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Elezioni da panico

Cancellando il “modello sociale europeo” del dopoguerra, fondato sul “patto tra i produttori” e il “compromesso socialdemocratico”.

In questo scenario, dunque, l’attuale governo italiano rappresenta l’avanguardia della reazione in marcia. Quando i vari leader nazionali della Ue ripetono che le “riforme strutturali” – fatte approvare da un Parlamento di nominati sotto ricatto – sono “impressionanti”, dicono la verità. Quel che è stato fatto dal governo “tecnico” in 10 mesi, qui da noi, va al di là dei sogni più sfrenati per il capitale multinazionale basato in questo Continente.

Siamo ancora una volta il “laboratorio degli orrori” in cui la vecchia Europa sperimenta il suo passaggio al futuro. Fu così per il fascismo e la ragione – questa sì – strutturale va cercata nella composizione di classe del nostro paese, nella natura di una classe dirigente al cui interno la borghesia liberale, l’imprenditoria “normale”, ha sempre rappresentato una componente minoritaria. Rispetto ai latifondisti un secolo fa, ai costruttori e subappaltatori oggi. Con le banche nel frattempo passate dal controllo pubblico alla privatizzazione piena. Non è dunque la ripetizione dell’esperimento fascista, ma un nuovissimo esperimento in corpore vili. Il nostro.

Che sia persino “troppo avanti” per la classe dirigente europea attuale lo si capisce dalla solenne bocciatura della direttiva anti-sciopero che porta il suo nome (“Monti 2”, quando era ancora commissario europeo, nel 2010). Circostanza che non gli ha impedito di rilanciare, a sole ventiquattro ore di distanza, l’attacco contro lo Statuto dei lavoratori, per indicare il terreno privilegiato della governance a venire.

Il suo problema – il problema del capitale sovranazionale – è garantire la continuità del programma messo in opera. Le imminenti elezioni politiche e l’inconsistenza della classe politica italiana fanno balenare all’orizzonte il “rischio” che qualcosa, su questa strada, possa deragliare.

Dal punto di vista degli impegni sottoscritti con l’Europa, in effetti, la preoccupazione sembra persino eccessiva: l’approvazione del Fiscal Compact e il “pareggio di bilancio” inserito a forza nella Costituzione garantiscono una gabbia solida intorno alle possibilità di manovra di qualunque governo futuro. Monti vorrebbe aggiungerci anche un “patto per la produttività”, da siglare con i sindacati prima del Consiglio europeo del 19 ottobre. Cisl e Uil gli hanno già detto di sì; la Cgil ha preso tempo per cercare di capire quanto il Pd ritenga indispensabile anche questo fardello pur di accreditarsi come credibile continuatore dell’”agenda Monti”.

Certo, l’optimum sarebbe un “Monti bis”, chiamato a gran voce da Confindustria, Casini e ormai anche da Berlusconi. Ma è impensabile far presentare il Professore alle elezioni. La bocciatura sarebbe certa. E irrimediabile.

La soluzione fin qui immaginata – andare al voto ognuno in ordine sparso, con un sistema proporzionale “corretto”, per poi convergere nell’indicazione di Monti (o Passera) come presidente del consiglio – si scontra con una legge elettorale (il Porcellum) pensata per garantire un risultato esattamente opposto: una maggioranza schiacciante alla coalizione prima classificata. Paradossalmente, quindi, potrebbe assegnare il controllo del Parlamento a una coalizione di bastian contrari senza progetto, da Grillo a Di Pietro (che cerca di cavalcare anche il malumore operaio grazie ai referendum su art. 18 e art. 8).

Si comprende dunque la ferma intenzione espressa da Napolitano: obbligare i partiti a concordare

immediatamente una nuova legge elettorale proporzionale, abbandonando i piccoli calcoli di convenienza individuale. Così come si capisce la provenienza dei primi siluri lanciati contro il leader maximo del Movimento 5 Stelle, fino a dieci giorni fa avanti nei sondaggi.

Tanto più che, per combinazione temporale celeste, la scadenza elettorale coincide con la fine del mandato di Napolitano al Quirinale. Il 2013, insomma, si presenta con un vuoto istituzionale pericoloso per la riuscita dell’”esperimento”.

Una via d’uscita l’hanno già pensata. Ha i suoi rischi, ma potrebbe anche riuscire. Monti presidente della Repubblica, in grado dunque – in continuità con Napolitano – di gestire il passaggio di governo secondo i diktat già introiettati. La domanda che li arrovella è una sola: dalle urne uscirà o no una maggioranza in grado di nominare Monti in tempi rapidi?

Non possono dire apertamente – come fa Giavazzi – che la democrazia sia solo un impiccio. Ma la devono far finire sotto il tappeto.

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