Raoudha era una femminista, una compagna, una cittadina del mondo, ogni luogo, ogni paese dove si lotta per la liberazione è stato in fondo la sua patria.
Così su di lei il suo compagno di vita e di lotta Riadh, appena dopo esserci abbracciati ed aver condiviso le lacrime. Riadh ha fatto emergere, oltre la sua cortina forte e rude, la sua dolcezza profonda e mi ha fatto il dono di raccontare chi era Raoudha, non tanto per lui perché per lui semplicemente era tutto, ma per il mondo nel quale ha vissuto e sempre lottato.
Si erano conosciuti molto giovani nel loro paese d’origine, la Tunisia.
Riadh era ed è un comunista, cioè per quel paese un senza Dio e un fuorilegge, Raoudha era una funzionaria del ministro degli interni amica di sua sorella.
Era stupenda anche quando portava la divisa militare, nei periodi prescritti dalla legge per i dipendenti dei ministeri della sicurezza e della difesa. Ed era già una compagna, una femminista che si batteva per cambiare la condizione delle donne, come poi avrebbe fatto per tutta la vita.
Un suo primo impegno fu quello affinché negli ospedali venisse superato l’apartheid di sesso, i maschi curati solo da dottori maschi, le donne da dottoresse.
Di fronte a noi c’è un muro, ma quel muro non si abbatte con un colpo solo, magari con le bombe, quel muro si deve sgretolare pezzo a pezzo. Questo il principio di fondo che l’ha sempre ispirata.
Quando tanti anni dopo, in Italia, Daniela Santanché ha strappato lo chador ad una donna davanti alla moschea, mascherando un gesto razzista con un atto di finta emancipazione, Raoudha furibonda ha commentato: “con questo semplice stupido gesto ha distrutto anni del nostro lavoro. Così il muro è stato rafforzato“.
Perché quel muro che imprigiona la condizione della donna e la libertà di tutti è stato costruito nei secoli, e rappresenta anche una sorta di difesa dell’identità, se questa viene minacciata dal nostro mondo imperiale occidentale.
Solo la lotta quotidiana, solo il cambiamento che nasce da chi è oppresso sgretola quel muro. Noi in Italia abbiamo avuto il ’68 che ha scardinato tanti pregiudizi e aperto la via alla liberazione. Nulla dall’esterno può sostituire processi come questo.
Alla manifestazione a Piacenza per AbdelSalam, sindacalista egiziano della USB ucciso al picchetto durante uno sciopero, alla testa del corteo si erano messi tutti i suoi compagni di lavoro e sindacato, maschi. La moglie stava, come da tradizione, dietro.
Allora Raoudha andò a parlarle e alla fine la convinse a mettersi alla testa del corteo. Ecco, questo intendeva per sgretolare i muri. E per lei la liberazione dal dominio maschile non era mai separata da quella dal bisogno e dallo sfruttamento.
Se mi dai la libertà di portare la gonna, ma io non ho soldi miei per comprare la gonna, che libertà è?
Raoudha e Riadh emigrarono in Italia trent’anni fa e subito si sposarono. La loro è stata la vita dura dei migranti che devono adattarsi a qualsiasi lavoro.
Lui alla fine entrò nella logistica, e diventò militante sindacale della USB. Lei nelle cooperative sociali, occupandosi di tante condizioni dolorose e difficili e alla fine di malati terminali. Anche lei si impegnò nel sindacato, soprattutto per i diritti del lavoro precario e supersfruttato e contro l’esclusione sociale.
Ma dove collocare la sede della Federazione del sociale USB, in un luogo a parte o nella sede sindacale più importante?
Raoudha sostenne che chi vive e lavora nelle condizioni più ingiuste e difficili e deve sgretolare il muro del ghetto sociale, non può ritrovarsi in un ghetto nel sindacato. Deve poter incontrare ogni giorno quei lavoratori che han più diritti, più potere, che con la lotta conquistano rispetto. E deve vedere all’opera un’organizzazione sindacale che dia il senso dell’unione e della forza.
A questo punto del racconto di Riadh, ho ricordato che tanti anni fa, quando ero sindacalista a Brescia, venne a trovarci una delegazione di militanti sindacali dell’America Latina, che furono colpiti dalla nostra sede, dagli uffici, dall’organizzazione. Essi allora ci dissero che questo dava loro il senso della forza e del rispetto che deve avere il lavoro.
Ecco, Raoudha era davvero una cittadina del mondo e con gli occhi del mondo più sfruttato ed oppresso ha continuato a guardare alla vita qui da noi dove per decenni, finché il male non l’ha stroncata, ha partecipato ad ogni lotta.
Militava e discuteva in Non Una Di Meno, nel sindacato, nei movimenti contro le guerre, per la Palestina e per Cuba, sempre con lo stesso fermo punto di vista, con il suo cuore grande e con il suo sorriso ancora più grande.
Alla fine del racconto dopo Riadh ho abbracciato Nidal. il loro figlio ventenne che in perfetto romanesco mi ha detto: “a Giò, avanti con la lotta, come diceva mamma”.
Nidal vuol dire “lotta”. Il nome lo ha scelto lei, mi ha detto Riadh, salutandomi.
Addio, cara Raoudha.
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Sabato 23 ottobre, alle 16,30 al Centro sociale Intifada, in via di Casal Bruciato 15 a Roma, le compagne e i compagni potranno dare l’ultimo saluto a Raoudha
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