È stato un lapsus del poliziotto inconsapevole o uno scherzo perverso dei rappresentanti di uno Stato italiano che non smetterà mai di far pagare la paura che una parte della sua popolazione gli ha provato alla fine del dopoguerra?
L’operazione congiunta delle forze di polizia francesi e italiane, che ha preso di mira dieci rifugiati politici italiani, aveva il nome in codice “Ombre rosse”. Questo è il titolo esatto in francese – “L’ombre rouge” – del secondo romanzo poliziesco di Cesare Battisti, pubblicato nel 1994 (Gallimard, Serie Noire), ambientato sullo sfondo della situazione di questi superstiti della latente guerra civile degli anni ‘60 e ‘70.
Al bisogno di una postura “antiterrorista” inerente a uno Stato francese incapace di affrontare le ragioni sistemiche del terrorismo jihadista individuale si è aggiunto – come spiega Alessandro Stella di seguito – il bisogno sempre rinnovato dello Stato italiano di cancellare la “traccia rossa” del più grande e duraturo movimento sociale del dopoguerra in Occidente.
La guerra della memoria non è che un episodio della guerra sociale. Come ha dimostrato il bellissimo, combattivo e applaudito corteo della manifestazione parigina del Primo Maggio, la lotta per la libertà dei nostri compagni è appena iniziata.
*****
L’operazione che ha portato, il 28 aprile 2021 a Parigi, all’arresto di dieci ex militanti rivoluzionari italiani degli anni ‘70, è stata chiamata dalla polizia francese e italiana “Ombres Rouges”. Gli arresti sono stati effettuati nelle prime ore del mattino dalle forze speciali della polizia antiterrorismo francese, assistite dai loro colleghi italiani. Un’idea probabilmente presa dalla cultura poliziesca, con John Wayne contro i “cattivi pellerossa”.
Termini che si riferiscono a immagini scure, inquietanti, dove l’ombra assume il colore del rosso, del sangue. Un’immagine e una definizione che dice molto sul pensiero degli ispiratori politici di questa operazione di polizia.
Qual è lo scopo politico dei governi italiano e francese nel dare la caccia agli ex rivoluzionari che avevano consegnato le armi e vissuto normalmente in Francia per decenni, 40 o anche 50 anni dopo i fatti, promettendo loro che avrebbero finito gli ultimi anni della loro vita in prigione?
Per 40 anni, tutti i governi italiani, di destra e di sinistra, hanno fatto dello spettro del ritorno del “terrorismo rosso” il mezzo di controllo e di repressione di ogni movimento di protesta sociale, di ogni forma di lotta collettiva antisistema.
Una bandiera rossa sventolata permanentemente dai governanti davanti agli occhi dell’opinione pubblica, ricordando loro “gli anni di piombo”, che è diventata sinonimo nella narrativa dei vincitori di un periodo oscuro e omicida, durante il quale il colore rosso delle bandiere comuniste aveva macchiato crimini e delitti.
Uno spettro che infesta il sonno di tutti i buonisti italiani, di tutti i sostenitori dell’ordine immutabile della società, di tutti i sostenitori dell’ordine di polizia, dell’autorità dello Stato, dell’autorità stessa. Uno spettro incarnato da donne e uomini chiamati Marina, Enzo, Roberta, Giovanni, Giorgio, Raffaele, Maurizio, Luigi, Narciso, Sergio.
Tutti loro hanno ormai più di 65 anni e, dopo una gioventù vissuta a tutta velocità all’inseguimento di sogni rivoluzionari, hanno dovuto rassegnarsi a una vita ordinaria fatta di lavoro, preoccupazioni, amore, piccoli piaceri e routine. Persone con un percorso di vita ricco e complesso, che non può essere ridotto a pochi anni della loro vita, e tanto meno a qualche episodio di lotta armata a cui sono accusati di aver partecipato.
Donne e uomini presentati come simboli da abbattere dagli Stati e dalle loro forze di polizia, preoccupati delle loro strategie e senza alcuna remora per il destino di reclusione fino alla morte promesso a queste persone.
La storia dei vincitori di questo “embrione di guerra civile” – come disse Francesco Cossiga, ex Presidente della Repubblica e ministro dell’Interno nel 1977-78 – è servita per 40 anni a installare una pedagogia della paura tra la popolazione italiana, costruita sulla fantasia del ritorno delle Brigate Rosse o dei loro emulatori.
Una macchina politica ben servita dai media, dai giudici, dalla polizia, e che ha plasmato il pensiero conformista di milioni di italiani che oggi plaudono alla cattura e al confino in regime punitivo fino al sadismo del “mostro” Cesare Battisti. Una macchina di influenza psicologica di massa che rende ripugnante il ricordo stesso degli anni ‘70.
Una macchina che è diventata sistematica, basata su una narrazione storica distorta e partigiana. Perché cancella e vuole far dimenticare che gli anni ‘70 sono stati prima di tutto anni di grandi lotte sociali e di sperimentazione di nuove forme di relazioni tra le persone, di lotte internazionaliste, antimilitariste, antiautoritarie e infine femministe e LGBT.
