L’intervista al presidente Mattarella di la Repubblica di domenica 9 maggio ha il pregio di svelare l’arcano. Vale a dire, risponde alla domanda: ma perché la ministra Cartabia, così accorta nel coltivare la propria carriera, senza mai una sbavatura, s’è messa in testa di andare a sollevare il vespaio dei rifugiati in Francia?
Ora abbiamo capito che non è stata una sua iniziativa, tanto che il Capo dello Stato le ha fornito l’adeguata copertura istituzionale.
Perché? Se avete la pazienza di seguire il ragionamento ci si arriverà in finale.
Cominciamo col dire che il Presidente ha inanellato una serie di omissis nel suo ragionamento su quegli anni che dimostrano un disegno preconfezionato.
Che francamente non gli farebbe onore, se non fosse la logica conseguenza della “democristianità” che è venuta a galla con tutta la sua ambiguità, in perfetta continuità con un partito, la DC, appunto, al quale la Guerra Fredda aveva affidato il compito di gendarme anticomunista sui confini della patria atlantica.
Una continuità che parte da Tambroni, che voleva l’appoggio esterno del MSI, partito che è stato negli anni il refugium peccatorum di generali golpisti, candidati nelle loro liste per sfuggire alla giustizia. Per passare a Segni, che flirtava coi golpisti, per arrivare a Cossiga, quello del “caso Moro”, ma anche e soprattutto di Gladio, la formazione golpista di Stato, passando per la P2, la grande architettura terroristica, che coinvolgeva i vertici dei Carabinieri, della Stampa, dell’imprenditoria d’assalto alla Berlusconi.
Dalla Strage di Piazza Fontana del 1969 alla strage di Bologna del 1980, barbe finte e fascisti veri hanno praticato il terrorismo di Stato. Lo stesso partito di Andreotti, il deus ex machina del torbido, quel torbido che Mattarella conosce bene, avendo ingoiato suo fratello Piersanti.
E allora, quando il capo dello Stato propone un bilancio tra terrorismo nero e quello rosso, edizione moderna della “teoria degli opposti estremismi”, racconta leggende metropolitane: il terrorismo in Italia è stato quello di Stato, che solo l’acquiescenza del Pci ha voluto ascrivere alla favola del “servizi deviati”.
In un paese in cui la CIA era fortemente impegnata a vigilare sulla Cortina di Ferro, che attraversava in via longitudinale l’Adriatico, c’era niente di deviato, era tutto bell’e predisposto.
Nell’intervista di Molinari – intervista o bella copia del papello fornito tale e quale dall’ufficio stampa del Quirinale? – sono state citate le conquiste dei diritti del lavoro, del diritto allo studio, dei diritti civili.
Mattarella anche qui impone gravi omissis: quelle conquiste sono costate lotte, scontri di piazza, sparatorie della polizia contro i manifestanti, morti come ad Avola, a Battipaglia, a Reggio Emilia. O a Roma, con l’assassinio di Giorgiana Masi. È strano che i parenti di queste vittime non vengano mai citati. Ma forse no, non è affatto strano.
Il nostro paese la democrazia se l’è conquistata giorno per giorno, generazione per generazione, ingiustizia per ingiustizia, scontro per scontro. Lo Stato non è mai stato neutrale, ha sempre parteggiato, con tutti i suoi mezzi, puliti ma soprattutto sporchi, contro tutti coloro che volevano giustizia sociale, uguaglianza di fronte alle leggi, ridistribuzione della ricchezza.
È stato detto che fu una “guerra civile asimmetrica”. Lasciamo queste suggestioni agli scrittori di fantapolitica: la repressione in Italia è stata perfettamente simmetrica https://contropiano.org/news/politica-news/2021/05/10/perche-ignoriamo-il-capitalismo-quando-esaminiamo-le-crisi-sanitarie-0138833alla volontà politica di far cessare il conflitto tra le classi, sottomettendo la classe dei lavoratori.
L’attacco alla classe operaia fu frontale nel 1980 alla Fiat di Torino, quando si pensò che il movimento sociale era ormai stato fiaccato dagli arresti di massa. A cavallo tra la fine dei Settanta e gli inizi degli Ottanta, più di cinquemila detenuti politici furono rinchiusi nelle patrie galere.
E ci furono leggi speciali, e la carcerazione preventiva allungata a dismisura, e si ritirò fuori dal codice Rocco il confino, tanto in uso durante il fascismo.
È stato catalogato come “terrorismo” tutto quello che si è mosso a sinistra del Pci, che intanto aveva scelto “il compromesso storico”, col quale prima ha cercato di strangolare il movimento per poi suicidarsi lentamente, fino all’attuale asfissia del Pd.
Non è stato perdonato l’uso della violenza come risposta al monopolio della violenza, allo stesso modo di come non fu perdonata alle formazioni partigiane all’indomani del 25 Aprile.
Si è voluto decontestualizzare l’azione politica, per etichettarla come “crimine”. Si è cercato in ogni modo di attribuire ai tribunali il compito di scrivere la storia. Per negarne subito dopo la legittimità, quando si è trattato di Tangentopoli o della sfilza di reati di Berlusconi. Le “toghe rosse” andavano bene contro i giovani ribelli, mai contro i nuovi potentati politico-economici.
La sconfitta della propaganda armata è stata parte integrante della sconfitta del movimento operaio, sconfitta decretata dal trionfo del neoliberismo. Meno Stato più mercato, meno diritti più sfruttamento, meno giustizia più controllo.
È stato detto che bisogna “acciuffare i latitanti“. Ma gli “undici di Parigi” non sono latitanti, sono rifugiati, legalmente, in Francia.
L’essersi sottratti alla cattura non costituisce di per sé un reato. I parenti delle vittime sanno che la giustizia italiana ha fatto il suo corso, che li ha condannati. Cosa si pretende di sostenere che giustizia sia vendetta, che l’una pretenda di essere la conseguenza dell’altra? Il richiamo della foresta della propaganda anticomunista ulula ancora forte.
Perché? È venuto in momento di dirlo chiaro.
La pandemia ha fatto morti tra coloro cui è stato sottratto il diritto alla Salute. Ha peggiorato le condizioni materiali di milioni di italiani, si calcola che l’esercito dei poveri sia aumentato di cinque milioni. I più colpiti sono le donne e i giovani, guarda caso proprio i ceti sociali protagonisti delle lotte degli anni Settanta. Ci sono 900 mila disoccupati in più. È stato calcolato che la transizione ecologica e digitale costerà 15 milioni di perdite di reddito.
E allora ecco: si mettono le mani avanti contro ogni tentativo di resistenza, di organizzazione, di progettazione politica alternativa. Si pestano i ribelli di allora come monito ai ribelli di oggi, ma soprattutto a quelli di domani.
Mattarella si è addirittura fatto portavoce di un anatema contro gli intellettuali, colpevoli di aver difeso i diritti degli imputati negli anni della grande repressione.
Il dissenso va bene in Cina, mai da noi, proprio come ai vecchi tempi, che andava osannato a Mosca, mai a Parigi, Londra, Washington, men che meno a Roma, Milano, Torino, Bologna o Padova.
Il gioco s’è scoperto. Adesso tocca fare i conti con i mesi a venire. Il che significa una cosa precisa: non appesantire del fardello del passato le lotte in atto, ma soprattutto quelle che sorgeranno. L’errore di avvitare il protagonismo di massa nella spirale della repressione come unico sbocco politico fu fatale negli Anni Settanta. È un errore che non deve essere commesso di nuovo.
Chi ha pagato il prezzo delle proprie convinzioni ha le spalle larghe, può resistere ancora all’arroganza del potere. Sa che le campagne forcaiole sono un segno di debolezza. Che “Gli anni di piombo” è un film di Margarethe von Trotta, che non parla di sparatorie, ma di carcere speciale.
Che anche “Ombre rosse”, nome dato all’operazione di cattura dei rifugiati italiani in Francia, evocato come suggestione contro la sinistra, è un film di John Ford, che narra la storia di un detenuto – Ringo, al secolo John Wayne – cui devono essere liberate le mani dalle manette per poter imbracciare il winchester e difendere la diligenza dall’assalto dei nemici.
C’è da favorire lo sviluppo di un nuovo agire politico, che deve rimanere leggero, ingenuo, avventato, pieno di energia, di speranza e utopia. C’è un verso di una canzone di De André: “Qui chi non terrorizza, si ammala di terrore.”
Facciamo che non succeda. È tempo di tornare realisti e chiedere l’impossibile, cioè non di pensare il già fatto. Non facciamo i furbi. Ne va del futuro della lotta contro la ferocia del capitalismo ai tempi della pandemia.
(In allegato, uno sberleffo alla Dc di Andreotti).
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