La riapertura delle scuole, a pochi giorni dall’inizio dell’anno accademico 2020/2021, è questione che, com’è noto, sta occupando l’agenda politica, in queste ore di fine estate.
Con polemiche che non accennano a placarsi ma che, anzi – anche a causa di un prevedibile innalzamento della curva dei contagi, provocato dal ritorno di tanti cittadini dalle località di vacanza – si intensificano, fino a produrre uno scontro aperto a colpi non certo di fioretto, all’interno dell’agone politico.
Con fazioni contrapposte quasi ideologicamente, tra favorevoli e contrari. Una contrapposizione dalla quale, inevitabilmente, si trova esclusa la razionalità, venendo quasi a mancare l’interesse, proprio per l’oggetto principale della discussione: la scuola!
Quella scuola le cui sorti dovrebbero stare a cuore ad una società e ad uno Stato che riconoscano importanza primaria alla formazione di una cultura, di una coscienza civile e di un pensiero critico dei propri giovani.
Ma che, contrariamente, sta diventando anch’essa, nella logica perversa del paradigma neoliberista e aziendalista, un mero settore della produzione e un dispositivo da cui estrarre profitto e su cui estendere il braccio tentacolare dell’interesse privato.
Fatta questa necessaria premessa, quello che mi chiedo, a questo punto, è perché aprirle?
A cosa serve oggi la scuola e perché il ceto politico e tanta gente comune ne sollecitano l’apertura?
Cos’è questo improvviso interesse verso la scuola e la cultura?
Ma no, non è così, la cultura non c’entra niente e la scuola italiana è morta da tempo.
Si è lentamente trasformata in un luogo dove parcheggiare i figli mentre i genitori vanno, ahimè, al lavoro.
Un luogo dove insegnargli il rispetto di regole spesso assurde, dove fornirgli un po’ di istruzione ed un pezzo di carta con su impresso un numero (il più alto possibile) che gli permetterà di accedere all’Università o, direttamente, al mondo del lavoro. Sempre ammesso che ne trovino uno!
No, la cultura non c’entra niente dietro questa necessità. Del resto, molti dei nostri politici spalerebbero letame in un paese che fosse formato, in maggioranza, da cittadine e cittadini colti.
La scuola è morta lentamente, sotto i colpi dei vari ministri della pubblica istruzione che si sono succeduti negli ultimi anni, e per colpa dell’indifferenza di tutti.
Non ricordo un solo ministro che abbia operato per migliorare la scuola.
A partire (a mia memoria) da quel Berlinguer (Luigi) – il cui cognome sarebbe stato meglio ritirare come si è fatto per la maglia numero 10 di Maradona – che ha introdotto, grazie all’autonomia, meccanismi privatistici in essa.
Da allora, come accade in un supermercato, si cerca di attrarre i clienti/studenti rispondendo alle richieste delle famiglie.
Non è la ricerca di “promozioni straordinarie” che accomuna di fatto, oggi, entrambi i luoghi?
Si è arrivati a organizzare gli “Open Day” nelle scuole. Così come accade in una palestra o in una qualsiasi attività commerciale, che voglia pubblicizzare i propri prodotti.
Puro marketing, mirato ad enfatizzare quanto un istituto sia migliore dell’altro, nell’ottica, tutta anglosassone, della più dura concorrenza. Ma occultando, opportunamente, tutto quello che non va.
Nella stessa logica distorta rientrano i premi in denaro ai migliori professori dell’anno. Lo Stato, in pratica, si comporta alla stregua di un qualunque imprenditore con i propri dipendenti, riconoscendo veri e propri premi produzione.
Mettendo in una sorta di concorrenza interna gli insegnanti li si sollecita a migliorare o si rischia così di aumentarne il servilismo nei confronti del dirigente scolastico, limitandone, così, l’autonomia?
La scuola, dunque, è morta perché abbiamo accettato tutto ciò.
È morta perché pretende di fornire le stesse domande “giuste” a tutti, ancor prima delle risposte.
È morta perché obbliga a studiare opere o azioni di persone che sono uscite fuori dagli schemi, costringendo, invece, gli alunni a restare in schemi ben definiti.
È morta ogni qual volta faccia leva su paura, coercizione e minacce senza tenere conto di una sacrosanta verità. E cioè che “nulla di quanto ho imparato per forza mi è mai servito nella vita” (cit.).
È morta ogni qual volta un genitore o un professore afferma che viene “prima il dovere e poi il piacere”.
Studiare comporta grossi sacrifici, ma affinché questi abbiano un senso, bisogna comprendere ed amare ciò per cui si fanno. Il senso del sacrificio fine a se stesso contraddistingue solo gli schiavi obbedienti.
È morta ogni volta un genitore viene ad elemosinare o a pretendere promozioni facili.
È morta ogni volta che noi professori cediamo a tutto ciò, sapendo che questo renderà il nostro lavoro più semplice.
È morta perché il reclutamento degli insegnanti non ha mai tenuto conto di capacità comunicative e di un pizzico di empatia necessarie a svolgere questo lavoro.
È morta perché il corpo insegnante è anziano, stanco, malpagato e demotivato.
Ma se ancora avvertite un flebile battito in essa, è forse perché avete incontrato, nel corso della vostra esperienza scolastica, qualcuno al quale ancora brillavano gli occhi quando vi parlava di ciò che ha amato e studiato per una vita.
Qualcuno che ha provato ad indicarvi la vostra strada e che ha provato a fermarvi quando vi ha trovato su quella sbagliata. Qualcuno che non volevate deludere non per paura, ma per stima.
Ebbene, se avete incontrato qualcuno così (ed io ne conosco e ne ho incontrati tanti), e se questo restituisce ancora un senso alla necessaria apertura delle scuole, non è certamente per merito della classe dirigente di turno o dell’istruzione scolastica.
No. Avete avuto solo culo!
* Roberto Balassone, professore di Matematica e Fisica presso il liceo scientifico Pimentel Fonseca, di Napoli. Attivista Cobas Scuola
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