Dalla settimana scorsa, con il DCPM che impone la chiusura anticipata di molti esercizi commerciali, l’esasperazione della gente ha toccato l’apice, materializzandosi nelle piazze più o meno pacifiche cha abbiamo visto nei giorni scorsi, dal sud al nord Italia.
Piazze diverse, stesso slogan, “Tu ci chiudi tu ci paghi”. Se lo Stato, in un tentativo di mettere il freno alla curva del contagio da Covid che sa più di castigo alle categorie dei giovani dei settori legati alla “riproduzione ricreativa”, impone il semilockdown serale a tutto al mondo della ristorazione, della cultura e dello spettacolo, allora deve farsi carico anche di un sostegno al reddito di tutti questi settori, che sono composti per lo più di piccola imprenditoria e di lavoro ultraprecarizzato.
Solo a Bologna, nel corso della settimana scorsa, ci sono state 5 manifestazioni in 7 giorni, e questa settimana ne sono almeno previste altre 2! Alcune di queste piazze sono state connotate dalla presenza di forze di destra di vario genere e associazioni di categoria, altre dagli ultras, altre ancora da forze del sindacalismo di base e altre ancora da manifestazioni autorganizzate di piccoli esercenti o di lavoratori.
Qual è il punto? Da maggio a settembre governo e regioni hanno perso tempo nel mettere in sicurezza gli asset fondamentali della società, Trasporto pubblico – Scuola – Sanità, non investendo nemmeno un euro nel potenziamento degli organici di medici, infermieri e oss degli ospedali e della sanità territoriale, senza premunirsi di vaccini antinfluenzali e tamponi per preparare, in periodo di tregua, lo screening di massa della popolazione.
Senza investire un euro nel potenziamento del trasporto pubblico locale, aumentando le corse e limitando la capienza nei mezzi, anzi prendendoci in giro con la ministra De Micheli che va in televisione a spiegarci che quella dell’affollamento è una percezione sbagliata, e che bisogna fare la “media di Trilussa” tra l’autobus vuoto e quello pieno per determinare la percentuale di utilizzo.
E ancora: senza investire un solo euro nel potenziamento della scuola pubblica, senza andare a reperire nuove strutture per ampliare le metrature e dimezzando il numero degli alunni per classe, assumendo il personale storico precario che da anni garantisce il funzionamento della scuola e che servirebbe a mettere in sicurezza la scuola.
Ecco, questo è il punto: avevano promesso che “sarebbe andato tutto bene”, hanno chiamato eroi chi ha rischiato la vita per garantire la tenuta della sanità e dei servizi essenziali, e passata la fase acuta hanno continuato con le vecchie logiche di spartizione. Hanno fallito su tutto e danno la colpa ai giovani, agli studenti e ai lavoratori che si affollano sugli autobus, a chi va a guardare un film al cinema o a fare qualche esercizio in palestra.
E dunque, anche il Decreto Ristoro, pubblicato in fretta e furia per cercare di sedare le rivolte, non è bastato a placare la rabbia. C’è un pezzo di società che dopo mesi di chiusura, non è ora più disposto a farsi prendere in giro, perché è economicamente stremato, e dopo aver messo in campo enormi sforzi per adeguare le strutture alle norme antiCovid – penso appunto a cinema, teatri, ma anche a bar, ristoranti e palestre – si vede additato come l’untore e responsabile della seconda ondata della pandemia.
E’ un pezzo di società, questo, fatto di piccoli imprenditori, barman, ristoratori, tassisti, piccoli commercianti e impiegati nel settore della cultura dello spettacolo, dello sport e della ristorazione. Un pezzo di piccola borghesia progressivamente abbandonata nel corso della crisi economica, che ora rivendica quella “libertà berlusconiana”, ma che è anche seriamente preoccupata per le proprie tasche.
Ma ci sono anche i lavoratori di questi settori, che se la passano anche peggio dei loro datori di lavoro: inutile far finta di non vedere il precariato dilagante, il lavoro a nero, intermittente e senza alcuna tutela. Quei lavoratori già presi in giro, nello scorso lockdown, con le casse integrazioni calcolate su contratti per lo più fittiziamente bassi, o scoperti del tutto se il lavoro è a chiamata o in nero, e che oggi giustamente rivendicano il reddito di emergenza e il blocco degli affitti e delle utenze!
Sono i lavoratori più colpiti dalla crisi sanitaria, la cui rabbia sta esplodendo, ed è su queste piazze che le forze del sindacalismo di base e delle forze politiche di alternativa si devono spendere, per difendere e tutelare chi non ha alle spalle alcuna associazione di categoria a tutela dei propri interessi, e la cui voce non viene mai ascoltata.
Questa crisi sta aprendo tutte le contraddizioni di un sistema che si è sempre basato sulle disuguaglianze, ma che ora non sono più accettabili!
Giovedì scorso la piazza lanciata dall’USB ha rappresentato in Piazza Maggiore questa complessità e questa rabbia. Insieme ai lavoratori della ristorazione e dello spettacolo c’erano anche i lavoratori della sanità pubblica, dei trasporti e della scuola, perché il tema del modello del lavoro precario vs il modello della sicurezza e della pianificazione pubblica a garanzia della sopravvivenza biologica, sociale ed economica di tutte e tutti, è la discussione che va costruita ed orientata tra gli strati popolari e quelli medi in via di impoverimento.
Se il conclamarsi di una pandemia come questa ha un qualcosa della fatalità, dell’incontrollabile, non possiamo e non dobbiamo negare che la gestione di questa crisi è stata ed è tutt’oggi sconsiderata e improvvisata: aver ceduto ai ricatti di Confindustria durante la prima fase, senza mettere in sicurezza Trasporti – Sanità – Scuola in previsione di questa seconda ondata, è una chiara responsabilità politica che Conte e il presidente Bonaccini si devono assumere, e invertire la rotta immediatamente, con ingenti investimenti nel settore sanitario, scolastico e dei trasporti, e con l’assicurazione di un reddito universale per tutti!
L’appuntamento della scorsa settimana a Bologna si replicherà questo giovedì 5 novembre alle ore 18,30, sempre in Piazza Maggiore, sull’onda dell’appello lanciato alla città intera per “unire le ragioni per una piazza popolare”.
Non abbiamo smesso durante il primo lockdown di primavera e non smetteremo ora di organizzarci e pretendere il diritto alla salute, al reddito e alla dignità.
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