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A 100 anni da Livorno ’21: problemi e potenzialità

Ci avviciniamo alla data del 21 gennaio 2021. Siamo, quindi, a cento anni da quando – a Livorno – il 15 gennaio del 1921, presso il Teatro Goldoni prese avvio il congresso del Partito Socialista.

Nel corso di oltre cinque giorni di aspre ed appassionate discussioni si confrontarono tre posizioni: quella di Turati e Prampolini che aveva una impostazione moderata e collocata nel solco delle posizioni che erano state proprie degli elaborati della Seconda Internazionale, quella dei cosiddetti unitari (Giacinto Menotti Serrati) che riteneva di poter raggiungere una (impossibile) sintesi tra le diverse anime del partito e quella dei cosiddetti massimalisti (Bordiga, Gramsci) che chiedevano l’espulsione dei moderati, il cambio di nome del partito e – soprattutto – l’adesione alla piattaforma programmatica dell’Internazionale Comunista di Lenin.

Il 21 gennaio mentre si chiudeva il congresso del Partito Socialista senza che si raggiungesse una soluzione unitaria tra le varie componenti i cosiddetti massimalisti lasciarono l’assise socialista – ed al canto de “L’Internazionale” – raggiunsero il Teatro San Marco dove costituirono il Partito Comunista d’Italia.

Erano alla testa di quel nuovo inizio politico, non solo Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci, ma anche uomini come Umberto Terracini, Angelo Tasca, Palmiro Togliatti e Nicola Bombaci, che poi, successivamente, aderì al movimento di Benito Mussolini.

Tra coloro i quali che si unirono più convintamente al partito fu significativa l’adesione dell’intera Federazione Giovanile Socialista che costituì un fattore di forza e di grande dinamicità per la nuova formazione che da subito dovette misurarsi con l’aggressività non solo politica, ma apertamente militare, del fascismo.

L’Italia di quegli anni era attraversata – come accadeva anche in altri paesi europei, Germania ed Ungheria in primis – da potenti moti sociali e politici (la Rivoluzione Spartachista, i Consigli Ungheresi, il Biennio Rosso e i tumulti annonari in Italia) mentre l’eco dell’Ottobre Sovietico era vivo e rappresentava un esempio di rivoluzione possibile.

Nel contempo le ferite del primo conflitto imperialistico ancora grondavano sangue, disastri e rancori sociali accumulando in Italia, ma anche negli altri paesi, una incandescente “materia sociale” che poi, con la sconfitta dell’ipotesi rivoluzionaria, fu orientata e fagocitata del nascente fascismo ed in Germania, qualche anno dopo, del nazismo.

In tale contesto nacque il Partito Comunista d’Italia e prese corpo una enorme storia che con strappi, rotture, revisioni e derive di ordine teorico, culturale e politico è terminata – formalmente – il 3 febbraio del 1991 con lo scioglimento del PCI e la nascita, in contemporanea, del Partito Democratico di Sinistra e del Movimento della Rifondazione Comunista. Ma questa è un altra vicenda che non trattiamo in questo intervento!

Quella che prese le mosse a Livorno (il PCd’I prima ed il PCI dopo) fu una complessa vicenda politica che si è sviluppata dentro temperie epocali (il fascismo, la seconda guerra mondiale, la resistenza, il dopoguerra e la divisione del mondo in blocchi, il boom economico e la ricostruzione post bellica, i diversi cicli di lotte operaie e proletarie, lo stragismo di stato, la globalizzazione/modernizzazione capitalistica e le grandi ristrutturazioni a scala globale, la fine dell’Unione Sovietica e del campo socialista).

Insomma uno spicchio importante del Novecento e di quel Secolo Breve su cui gli storici ancora si cimentano e che – in ogni caso – ha rappresentato un arco temporale in cui il proletariato e i vari strati subalterni della società hanno più volte dato “l’assalto al cielo” imprimendo un forte scossone al capitalismo, al colonialismo, all’oscurantismo ed all’insieme delle antisociali forme di dominio sull’uomo e la natura.

Un movimento reale ed una forma politica, dunque, che ha saputo porre la questione della rivoluzione e della costruzione concreta del Socialismo nel vivo delle società e della contemporaneità capitalistica.

Schegge di fango anticomunista

Attorno al centenario di Livorno si stanno susseguendo, non a caso, prese di posizioni, ricordi interessati e – soprattutto – riflessioni demolitrici e revisionistiche che puntano, a vario titolo, a rappresentare come un “tragico errore” la scelta di Livorno ’21.

Nei mesi scorsi questa dichiarata offensiva culturale e politica anticomunista è stata aperta da Ezio Mauro, ex direttore di Repubblica e, da poco auto nominatosi storico, il quale ha redatto un testo “La dannazione” che descrive i dirigenti socialisti e, particolarmente, quelli comunisti tutti chiusi autisticamente nelle loro divisioni/diatribe incuranti del fascismo montante.

C’è nel testo di Ezio Mauro una consapevole rappresentazione distorta di un complesso dibattito che fondava non sul discernimento di astratte teorizzazioni ma su dinamiche sociali e forti scontri profondamente innervati nella società dell’epoca.

E. Mauro espone una tesi per cui la Sinistra, in tutte le sue anime, è sempre stata incapace di rapportarsi con le novità della storia e con i suoi passaggi topici. Insomma – a parere del nostro – una deficienza teorica e pratica – quasi una velleitaria e consapevole incoscienza – che costituirebbe una sorta di imprinting culturale che avrebbe sempre segnato l’intero Pantheon politico del movimento operaio del Novecento fino ai giorni nostri.

Del resto Ezio Mauro, recentemente nel 2017 nell’anno del Centenario della Rivoluzione d’Ottobre, ha condotto una operazione simile a quella in corso in queste settimane con un testo “L’anno del ferro e del fuoco” in cui ritornando fisicamente nella città di San Pietroburgo (ch per noi resta sempre l’eroica Leningrado che resistette per anni al lungo assedio nazista) passa in rassegna i luoghi e i personaggi dell’Ottobre riconducendo l’intera vicenda (dal 1905 al 1917) ad un vortice di passioni, scontri e mutamenti sociali che sarebbero sfociati obbligatoriamente nel Terrore e nel regno delle privazioni delle libertà.

Insomma – a parere di chi scrive – siamo in presenza di un bounty killer delle idee/forza di liberazione, di rottura dei vecchi ed antistorici rapporti sociali e della categoria pratica dell’emancipazione delle classi subalterne.

Non è mancato a questi corifei il redivivo Adriano Sofri – già segretario/guru negli anni settanta dell’organizzazione Lotta Continua – il quale in un articolo sul quotidiano (reazionario) “Il Foglio” ha, recentemente, definito la scissione di Livorno come una sciagura per la democrazia.

Naturalmente l’ex rivoluzionario si accanisce contro la connessione politico e pratica che la scelta di Livorno ’21 ebbe con la Russia di Lenin, con l’adesione ai punti programmatici dell’Internazionale e con una storia, che a suo parere, avrebbe perso già nel 1921 la sua spinta propulsiva (molto prima della formale dichiarazione di Enrico Berlinguer e quando egli stesso ancora si cimentava con il tema della rivoluzione nel nostro paese.)

Assistiamo ad un profondo ripensamento veramente imbarazzante che, di fatto, afferisce anche alla propria sfera psicologica ma che non evita di farsi strumento attivo in una campagna di disinformazione generalizzata e di opacizzazione delle ragioni sociali dei comunisti.

Da questi esempi che abbiamo voluto riportare si evidenzia una vera e propria narrazione tossica che stiamo subendo e che, nelle prossime settimane, conoscerà un crescendo di toni e di aggressività.

Persino Matteo Renzi – che, ovviamente, è quanto di più distante dalla storia comunista – è tornato, nell’ultimo periodo, su questo tema consapevole di dire la sua in merito ad una questione che, in ogni caso, afferisce all’imposizione di una egemonia culturale e politica che intende spazzare via definitivamente ogni allusione alla possibilità di un nuovo rivolgimento sociale.

