La voce della coscienza democratica del Paese ha scarse possibilità, ormai, di passare efficacemente attraverso le mura del Palazzo; ma tacere sarebbe peggio.
Un anno centenario tra i più nefasti comincerà tra poco, con premesse, se non assolutamente nefaste, certamente molto cattive. Un Parlamento poco prestigioso e poco rappresentativo si riunirà insieme con gli altri grandi elettori nei primi giorni del 2022 per eleggere il Capo dello Stato, cioè di chi dovrebbe essere credibilmente il supremo garante della Costituzione.
Ma, ormai, di quale Costituzione? Di ciò che malgrado tutto ne resta di autentico, o delle alterazioni formali e soprattutto sostanziali e consuetudinarie che la stanno rendendo sempre più lontana dai valori cui letteralmente ancora si richiama?
I personaggi più spesso nominati in questi giorni, vale a dire Mario Draghi e (nientedimeno) Silvio Berlusconi, portano il giudizio a pendere decisamente nella seconda direzione, che del resto appare seguita già da oltre un decennio nella prassi.
Il potere larvatamente e ben più che simbolicamente monarchico che la decisiva connivenza del suo partito permise a Giorgio Napolitano di esercitare, a partire dal malaugurato e malauguroso inizio dello scorso decennio, costituì la svolta decisiva.
Esattamente e puntualmente come il monarchico Hindenburg nella Repubblica di Weimar (infatti), questi alterò il sistema di governo imponendo a un Parlamento ancora più largamente connivente rispetto a quello dell’esempio citato un governo di sua scelta avente il compito di rassicurare innanzitutto gli investitori globali e molto meno la popolazione.
E inoltre, come il militarista Poincaré nella Terza Repubblica francese, espropriò di fatto il governo parlamentare nel perseguire e ottenere la guerra ad ogni costo (quella, allora, che sarebbe diventata la prima guerra mondiale, e quella, più recentemente e più modestamente, che avrebbe rappresentato il prestigioso contributo italiano al massacro della Libia).
Mattarella non ha fatto molto per correggere la rotta, anzi. Da qualche pesante veto verso possibili ministri sospettati di scarso ossequio verso i dettami euro-finanziari vigenti, alla finale ripetizione del modello di investitura extraparlamentare del governo inaugurata dieci anni prima dal predecessore, vi si è invece inoltrato ancora.
Non casualmente, del resto, insieme con quei due nomi, il brusìo proveniente dal Palazzo lascia udire di tanto in tanto discorsi circa nuove alterazioni della Carta, questa volta davvero enormi come la trasformazione della forma di governo da (ancora formalmente) parlamentare ad anche formalmente presidenziale.
Come orientarsi tra la padella e la brace (innanzitutto), e come poi valutare i sottili giochi che si svolgono entro il Palazzo quanto alle scelte da compiere? Finora, la coscienza democratica del Paese si è mossa e si sta muovendo (non si sa con quante speranze di trovare corrispondenza entro il Palazzo) soprattutto per deprecare e scongiurare l’elezione di Draghi.
E si comprende. Questi infatti ha scelto da tempo un preciso ruolo, in base al quale non sarebbe mai il garante di quanto resta della Costituzione di questa Repubblica democratica, ma semmai di quella che investe il governo di ottimati che la dirige da Bruxelles, e perciò del percorso di sempre più accentuate “riforme”, contro il lavoro e a favore del capitale, che quel governo esige.
Si può comprendere insomma che il nome di Berlusconi non abbia suscitato lo stesso immediato sussulto. Dopotutto, la sua demonizzazione (per quanti elementi potessero oggettivamente suggerirla) costituì a suo tempo un tale fattore di confusione e di diversione della contesa politica, e di tale efficacia, da suggerire attenzione ai molti e diversi che in un modo o nell’altro caddero nella rete a favore di una delle due destre in competizione nella cosiddetta “seconda” Repubblica.
Una delle quali, già in prima fila nel demonizzare secondo un ritornello simile al famoso “certo non volete che ritorni Jones” di Orwell, sembra oggi perfino disposta a cooptarlo entro un blocco “europeista” che “divida” il centro-destra, se non ad assecondare le sue ambizioni quirinalizie pur di scongiurare elezioni politiche anticipate che interrompano il lavoro benemerito del governo Draghi.
Mobilitarsi e mobilitare coscienze e quanto resta della rilevanza di uno spazio pubblico democratico contro l’ipotesi di Draghi al Colle non significa dunque preferire la brace alla padella, ma concentrare intanto e prima di tutto le forze contro il pericolo di un formale cambio di regime, tale da blindare definitivamente quello materialmente in atto da tempo.
In relazione al suo nome, infatti, non è probabile che vi sarebbero sostanziali contrasti nel Palazzo circa uno stravolgimento della Carta in senso presidenzialista alla francese, mentre lo stesso nome di Berlusconi (una volta arrivato, o vicino ad arrivare, al Colle) potrebbe riaccendere la competizione tra le due destre e suggerire a quella momentaneamente perdente di rispolverare qualcosa dell’armamentario moralista (certamente basato su fatti indiscutibili e gravi, per quanto convenienti come diversivo) utilizzato a suo tempo.
In tutti i casi, la decisione avrà luogo entro il Palazzo, e la voce della coscienza democratica del Paese ha scarse possibilità di passare efficacemente attraverso le sue mura. Tacere, tuttavia, sarebbe peggio ancora.
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