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Recovery Plan di Draghi, un’ipoteca sul futuro delle classi subalterne

Con l’approvazione entro questa settimana del testo definitivo del cosiddetto “Recovery Plan” italiano, da inviare entro il 30 aprile a Bruxelles, saranno messe nero su bianco le principali linee guida del modello di sviluppo che le oligarchie europee e la borghesia italiana vogliono dare al nostro paese, subordinando ancora maggiormente i bisogni delle classi subalterne ai gruppi di interesse privati nazionali e trans-nazionali.

Questo modello di sviluppo implica una metamorfosi dello Stato, sempre più garante ultimo dell’attuale blocco di potere economico continentale, la trasformazione della “Politica” in mera gestione amministrativa tout court delle istanze dell’establishment, la mutazione della Società come appendice del Capitale.

In sintesi è la continuazione, e l’approfondimento, della rivoluzione passiva iniziata dalla UE da un trentennio, che deve trovare sin da subito i suoi risoluti antagonisti costruendo un campo d’opposizione adeguato ai passaggi che si pongono di fronte: deve essere in grado di ribaltare i rapporti di forza sfavorevoli che hanno permesso la restaurazione neo-liberista made in UE.

Il cosiddetto “Pnrr” sarà affiancato da una manovra più ampia che comprende, oltre al Next Generation Ue Italiano con i 191,5 miliardi di euro di fondi europei, anche 30 miliardi del fondo nazionale e 40 – la cosiddetta «terza gamba» – derivati dall’ulteriore scostamento di spesa del bilancio.

Poco più di 260 miliardi di euro che determineranno la futura configurazione economica del Paese, con una attenzione particolare al sistema produttivo e alle infrastrutture, alla nuova funzione che svolgerà la Pubblica Amministrazione, alla riorganizzazione complessiva del mercato del lavoro e della formazione a tutti i livelli, per non citare che gli aspetti principali di un programma pluriennale che è parte di «un’ampia e ambiziosa strategia», come la definisce “giustamente” Draghi.

Per ciò che concerne il RRF, si tratta di 191,5 miliardi di Euro, di cui 68,9 in sovvenzioni e 53,5 in prestiti per nuovi progetti, e 69,1 per progetti esistenti, di cui 15,8 del Fondo Sviluppo e Coesione.

Più di 120 miliardi di indebitamento, quindi, che dovranno essere restituiti nel corso del tempo, per progetti prevalentemente decisi dalla UE, che costituiscono un cappio al collo per gli esecutivi che seguiranno al governo Draghi ed una ipoteca sul futuro delle garanzie delle classi subalterne, che pagheranno con gli ulteriori tagli al welfare il debito contratto con la UE.

Le misure che verranno approvate si pongono in continuità con le politiche complessive portate avanti da tutte le forze politiche al governo (vecchie e nuove) che hanno dominato la scena della Seconda Repubblica in chiave filo-europeista e neo-liberista, ma marcano anche un notevole salto di qualità sulla strada di quelle che il Financial Times definisce senza mezzi termini «riforme di struttura»: riforma della pubblica amministrazione, riforma della giustizia, riforma fiscale e un provvedimento per rilanciare la concorrenza.

È la fine dei residui di quel “patto sociale” su cui si è retto, non senza difficoltà, un trentennio; si pensi alla fine di “Quota Cento” dal prossimo anno, la politica di ulteriore privatizzazione delle “municipalizzate”, o l’ulteriore liberalizzazione delle utilities , contenute nel “Recovery Plan”.

Allo stesso tempo è l’inizio di una nuova fase, sia dal punto di vista del profilo economico del Paese che della sua governance politica (o meglio della sua blindatura ed etero-direzione), in cui proprio lo scenario che si delineerà in Italia sarà fondamentale per l’avanzamento, o meno, del processo di integrazione europea nel suo complesso, considerate le contingenze politiche europee a venire e la dipendenza della UE da alcuni aspetti macro-economici italiani.

L’incertezza politica che caratterizza il dopo-Merkel in Germania, dopo 16 anni di leadership, con gli elettori tedeschi che verranno chiamati alle urne a fine settembre per le elezioni politiche; le presidenziali francesi della prossima primavera, che potrebbero segnare una battuta d’arresto per le politiche intraprese da Macron in questi anni; il “governo di minoranza” guidato dall’asse tra socialisti e Unidos-Podemos, che rischia di saltare per l’estrema fragilità del quadro politico iberico, sono solo alcune delle incognite che pesano come un macigno sul futuro della UE.

Il pilota automatico che governa le decisioni principali a livello di Unione Europea ha infatti comunque bisogno di esecutivi nazionali che si allineino – anzi si genuflettano – alle sue direttive, affinché l’edificio regga.

Venendo alle “storture” italiane che compromettono in parte il quadro del rilancio europeo, bisogna considerare che l’altro anno il PIL del nostro Paese si è contratto del 8,9%, un calo maggiore della media europea, con la performance peggiore dal 1945.

Il debito pubblico è salito al 155,6% (un valore simile agli inizi anni Venti del secolo scorso).

La produttività italiana tra il 1995 ed il 2019 è aumentata di poco più di un quarto della media dell’Eurozona.

Il livello di “evasione fiscale” è tale che vi è un gap del 24,5% tra i valori teorici dell’IVA e la sua riscossione effettiva, contro una forbice  che va dal 6 all’8,6% negli altri tre maggiori paesi.

