C’erano una volta gli intellettuali che scrivevano per il Corriere senza rinunciare ( e senza essere obbligati a farlo) a esprimere idee in contrasto con la linea del giornale. Certo, era un altro Corriere ed erano altri intellettuali (come Pasolini e Moravia, tanto per fare un paio di nomi).
Oggi se vogliono continuare a lavorare (se sono dipendenti) o a collaborare (se sono collaboratori fissi) devono “timbrare il cartellino”, cioè esprimere devozione (o almeno non seminare troppe critiche e dubbi) per il libero mercato, l’europeismo e l’atlantismo, lottare senza se e senza ma – con un linguaggio rigorosamente inspirato alla politically correctness – contro ogni forma di discriminazione ma sopratutto contro il “totalitarismo” di Russia, Cina e chiunque altro non si allinei ai comandi dell’Occidente.
Del pacchetto fa parte, ovviamente, anche l’attenzione nel criticare ogni eccesso conflittuale passibile di sconfinare, dio non voglia, nell’odio di classe.
Così Mereghetti, critico cinematografico ufficiale del nobile foglio storico della borghesia nostrana, timbra oggi il suo cartellino recensendo il film di Shaka King sull’assassinio del leader delle Pantere Nere Fred Hampton da parte dell’FBI.
Mereghetti si atteggia a nonconformista controcorrente ironizzando sul fatto che il film viene dato per favorito all’Oscar per il miglior film perché rende omaggio allo zeit geist antirazzista, mostrando i neri buoni e i bianchi cattivi, poi stronca la pellicola dicendo che gli manca una regia all’altezza delle sue ambizioni.
Solo che poi, leggendo, sorge il dubbio dubbio che i motivi della stroncatura siano altri. A partire dalla poco digeribile figura dello stesso Hampton (uno che ha detto “non combatteremo il capitalismo con il capitalismo nero, ma con il socialismo“), per proseguire con la mancanza di “profondità psicologica” nel descrivere la figura dell’infiltrato al soldo dell’FBI (tratteggiato troppo in bianco e nero) e per finire con l’eccesso di cinismo attribuito al malvagio Hoover (uno dei più noti figli di… reazionari della storia americana) nella scena in cui viene deciso l’assassinio.
“Una scena che probabilmente sintetizza la verità,” scrive il nostro, “ma che è costruita in maniera piattamente didascalica, per far scatter l’indignazione e banalizzare opgni possibile complessità“.
E oplà, il cartellino è timbrato.
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