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Combattere veramente le delocalizzazioni

Secondo il famoso dizionario risorgimentale Tommaseo la parola legge viene dal greco “leghein” che vuol dire “scegliere” ma anche “dire” e cioè “le deliberazioni del popolo ne’ comizi, o finalmente perché suolesse leggersi in pubblico onde tutti l’apprendessero”.

E’ quanto hanno saputo fare i lavoratori della GKN: dato che la loro lotta ha portato il Governo a formulare una ipotesi di normativa “antidelocalizzazione” hanno risposto con lo straordinario slogan “non sulle nostre teste, ma con le nostre teste” indicendo per la notte del 26 agosto un “pubblico comizio”.

E chiamando in fabbrica i giuristi ci hanno consentito di capire che la portata esemplare della GKN non è nella modalità con cui è stata annunciata la chiusura come dice Bonomi, fingendo di non comprendere che la pernacchia del fondo Melrose colpiva ben prima lui ed il suo avviso comune contro i licenziamenti che non i lavoratori.

Il punto è che la GKN ha macchinari all’avanguardia, elevata formazione del personale, commesse in corso e materiali in magazzino più che sufficienti per continuare a produrre equilibrio economico e redditività. E il fondo finanziario che la possiede non intende ristrutturarla o convertirla ma chiuderla e abbandonare l’Italia!

E’ questo che ha spinto parte del Governo a comprendere che la legge che regola i licenziamenti collettivi, e cioè la legge 223, essendo del 1991 non aveva previsto ciò ed è quindi necessario ideare una procedura per le imprese che “intendono procedere alla chiusura di un sito produttivo .. per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne renda probabile la crisi o l’insolvenza”.

Vanno cioè introdotti obblighi di informazione e confronto in capo all’impresa per la creazione di un piano per minimizzare l’impatto della chiusura valorizzando lo strumento della “struttura della crisi di impresa” di cui alla legge 296/ 2006, n. 296.

Insomma un esercizio minimale di puro buon senso rispetto a cui le critiche confindustriali nulla dicono del merito ma solo della pericolosa inadeguatezza della rappresentanza che gli industriali si sono scelta. Ed anzi quello che appare evidente è che la meritoria proposta governativa, risulta carente di strumenti attuativi della finalità, pur espressa, di “salvaguardia del tessuto occupazionale e produttivo”.

Ed è inefficace l’apparato sanzionatorio, risultando ugualmente non spiegabili le proposte di quanti suggeriscono sanzioni per la mancata presentazione del “piano”, o l’inadempimento rispetto alle misure per la sua attuazione, di pura natura “economica” ma non indirizzate alle prime vittime di tale inadempimento, i lavoratori.

Insomma dall’assemblea è uscita la richiesta di non ripetere l’errore fatto con lo sblocco dei licenziamenti: mai più “impegno a raccomandare” ma norme chiare, cogenti e con adeguato apparato sanzionatorio capace di essere al contempo dissuasivo per chi non segue la procedura e risarcitorio per chi viene colpito dall’inadempimento.

Ma i lavoratori della GKN hanno costretto i giuristi ad andare oltre interrogandosi sull’istituto della proprietà d’impresa. Per il diritto romano la proprietà è uno “jus utendi abutendi”.

Ebbene è venuto il momento di dire che l’art. 41 della Costituzione al primo comma garantisce pienamente l’imprenditore nel suo jus utendi. Ma con il comma 2, laddove vieta un agire di impresa “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, nega lo ius abutendi.

E allora la conseguenza è che le imprese che intendano disimpegnarsi in via definitiva da un sito produttivo “per ragioni non determinate da squilibrio patrimoniale o economico-finanziario” possono venderlo, ma non procedere alla sua chiusura.

Quindi la procedura deve aprirsi dopo che già l’imprenditore abbia provato invano per un periodo congruo a vendere l’azienda e deve essere finalizzata a trovare un capitale industriale (eventualmente partecipato dallo Stato) disponibile a sostituire quello che intende disimpegnarsi.

Insomma la procedura non deve più essere finalizzata all’ordinata e socialmente mitigata espulsione dei lavoratori ma alla sostituzione del capitale sociale, eventualmente con il sostengo del pubblico non nella veste del cattivo espropriatore ma semmai del buon compratore di ultima istanza, ovviamente al ridotto valore che può avere un’azienda che il proprietario ha già deciso di dismettere.

Alla fine della procedura, insomma, dovrà partire un’unica lettera di licenziamento: per il fondo Melrose.

* da il manifesto

** la foto è di Andrea Tedone

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