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TikTok, le soldatesse israeliane e il nostro sguardo coloniale

Forse vi sarà capitato di vedere le immagini di TikTok di alcune soldatesse dell’esercito israeliano. Ragazze bellissime, giovanissime, in divisa, con tanto di mitra al collo, che “traducono” i balletti più famosi inserendoli nella cornice sanguinosa di questi giorni.

Qualcuno ha parlato di “banalità del male” (Salem Ghribi), io vorrei provare a leggere un altro aspetto di questo tipo di propaganda, quello legato al nostro sguardo profondamente coloniale.

Cosa ci mettano davanti quelle immagini? Uno specchio, un autoritratto.

Da un lato ci siamo noi (nella nostra versione più giovane, più bella, più moderna), dall’altro ci sono loro. Come sono loro? Sono rozzi, sono arretrati – non lo vedi come strillano? Non lo vedi come invocano il loro Dio – il Dio dei massacri e del terrorismo-?

Gli ultraortodossi non vengono sbattuti in prima pagina: solo le giovani soldatesse, le bandiere in difesa dei diritti LGBTQ+, dell’ecologismo, per la difesa degli animali, e poi, per contrasto, per farci paura, le donne precocemente invecchiate, sdentate e stracciate, il velo, i kamikaze e le storie sulle vergini date in premio.

E allora, grazie a questo tipo di rappresentazioni, che umanizzano alcuni e disumanizzano altri, si va a legittimare l’idea che quello che si sta consumando in Medioriente in questi giorni – e negli ultimi Settant’anni – non è un’aggressione, nemmeno un conflitto: è una difesa, è una protezione, è la Battaglia di Poitiers.

L’”Oriente” ci minaccia, minaccia la nostra civiltà e i nostri valori e noi ci difendiamo (d’altronde la violenza occidentale si è sempre accompagnata a questi discorsi – penso alla campagna per il “di-svelamento” delle donne nell’Algeria coloniale degli anni Cinquanta).

I palestinesi sono brutti, sporchi, cattivi? Forse. Può essere che lo siano, come lo sono, spesso, gli oppressi, come lo sono tutti quelli che hanno dovuto masticare amaro e subire continue ingiustizie.

Cerchiamo di non dimenticare che tutto ciò che vediamo (e che non ci piace) di quel popolo e di quella terra – in primis l’avanzata delle frange più radicali e di Hamas e la difficoltà in cui versano le parti più progressiste, che hanno lottato e lottano per l’equità e la giustizia sociale – ci rappresenta, è frutto anche della nostra politica, della nostra complicità, di decenni di embargo, miserie e lutti causati proprio da quella parte – quella dei biondi, dei belli e dei puliti – nella quale ci piace tanto riconoscerci.

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