E’ evidente che per noi simile dibattito non inficia in nessun modo le ragioni ideali e materiali che maturarono nella scelta di Livorno ’21 ma, per chiudere tale querelle, vogliamo riportare una citazione di Umberto Terracini il quale – in questo stralcio di intervista che citiamo – rispose a coloro i quali, già alla fine degli anni settanta, “rimproveravano” ai comunisti la scelta lucida e consapevole di separarsi da Turati e dai riformisti dell’epoca: “… se anche avessimo previsto la vittoria fascista, con tutte le sue conseguenze sciagurate, avremmo ugualmente creato il nostro partito. A parlare così mi conforta d’altronde tutto il poi, il ruolo che ebbe il partito nella storia nazionale antifascista come unica forza organizzata che continuò nel ventennio a esistere e a lottare contro la dittatura. Appunto l’incombenza del fascismo doveva convincerci, ove fossero mancate altre cause, a compiere l’operazione dolorosa della quale Livorno fu teatro.” (Umberto Terracini, “Intervista sul comunismo difficile”, a cura di Arturo Gismondi, Laterza)

Cercare ancora: per una strategia ed una organizzazione per i comunisti del XXI° Secolo

Scopo di questo articolo non è rispondere compiutamente a questa esigenza la quale, per la sua complessità, richiede uno sforzo analitico enorme, una grande sinergia di compiti collettivi e, soprattutto, l’affontamento di questioni inedite per meglio interpretare e, possibilmente, rivoltare quella che abbiamo definito più volte la nuova fase strategica del capitale.

Su tale specifico aspetto della riflessione dei comunisti rimandiamo agli atti del Convegno “Il vecchio muore ed il nuovo non può nascere” realizzato dalla Rete dei Comunisti nel dicembre 2016.

Prendendo spunto dalla profonda riflessione di Antonio Gramsci – elaborata nelle mura di un carcere fascista – la RdC si è interrogata sul nuovo contesto internazionale a seguito dell’esaurirsi della cosiddetta globalizzazione, dopo le sconfitte accumulate negli ultimi decenni e le poderose trasformazioni avvenute in ogni ambito della struttura e della sovrastruttura del moderno Modo di Produzione Capitalistico. (http://www.retedeicomunisti.org/index.php/editoriali/1506-il-vecchio-muore-ma-il-nuovo-non-puo-nascere-due-giorni-di-dibattito-denso)

Il ricordo – odierno – del Centenario di Livorno ’21 è un atto politico utile per contrastare l’ondata culturale, politica ed anche penale che, in Italia come nel resto d’Europa, vorrebbe cancellare l’opzione comunista dall’ordine delle cose possibili.

Naturalmente questa data non la interpretiamo e propagandiamo come un dato formale – o peggio ancora nostalgico – ma deve concepirsi come uno stimolo ulteriore alla ricerca collettiva, confronto e all’accumulo di forze per determinare una nuova e riqualificata offensiva teorica e politica dei comunisti adeguata ai profondi mutamenti che sono intervenuti di cui – la crisi pandemica globale – è una delle fenomenologie più drammatiche di questa fase storica che stiamo attraversando.

Un compito pratico che la Rete dei Comunisti intende assumersi, come parte di un lavorio più generale dei comunisti, e che vedrà due importanti tappe di discussione e confronto che la nostra Organizzazione organizzerà nelle prossime settimane.

Il 16 gennaio prossimo, in diretta dai canali Social della RdC si svolgerà un Forum di discussione dal titolo “La Cina nel mondo multipolare” con la partecipazione di numerosi studiosi e compagni che affronteranno questa complessa tematica con un taglio analitico di qualità. Le relazioni e i contributi di questo Forum saranno, prontamente, pubblicato in un numero monografico della rivista cartacea Contropiano.

Il 13 febbraio prossimo, sempre on line attraverso i nostri canali Social, la RdC chiama al confronto attivisti politici, studiosi ed economisti a discutere su “Questione Settentrionale/Questione Meridionale, il prodotto di un modello distorto” dove si affronteranno le caratteristiche storiche, economiche e sociali del capitalismo tricolore, le sue faglie sociali/territoriali e i variegati processi di ristrutturazione in corso esasperati dall’incidere della Pandemia Covid 19.