Anni in cui la bandiera rossa aveva i colori della rivoluzione proletaria e della libertà. Dietro il quale marciavano milioni di vecchi lavoratori comunisti e milioni di giovani proletari alla ricerca di un mondo migliore. Durante il lungo maggio ‘68 italiano, l’uso delle armi da parte di migliaia di militanti rivoluzionari fu solo la punta di un iceberg, solo una parte di un insieme di lotte che utilizzavano altre armi, dagli scioperi alle occupazioni, dalle manifestazioni agli esperimenti di autogestione.
Nella narrazione dei vincitori, il vasto movimento rivoluzionario attivo nell’Italia degli anni ‘70 è dipinto come una lunga serie di uccisioni senza motivo da parte di attivisti di estrema sinistra in nome di un’ideologia passata.
Mentre la storia ci dice che, molto prima che qualche attivista rivoluzionario uccidesse qualcuno, circa duecento manifestanti erano stati uccisi dalla polizia dal 1948.
Il primo omicidio commesso da attivisti rivoluzionari, quello del commissario Luigi Calabresi, è emblematico. Fu ucciso la mattina del 17 maggio 1972 da un commando del gruppo Lotta Continua (uno dei compagni di cui l’Italia chiede oggi l’estradizione, Giorgio Pietrostefani, è stato condannato per questo), che stava facendo quello che milioni di italiani chiedevano da tre anni.
Il commissario Calabresi fu responsabile dell’omicidio di Giuseppe Pinelli, ferroviere anarchico milanese, ingiustamente arrestato e accusato di aver messo la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Piazza Fontana, il 12 dicembre 1969. Una bomba che causò la morte di 17 persone, e che fu di fatto l’opera di gruppi fascisti alleati a poliziotti e militari di ideologia fascista, attuando una strategia di tensione con un obiettivo anticomunista e di governo dell’Ordine.
L’omicidio del commissario Calabresi è stato quindi un omicidio politico, una risposta alla violenza della polizia e dello Stato, l’attuazione di una volontà popolare allora ampiamente condivisa. Va anche sottolineato che questo è stato l’unico omicidio commesso da attivisti di Lotta Continua, che stavano anche conducendo lotte all’interno delle fabbriche (Fiat in particolare), nei quartieri popolari e nelle università, nelle caserme e nei porti.
Gli anni ‘70 in Italia, che il pensiero dominante vorrebbe ridurre a immagini di morte, furono anni di entusiasmo rivoluzionario condiviso da milioni di persone e declinato in mille iniziative che propugnavano il cambiamento dell’intero sistema di oppressione. È un periodo di insubordinazione e di protesta generalizzata – contro tutti i pilastri dello Stato capitalista – che i governanti politici ed economici temono, e sono queste immagini di rivolta che tormentano le loro menti.
Per il governo francese e il Presidente Macron, che hanno sigillato questo scellerato patto di estradizione sulla pelle di dieci persone, lo spettro da scacciare sarebbe piuttosto quello delle “ombre gialle”. Il colore può cambiare, ma nel mirino ci sono sempre i movimenti sociali incontrollabili.
Dopo un’ondata crescente di insurrezione antisistema ai quattro angoli della Francia, di diffusione e condivisione di esperienze collettive di auto-organizzazione, di sfida allo Stato, alle gerarchie, ai partiti e alla democrazia rappresentativa, la repressione feroce che lo Stato e i suoi poliziotti hanno esercitato contro i Gilets Jaunes ha finalmente frenato il movimento.
Il regime di paura messo in atto dallo Stato, con LBD, granate, colpi di manganello, fermo di polizia, prigione, ha finito per assottigliare le file dei Gilets Jaunes e sgonfiare il movimento. Ma i dirigenti dello Stato francese sanno perfettamente che tutte le cause dell’esplosione della rabbia popolare sotto i colori dei “gilet gialli” sono ancora lì, e persino aggravate dalla crisi di Covid.
Sanno che nonostante il lockdown, il coprifuoco, lo stato di emergenza e tutto l’arsenale giuridico-poliziesco messo in atto dallo Stato per difendersi dai proletari in rivolta, la brace rimane calda. E hanno paura che le “ombre gialle” tornino a turbare la dolce vita della borghesia nei quartieri alti, a marciare sugli Champs Élysées invece di leccare le finestre.
Temono che invece di aspettare in depressione le prossime elezioni, i Gilets Jaunes riprendano l’autogestione in ogni villaggio, ogni quartiere, ogni incrocio, collettivamente, senza leader, senza gerarchia di sorta, costruendo quotidianamente un mondo socialmente vivibile.
In rosso o in un altro colore, uno spettro infesta l’Italia, la Francia, il mondo intero: lo spettro della Comune, del comunismo.
* Da Lundimatin. Alessandro Stella è stato membro di Potere Operaio e poi di Autonomia Operaia. Rifugiato in Francia all’inizio degli anni ‘80, è oggi direttore di ricerca in antropologia storica al CNRS e insegna all’EHESS di Parigi. È autore di diversi saggi, tra cui “Années de rêves et de plomb: Des grèves à la lutte armée en Italie (1968-1980)” (Agone, 2016).
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa