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Promemoria post-elezioni, per chi c’era e per chi c’è ancora

Ci sono cose in questo dannato paese che sono rimaste irrisolte più o meno dalla fine degli anni settanta e per il sottoscritto lo spartiacque è un minimo di riflessione seria sulla svolta che avvenne alla fine di quel decennio, sulle sue origini e cause.

L’assenza di un’elaborazione di quel tornante storico da parte di un ceto politico residuale che ha continuato a tirare la giacchetta prima al PCI di Berlinguer, poi a tutti gli eredi di quel partito, per me è alla base dei disastri politici (elettorali inclusi) e culturali che tutte la varie formazioni della sinistra così detta “radicale” hanno causato proprio negli ultimi 40 anni.

Da allora, fuori dal baraccone ultraliberista che oggi si chiama PD, ci si è divisi tra comitatini elettorali arcobaleno che si sono contesi qualche cadrega e movimentisti puri che hanno predicato la lotta dura sempre e solo fuori dalle istituzioni come se fossimo ancora negli anni settanta.

E quelli erano anni in cui un movimento di classe fortissimo, a partire dalla fine degli anni sessanta, era stato in grado di condizionare tutto il quadro politico per un decennio ed a strappare conquiste e diritti che stavano scritti sulla Costituzione formale ma che i vari governi del dopoguerra, ancora impregnati di fascismo, avevano rimosso dalla Costituzione materiale.

Un movimento di classe, unico per forza e longevità in tutto l’occidente capitalistico, di operai e studenti, stroncato da una repressione capillare e feroce in cui il “caro” PCI ebbe un ruolo centrale.

Erano gli anni in cui lo scontro di classe, nel paese, si radicalizzava e maturava sempre più nel movimento la consapevolezza del tradimento da parte del PCI di tutte le aspirazioni di trasformazione politica e sociale che erano incarnate nella Resistenza al fascismo e nelle aspettative delle masse popolari del dopoguerra.

E proprio al culmine di questa fase di “statalizzazione” e mutazione genetica del PCI, mentre nelle strade e nelle fabbriche lo scontro di classe si faceva più acuto, alle amministrative del 1975, si presentavano Democrazia Proletaria che prendeva lo 0,89% ed il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (0,48%).

Non contenti, alle elezioni politiche del 1979, un nuovo cartello elettorale, la “Nuova Sinistra Unita”, cercò ancora una volta di raccattare i cocci della sinistra radicale riunendo tutti i gruppi alla sinistra del PCI: prese lo 0,8% e nessun parlamentare.

Gli anni ottanta furono anni di rimozione totale (con qualche importante parentesi) – il così detto “riflusso” – finché, nel 1991, nacque il Movimento per la Rifondazione Comunista (MRC) nel febbraio 1991, a Rimini, dove si stava svolgendo il XX ed ultimo congresso del Partito Comunista Italiano (PCI).

Quel movimento tradottosi presto in partito, voleva rappresentare la continuità con il grande PCI, almeno sul piano simbolico, con l’ambizione di “rifondare” nientemeno che il comunismo.

Dopo un periodo in cui aveva raccolto larghi consensi facendo da contenitore per tantissimi compagni in cerca di riferimenti alternativi al PDS e riuscendo anche a mobilitare centinaia di migliaia di persone, finì per fare da ruota di scorta al centro-sinistra nel corso della cosiddetta Seconda Repubblica.

Le due esperienze di governo sono del 1996 quando il PRC fornì appoggio esterno al governo Prodi I, provocandone la caduta nel 1998, e nel 2006 nel governo Prodi II.

Di mezzo, nel 1999, il bombardamento su Belgrado e nei giorni successivi le «operazioni», chiamate “interventi umanitari”: furono 500, durarono 78 giorni e scaricarono 2.700 tonnellate di esplosivo sulla Serbia non risparmiando civili e nemmeno le fabbriche comprese quelle italiane come la Zastava-Fiat.

Fu il governo D’Alema a decidere di partecipare alla guerra della NATO contro l’ex Yugoslavia e di quel governo facevano parte anche esponenti del PdCI (da cui gli attuali PC-Rizzo e PCI) che avevano sostenuto la linea contraria al ritiro del sostegno del PRC al Governo Prodi I (provocandone la caduta e l’ascesa di D’Alema).

Accecati dall’antiberlusconismo, alle politiche del 2006, si consuma il suicidio finale: slitten…. tutti nella stessa buca!

Incuranti degli errori (tragici) precedenti, nella Unione di Prodi che vinse per un pelo le elezioni del 2008, c’erano i Democratici di Sinistra di Piero Fassino; la Margherita di Francesco Rutelli; l’UDEUR di Clemente Mastella; i Verdi, di Alfonso Pecoraro Scanio; i Socialisti Democratici Italiani, di Enrico Boselli; i Comunisti Italiani con segretario Oliviero Diliberto, i Radicali Italiani, Rifondazione Comunista e l’Italia dei Valori di Di Pietro.

Dopo due anni di governo, i partiti che formavano la cosiddetta “sinistra radicale” avevano già dilapidato il 9% dei consensi. E pensare che appena tre anni prima, a Roma, si era svolta, a Roma, la più grande manifestazione contro la guerra imperialista di tutti i tempi.

E dal 2008 in poi, tutti i cartelli elettorali quali ” Sinistra l’Arcobaleno”, “la Federazione della Sinistra”, “Rivoluzione Civile”, “L’Altra Europa con Tsipras” e La Sinistra(1,8% alle Europee del 2018) inanellano una batosta dietro l’altra lasciando senza rappresentanza parlamentare non solo la “sinistra storica” ma anche tutti quelli che da quella non si sentivano rappresentati.

Ma soprattutto, viene a mancare una qualsiasi rappresentanza parlamentare alle classi subalterne di questo paese.

Ecco, Potere al Popolo nasce alla fine di questo percorso inizialmente come raggruppamento di forze diverse ma soprattutto come esperienza di rottura di un percorso la cui cifra era la coazione a ripetere gli stessi errori da almeno 30 anni.

Bisognava “fare tutto al contrario”, ovvero, non rifare né l’ennesimo partitino, né, tanto meno, l’ennesimo cartello elettorale a caccia di poltrone per un ceto politico in via di estizione in cui decidono soltanto le segreterie dei vari partitini.

PaP come movimento radicato nella società, fondato sul potere decisionale delle assemblee territoriali e che cerca di confrontarsi, nei limiti delle proprie possibilità, con il problema del vuoto di rappresentanza politica creatosi dopo il fallimento di tutti i cartelli elettorali “arcobaleno”.

E tuttavia, dopo appena 9 mesi dalla sua nascita, a Firenze, si riuniscono 200 dirigenti di Rifondazione che da mesi sparavano contro la segreteria del PRC “colpevole” di aver accettato il percorso di Potere al popolo e di non aver imposto dentro PaP la linea della costruzione di un non meglio precisato “Quarto polo della sinistra”, ovvero, l’ennesimo cartello elettorale in cui ci metti di tutto ma in cui decidono sempre i soliti noti a capo delle segreterie.

Il 28 ottobre 2018, il Partito della Rifondazione Comunista decide di abbandonare il percorso di costituzione di Potere al Popolo. Ancor prima c’era stata la scissione del (nuovo) PCI ed altre poi in seguito a quella del PRC.

E tuttavia, nonostante tutte le varie scissioni, identitarie o meno, Potere al Popolo, in questi tre anni di vita, ha continuato a crescere – soprattutto tra i giovani – e si sta fortemente radicando nei territori e dentro il conflitto sociale.

La marcia è ancora lunga ma la direzione è quella giusta.

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