Il presidente della Confindustria Carlo Bonomi ha scritto una lettera ai capi delle sue associazioni locali e di categoria per celebrare i cento giorni del suo mandato.
Quel testo è una dettagliata ricapitolazione di tutte le più sfacciate, inique, miserabili e anche sciocche prepotenze di un padronato tra i più ottusi e dannosi d’Europa, degnamente rappresentato da un piccolo finanziere milanese laureato alla Bocconi.
Bonomi chiede la libertà di licenziamento, la fine della cassa integrazione e del reddito di cittadinanza, nuovi tagli alle pensioni e a ciò che resta del sistema sociale pubblico e poi soldi, soldi, soldi alle imprese, naturalmente senza vincoli e senza controlli: lo Stato paga e poi si ritira.
Del resto i padroni meritano, non sono forse stati in prima fila nel fermare il Covid? Sì, Bonomi lo sostiene e aggiunge indignato che solo inaccettabili pregiudizi antindustriali possono far credere che le imprese abbiano imposto di non fare le zone rosse e non abbiano posto la salute prima del profitto.
Fin qui l’ingordigia spudorata a danno del paese, che porta agli estremi tutto ciò che da più di trent’anni i padroni vogliono e spesso ottengono: che il sistema pubblico sia al servizio dei loro affari privati.
Ma la protervia delirante del presidente degli industriali raggiunge l’apice sui contratti, che il nostro vorrebbe rivoluzionari. Sì, è proprio questa la parola usata.
Ora noi sappiamo che a volte il termine “rivoluzione” viene usato per definire il suo esatto opposto. Il fascismo proclamava la propria rivoluzione. Reagan e Thatcher, negli anni ottanta del secolo scorso, lanciarono la “rivoluzione liberista”, in realtà anticipata qualche anno prima da Pinochet.
La parola “riforma” oggi spesso significa il suo contrario, cioè controriforma, come sanno bene lavoratori e poveri, che appena sentono quella parola si chiedono cosa gli verrà portato via. E lo stesso vale per la parola “rivoluzione” quando la maneggiano ricchi e padroni: essa significa in realtà controrivoluzione reazionaria.
E questo è esattamente ciò che vorrebbe Bonomi, che chiede “contratti rivoluzionari” che superino – testuali parole- “lo scambio novecentesco salario orario”; e che per questo ha bloccato i rinnovi contrattuali per dieci milioni di lavoratori.
In realtà lo scambio che Bonomi vuole abolire è più antico del secolo scorso. È con la rivoluzione industriale del settecento che gli operai cominciano a ricevere una salario, di fame, per una montagna di ore lavorate. Prima di allora chi lavorava o era schiavo o servo della gleba.
Come si sa, anche il comunismo pensa al superamento del lavoro salariato, in una società di eguali dove ognuno possa accedere liberamente a ciò di cui ha bisogno. Ma francamente non pare che la “rivoluzione” di Bonomi abbia a che vedere col comunismo, anche se non è escluso che incontri qualche intellettuale postmoderno ben retribuito che la imbelletti così.
Siccome è da escludere che Bonomi voglia rinunciare all’orario di lavoro, è probabile che egli chieda ai lavoratori di non ricevere più il salario. Cosa per altro che già avviene con lo stage e forme simili di lavoro gratuito: non sei già contento di avere un lavoro, mica pretenderai anche un salario?
La proposta di Bonomi di superare il salario-orario, mentre si rivendica la piena libertà di licenziamento, ha un solo scopo e risultato: lo schiavismo.
Del resto non è un imprenditore milanese, anch’egli bocconiano, quel Guglielmo Stagno D’Alcontres che nella sua modernissima e pluripremiata “azienda bio” sfruttava come schiavi i migranti, di cui si proclamava razzialmente il “maschio dominante”?
È questa criminalità imprenditoriale dilagante il brodo di coltura della controrivoluzione di Bonomi, che nel nome della modernità vuol tornare nel Medio Evo e che può proclamare le sue follie reazionarie solo perché da decenni la politica italiana si genuflette di fronte ai padroni e alle loro mascalzonate.
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