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A ciascuno il suo

Ieri nuovo corteo, promosso dalle diverse organizzazioni che sorreggono quei movimenti sociali che sembrano aver dato nuova radicalità alla sinistra, mercoledì poi ancora assemblea pubblica magari in quartieri diversi della città e così a seguire nei giorni successivi, almeno questa è l’intenzione.

Allora è bene attrezzarsi e far sì che a ogni occasione non si riparta da zero ma si continui un percorso, mantenendo una progressione, acquisendo un avanzamento e dando così un senso al verso e alla direzione intrapresa.

Già questa prima condizione di fatto, l’eterogenea moltitudine che si mette nuovamente in moto, postula una necessità: una forma capace, cioè, di dare intelligibilità politica. Solo così sarà possibile mettere in atto correttamente la potenzialità che queste occasioni portano con sé.

Chiariamo: potenzialità che eccede la contingenza dell’emergenza in atto e che ha le proprie radici, invece, nell’ormai più che decennale crisi che il modo di produzione capitalista sta attraversando. Non è il virus il nemico di questa piazza e non perché esso non esista, è ovvio, ma perché le ragioni che quella piazza oggettivamente porta con sé nascono prima e a prescindere e hanno a che fare con un modo diverso d’organizzazione dell’esistenza.

Il virus in sé può essere il nemico strumentale dei fascisti o l’ostacolo particolare di alcune corporazioni e, in entrambi i casi, lo status quo – che va oltre la forma transeunte del governo – non è mai oggetto di discussione critica. La nostra piazza, invece, ha in sé la prospettiva di un percorso diverso e molto più lungo, ha bisogno dunque di un corretto posizionamento nel percorso e di carburante adeguato.

Una forma capace, scrivevamo prima, di dare intelligibilità politica, che sia in condizione quindi di unificare il molteplice delle rivendicazioni, di operare come sintesi politica frutto della dialettica interna ai movimenti e non, come i detrattori di ogni momento unificante potrebbero temere, come imposizione castrante.

Una forma corretta, adeguata, infatti, non è la sovraesposizione muscolare di uno – o pochi – contenuti che si arrogano il diritto di sussumere sotto di sé il resto. La forma corretta nasce comunque dall’interno del movimento reale (che magari fosse quello in grado di abolire lo stato di cose presenti!) quando questo riesce ad applicare corrette categorie d’interpretazione del mondo.

Ecco, bisogna allora capire cosa c’è di reale all’interno del movimento in essere, cosa cioè esprime effettivamente la direzione e il verso di una prospettiva rivoluzionaria. Perché è questo ciò di cui si tratta: di una prospettiva rivoluzionaria. Non la rivoluzione – che in Occidente appare cosa per lo meno ardua – ma di una prospettiva rivoluzionaria. E averla o no fa tutta la differenza del mondo.

Come sempre accade le crisi generano una dialettica tale da aprire scenari contrapposti e solo lo stato dei rapporti di forza esistenti tra i due poli della contesa può decidere l’esito dello scontro in atto. Non aspettiamoci dunque fughe in avanti ma considerevoli accumuli di forza sì.

Il governo fa il suo. Legittimato nel suo agire dal ritrovato protagonismo dello Stato, come da altri già sottolineato e, aggiungiamo, sgomberando così definitivamente il campo dal ciarpame teosofico che aveva lungamente blaterato sulla sua definitiva uscita di scena.

Fa il suo nel senso che, al netto delle sue contraddizioni interne, fa quello che è ragionevole aspettarsi da questo governo, in questo paese, in questo momento. S’intenda: chiedergli la patrimoniale o il riuso delle voci già a bilancio per le spese militari assume il valore dell’indizione di un tema che, rimettendo al centro la politica, serva a far sedimentare le forze nel nostro campo.

Anche Confindustria o i vari padroni e padroncini fanno il loro: la loro è la necessità razionale di approfittare della crisi in atto per continuare – con più forza – la controffensiva reazionaria ormai in atto da parecchio tempo. Ma non cadiamo nella tentazione di fare dei borghesi, o dei capitalisti, degli individui atomizzati e assoggettabili a un giudizio moralistico: sono attori all’interno del medesimo sistema di relazioni sociali degli altri protagonisti dello scontro sociale e della lotta di classe.

Nel giudicare l’imperialismo, il democratico Hobson pensava che l’economia si dovesse coniugare con le istanze etiche dello stato sociale e che quindi i borghesi fossero i principali responsabili del saccheggio operato dall’occidente capitalista.

Il rivoluzionario Lenin, invece, sottraendo il borghese al giudizio morale, indicava nell’abbattimento del sistema capitalista la lotta contro l’imperialismo inteso come conseguenza necessaria del modo di produzione capitalista. Denunciando, in questo modo, il rischio di considerare compatibili col modo di produzione capitalista le più autentiche istanze di giustizia sociale.

Ai lavoratori invece, com’è ovvio, è toccato di disperdersi nei mille rivoli delle diverse rivendicazioni.

La domanda principale rimane, però, al fondo di tutto: e noi? Sorvoliamo su come definire in modo scientificamente corretto questo noi e limitiamoci ad assumerlo come il residuo organizzato e consapevolmente indirizzato che sta dentro i movimenti sociali di questi giorni. Bene.

A questo noi spetta di riaprire la cassetta degli attrezzi, di reperirne eventualmente di nuovi, di utilizzare dunque quelle categorie che permettano al movimento di andare avanti e di non fare il gioco dell’oca. Di sostenere a voce alta l’incapacità e l’impossibilità strutturale di questo sistema nell’affrontare i punti oggi all’ordine del giorno: la tutela della salute e la tutela delle condizioni materiali di vita.

Appunto, a ciascuno il suo.

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