Se i comunisti – quindi – vogliono tornare ad incarnare una funzione d’avanguardia, dinamica ed innovativa – come è presupposto del marxismo e del materialismo storico/dialettico – non devono ridursi a mero elemento nostalgico o ad una stanca riproposizione di un ricco passato che non è possibile rieditare nelle stesse identiche forme.

Una modalità – questa – che può essere percepita come più rassicurante rispetto alle difficoltà di questi tempi ma, come è stato dimostrato in numerose esperienze e contesti di questi ultimi decenni, corre il rischio di incartapecorirsi in un inutile icona inoffensiva!

Quindi – per restare al nocciolo delle “ragioni dei comunisti” – se come da più punti di vista viene confermato, anche da parte delle teste d’uovo dei poteri forti del capitale internazionale, la crisi sistemica resta un elemento certo e strutturale di questa congiuntura (anche se, per essere corretti sul piano dell’analisi teorica, non siamo ancora di fronte alla crisi finale del Modo di Produzione Capitalistico) i comunisti devono saper lavorare per costruire una soggettività organizzata adeguata alle sfide di questa fase ed agli sviluppi storici in corso. Un arduo compito adeguato alla realtà articolata e complessa che si presenta a livello mondiale e, per quanto ci riguarda più da vicino, a livello nazionale ed europeo.

Ripercorrendo la vicenda, non solo del vecchio PCI, delle varie Rifondazioni Comuniste ma dell’insieme della variegata “area rivoluzionaria” possiamo ipotizzare che quello della Soggettività è stato il vero “punto di crisi” dei comunisti (specie nell’ultimo quarto del XX Secolo) a causa del prevalere di una visione non dialettica della realtà che non ha consentito di comprendere pienamente i meccanismi profondi del capitalismo (a partire dall’enorme sviluppo delle forze produttive) e le sue possibilità di recupero e di sussunzione ad ampia scala. Un limite che si è rivelato esiziale e nefasto per prospettare il superamento del capitalismo non solo globalmente ma a partire dai punti in cui era avvenuta la rottura rivoluzionaria.

Con questo assunto teorico/politico – che più volte abbiamo discusso con compagni comunisti, organizzazioni ed associazioni che si richiamano alla “nostra storia” – e che per noi costituisce anche un tratto fondativo e discriminante del processo di costruzione teorica, politica ed organizzativa della Rete dei Comunisti ricordiamo Livorno ’21 fuori da ogni reducismo o suggestione da storicismo erudito.

ALLEGATO

Riportiamo uno stralcio da un documento della Rete dei Comunisti elaborato alcuni anni fa il quale conserva una sua attualità per la discussione di questo periodo:

“…..Il punto è, allora, che cosa sono i comunisti oggi e che cosa fanno nell’Italia e nell’Europa appena descritte. Certamente la questione del partito, dell’organizzazione, del rapporto di massa sono le questioni concrete cui dare una risposta più adeguata possibile alle condizioni in cui si opera, ma vengono prima alcune questioni di fondo, alla base, cioè, di ogni processo di riorganizzazione dei comunisti, attenendo alla funzione che questi devono svolgere nell’indicare una diversa idea di società e di relazioni sociali.

La prima questione che riteniamo fondamentale è quella del senso del collettivo. Gli ultimi decenni sono stati devastanti dal punto di vista della cultura politica dei comunisti.

La crisi politica e la dimensione pervasiva delle relazioni istituzionali, vissute come esclusive e autoreferenziali, ha prodotto un individualismo diffuso, una competizione personale e un arrivismo indecente che ha smontato, pezzo a pezzo, un patrimonio unico nell’occidente capitalistico: quello del movimento operaio, del PCI e dell’intero movimento degli anni ’70.

Su questa seconda natura posticcia, acquisita dai comunisti e dalla sinistra in genere, va dato anche un netto giudizio etico: la corruzione intellettuale subita, sebbene non sia il punto centrale, ci obbliga, infatti, ad assumere posizione anche su questo piano.

Il danno principale, per i comunisti italiani, è stato, invece, l’effetto prodotto da questi comportamenti: la distruzione dell’indipendenza delle organizzazioni di classe e il cui metro di valutazione obiettiva, oggi, sono i sempre più disastrosi risultati elettorali e la perdita d’indipendenza che ha avuto conseguenze profonde e devastanti nella battaglia delle idee per una concezione alternativa del mondo.

Ricostruire, nella realtà odierna l’identità, la militanza e il senso del collettivo è, dunque, un compito primario da svolgere. È il ruolo della teoria, l’altro terreno saccheggiato: l’oblio e la mistificazione di un pensiero forte che, lungi dall’essere fuori dal tempo, funziona ancora oggi, e cioè il marxismo.

Anche questo è un segno della lotta di classe in atto: la forza del movimento operaio è stata la potenza di un pensiero razionale che sapeva interpretare il mondo e le sue dinamiche. Aver abdicato a questa funzione, aver favorito l’egemonia del pensiero debole, come anche aver sistematicamente anteposto il politicismo all’interpretazione e all’analisi, ha portato alla situazione attuale.

La qualità della elaborazione teorica rimane centrale per una ricostruzione che, per quanto non dogmaticamente legata al passato, allo stesso modo non getti, però, il bambino con l’acqua sporca, riprendendo quegli elementi di teoria validi per l’azione, per recuperare, così, capacità d’analisi e d’intervento sul presente che calate compiutamente all’interno delle strutture socio-economiche e politico-culturali del momento, assumono tutta la loro specificità e tutta la loro dirompente forza di trasformazione: altro che ferri vecchi! Ancora: il rapporto di massa.

Non esiste nessuna seria organizzazione comunista che non sia radicata nella classe. Non si forma nessun quadro comunista se non si fanno i conti in prima persona con questa necessità nella militanza quotidiana e nella concezione del mondo.

Il rapporto di massa è un terreno di verifica importante e va compreso come possa effettivamente svilupparsi nella società dalle caratteristiche qui analizzate.

Alla disgregazione materiale indotta dalla riorganizzazione produttiva e sociale si risponde con un forte ruolo della soggettività nei processi di ricomposizione del conflitto di classe; pensare di avviare questi percorsi, vitali per le forze comuniste, partendo immediatamente dalla politica o da una sua dimensione autonoma e astratta e non, invece, dalla comprensione teorica di come si costruisce il rapporto di massa, qui e ora, significa continuare a seguire una via senza uscita.

Far crescere il rapporto di massa organizzato, e di conseguenza la coscienza di classe, fornire ai quadri politici un metodo di lavoro e degli strumenti interpretativi adeguati alle caratteristiche della classe reale è un compito al quale i comunisti non possono sottrarsi. E’ partendo da questi elementi che vanno intrapresi i processi di ricostruzione.

Crediamo di poter affermare, perciò, che oggi l’Organizzazione dei comunisti non può che avere il carattere della militanza dei quadri e anche quello della ricerca di una qualità intesa come capacità edificatrice di un punto di vista organico al mondo moderno.

Il carattere militante dei quadri non significa ipotizzare una chiusura settaria ma è, al contrario, la condizione presupposta e necessaria per sviluppare al massimo una funzione di massa, per costruire processi larghi di organizzazione dovunque questo sia possibile, al di là di ogni concezione schematica e ossificata della classe e che coinvolga, invece, tutti i settori sociali, culturali e produttivi che hanno il comune interesse a una trasformazione sociale.

Solo così diviene chiara la funzione dei progetti di costruzione della rappresentanza sociale, sindacale e politica, organizzata e indipendente, di quel blocco sociale che è penalizzato dallo sviluppo del capitalismo e dalle contraddizioni che questo stesso sviluppo genera; ed è su questa chiarezza che è possibile fondare il senso stesso dell’essere comunisti oggi……”.

dal Manifesto Politico della Rete dei Comunisti (2011)

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