Tutti fattori che sono allo stesso tempo sia un risultato delle scelte politiche effettuate dall’Italia fino ad ora, in ossequio alla UE, sia un possibile inciampo per gli attuali progetti dell’Unione.

Anche le storiche criticità della “questione meridionale”, approfonditesi durante questo trentennio, pesano sui progetti di avanzamento europeo.

Non a caso, al centro del Recovery Plan vi è una attenzione particolare all’attuazione del progetti nati dalle varie rappresentanze imprenditoriali regionali del Sud e dagli operatori della logistica, con le “7 più 1” Zone Economiche Speciali (Zes) che dovrebbero sorgere nel Mezzogiorno, uno sviluppo infrastrutturale integrato con le reti logistiche europee e mediterranee, e la trasformazione dell’Italia in una sorta piattaforma logistica del Mediterraneo, con un Southern Range italiano “competitivo” anche come strumento “anti-cinese”, che si opponga all’estensione della “Nuova Via della Seta” tra le due sponde del Mediterraneo.

Questi progetti previsti per il Meridione sono volti ad incrementare l’appetibilità degli investimenti (con relativi incentivi fiscali e snellimento burocratico) e l’interconnessione con le nuove filiere produttive europee. È lo Stato che crea le condizioni al privato per impiantarsi in poli che acuiranno il divario tra questi centri e la restante periferia.

La strategia che l’ex capo della BCE porta avanti nel nostro ridotto nazionale è comprensibile solo all’interno del contesto di accesa competizione internazionale con Cina e USA, in cui l’Unione Europea – ancora alle prese con la doppia penalizzazione data dall’intreccio di una crisi economica da cui non è ancora emersa e da una campagna di vaccinazione deficitaria – rilancia il suo progetto di integrazione, allargando il nocciolo duro dell’Unione post-brexit dall’asse franco-tedesco principalmente a Italia e Spagna, pena il suo divenire periferica tra gli attori globali.

I due Stati (Italia e Spagna) sono infatti le economie di maggior peso esterne all’Europa neo-carolingia, fissata a suo tempo da Parigi e Berlino come asse principale dello sviluppo della UE, nonché le maggiori “beneficiarie” – non a caso – dei 750 miliardi di fondi stanziati dall’Unione con il Next Genertion UE.

L’Unione, se vuole reggere alla concorrenza internazionale e la coeva sfida geo-politica, ha dovuto puntare su settori strategici a cui vincolare i piani di sviluppo dei singoli paesi: la transizione ecologica, la digitalizzazione e le infrastrutture in primis.

E su questi settori si configurerà il polo finanziario europeo post-Brexit, che dovrà essere in grado di attirare i capitali necessari ad assicurare una autonoma capacità creditizia in grado di reggere alle tempeste finanziarie, ed assicurare all’Euro un ruolo di primo piano nello scontro valutario che si sta profilando, mettendo a frutto le potenzialità di una importante area economica come il mercato europeo, su cui è stato costruito l’edificio politico continentale.

Inoltre, l’Unione Europea deve cercare di intervenire anche sulle possibili fratture nella coesione sociale che tale processo di ristrutturazione complessivo porterà con sé, giocandosi anche la residuale credibilità dei corpi sociali intermedi (partiti e sindacati) che hanno fin qui collaborato a questo progetto, in chiave squisitamente clientelare.

Sappiamo che il diavolo si nasconde nei particolari e che sarà necessario studiare bene la versione definitiva del testo, comprendere quale sarà la cabina di regia che attuerà i progetti previsti, e capire nel dettaglio dove e come i soldi verranno spesi.

Questo anche perché bisogna considerare sempre i pesi ed i contrappesi costituiti dai soggiacenti interessi economici frammentati, dei diversi soggetti sociali che in parte vengono rappresenti dai partiti dell’attuale maggioranza; la vicenda legata all’estensione o meno del “superbonus” in edilizia ne è un esempio.

Nonostante questo sappiamo che le modalità di gestazione, il grado di “secretazione” e le ripercussioni future di questa manovra sono sintomi di un cambiamento epocale della struttura economica e della sovra-struttura politica (e della loro combinazione), nonché dello sviluppo di una maggiore interdipendenza dell’Italia dai progetti delle oligarchie europee e di un ulteriore svuotamento della sovranità popolare del nostro Paese.

La rappresentazione plastica di questa “democrazia oligarchica” ce la dà il ruolo svolto dal Parlamento nella gestazione di questa ampia manovra economica: ridotto di fatto ad appendice insignificante di fronte all’asse prioritario tra capo dell’Esecutivo (neanche tutto il governo) e i principali profili decisionali in ambito UE.

Dentro questo passaggio di fase i comunisti si devono quindi impegnare in una analisi particolareggiata dei mutamenti epocali in corso, nello sforzo di organizzare il proprio blocco sociale in maniera indipendente ed antagonista rispetto agli attori sindacali complici del nuovo “patto sociale” funzionale alle oligarchie, nella costruzione di una rappresentanza politica delle classi subalterne degna di questo nome.

Oltre a questo, è imprescindibile la tessitura di un rapporto sia con le forze politiche continentali che vogliono costruire una alternativa possibile all’Unione Europea, sia con quelle soggettività extra-europee che vogliono sganciarsi dal neo-colonialismo europeo.

 26 aprile 2021

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