a competere perché a causa della loro dimensione non riescono ad essere efficienti, ad investire in ricerca e sviluppo e tra le altre cose ad accedere al credito. Sono destinate ad essere schiave di qualcun’altro e ad accettare silenziosamente le condizioni imposte dai giganti.

Nonostante ciò, non c’è da stupirsi se il Ceo della prima banca italiana non si ponga nell’ottica di favorire aggregazioni e razionalizzazioni. A causa della loro dimensione le imprese italiane, infatti, sono bancocentriche e non riescono ad accedere ad altre forme di finanziamento. Hanno quindi scarso potere contrattuale nei confronti delle banche, soprattutto le grandi. Una situazione ideale per gli istituti di credito ma non certo per le imprese che anche in questo caso sono costrette a subire.

Come si suol dire: meglio cento piccoli clienti che uno grande.

L’OMT, LO SPETTRO DEL COMMISSARIAMENTO

Messina conclude in bellezza:

“Il punto chiave è l’utilizzo del Mes per investimenti nella sanità. Se veramente sono 36 miliardi di euro ottenibili dall’Italia senza condizioni perché non utilizzarli? Una possibilità potrebbe passare dal loro impiego per sottoscrivere titoli pubblici a condizioni di mercato. Sarebbe ideale in quanto permetterebbe di agganciare il programma Omt (l’acronimo della definizione inglese Outright monetary transactions, annunciato dalla Bce sotto la presidenza di Mario Draghi, nell’agosto 2012, ndr), che dura tre anni e ha il vantaggio di non avere limiti quantitativi. Ciò contribuirebbe a stabilizzare lo spread e a disinnescare la speculazione”

Siamo davanti a un capolavoro: con queste parole Messina contraddice nei fatti tutto quello che ha detto in precedenza. Durante l’intervista ostenta ottimismo, parla di situazione difficile ma non disperata, della possibilità di governare il processo e addirittura di approfittarne per rilanciare e avviare un percorso di crescita stabile e duraturo. Tutte cose che sono tecnicamente incompatibili con il programma Omt.

L’Omt, per chi non lo ricorda, è l’arma finale annunciata da Draghi nel famoso discorso del luglio 2012, in cui pronuncia il celeberrimo “Whatever it takes”. Si tratta della possibilità da parte della Bce di acquistare illimitatamente sul mercato secondario titoli di stato di breve durata di un singolo paese.

L’Omt è pensato per far fronte a crisi di fiducia da parte dei mercati nei confronti di un singolo Stato, crisi di tale portata da rendere insostenibile il finanziamento per il paese stesso, per le banche e le imprese. Stiamo parlando di una situazione simile a quella della Grecia per intenderci. Per accedervi serve che vi sia una situazione “grave e conclamata” provata dal fatto che il paese abbia sottoscritto un accordo con il Mes di aggiustamento macroeconomico. In parole povere bisogna farsi commissariare proprio come avvenuto ai tempi della Troika ad Atene.

Se uno come Messina parla di Omt significa che qualcuno, aldilà delle dichiarazioni di facciata, sta già lavorando a questa ipotesi. Non è da sottovalutare.

Un’ipotesi che è la peggiore possibile perché come insegna l’esperienza greca si concretizza necessariamente in un massacro sociale.

Grazie alle parole di Messina abbiamo la conferma che i 36 miliardi del Mes per le spese sanitarie sono solo un cavallo di Troia che serve a portarci all’Omt.

C’è un solo modo per far sì che i sogni di banchieri e miliardari non si trasformino nel nostro peggior incubo: costruire da subito un movimento popolare che rispedisca al mittente le false alternative (aumento del debito pubblico smisurato, bond, Mes) e ponga con forza al centro l’unico tema urgente: la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso!

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

1 Commento


  • alessandro terzi

    patrimoniale e cospicua!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *