Lo spazio degli “interventi”, in qualsiasi giornale, quindi anche nel nostro, è il luogo della discussione tra punti di vista che non coincidono necessariamente con quello della redazione, ma rappresentano uno stimolo. Pongono domande, più che dare risposta. Come in questo caso. Anche quando danno valutazioni, su alcuni fenomeni, profondamente diverse dalle nostre.
Perché è evidente che il mondo in cui stiamo vivendo da due anni ha scoperchiato le ambiguità di quello in cui viviamo da alcuni decenni. Ma pur vedendo ognuno alcune delle singole “novità”, ancora nessuno sembra in grado di riconoscere la forma generale delle trasformazioni. E di dar loro un nome dotato di senso.
Che è poi la premessa indispensabile per rompere la gabbia e individuare la via della rivoluzione.
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A che punto della notte siamo? Nell’oscurità più nera e fredda, che precede l’alba livida? O solo nel mezzo di un buio fitto, denso, che pare eterno: il buio come nuovo presente, nuova forma delle cose.
Sono quasi due anni che questo paese vive dentro uno stato d’emergenza formalmente dichiarato e le forze di governo stanno dibattendo sull’eventualità di una ulteriore proroga – dibattito che si intreccia con quello sulla elezione del nuovo presidente della repubblica.
Lo stato d’emergenza è il liquido amniotico dentro cui qualsiasi governo ama sguazzare; in quella beatifica condizione il consenso parlamentare si addensa compatto intorno agli esecutivi; si possono finalmente bypassare leggi, procedure e persino principi costituzionali, mediante semplici strumenti amministrativi. Tutto può essere deciso, tutto può essere ratificato senza lungaggini, seccature e inutili finzioni di dibattito.
Chi aveva mai sentito parlare dei DPCM, prima di Conte? Eppure mediante questo tipo di atti si sono proclamati mesi di coprifuoco, come in tempo di guerra. Per non parlare di appalti e affidamenti di servizi – che in epoca di PNRR rappresentano l’unica e ultima ragion d’essere degli ectoplasmi affaristici che i tg ancora definiscono “partiti”.
Lo stato d’emergenza poi – ça va sans dire – è l’ideale modello di gestione di ogni conflitto sociale o opposizione reale: manganelli mediatici e manganelli reali diventano dispositivi legittimi, coerenti e funzionali, contro cui pochissimi osano protestare.
Sabato 11 dicembre – alla vigilia dell’anniversario di piazza Fontana – Milano ha celebrato il suo primo week end senza manifestazioni in centro; bottegai e cultori accaniti dello shopping, il giorno dopo hanno esultato a mezzo stampa: per 20 settimane di fila avevano dovuto subire l’invasione di torme indocili, spesso giovanili e periferiche, poco coordinate ma creative e parecchio tenaci.
I sabati milanesi hanno sorpreso tutti, osservatori e questurini, per tre mesi buoni. I no Green Pass arrivavano a frotte, all’improvviso, invadendo gli spazi sacri del commercio, le agorà dell’apericena e della boutique, come a mettere in discussione la finta normalizzazione inscenata dai media.
I giornali, il giorno dopo, hanno attribuito lo sgonfiamento della protesta “all’azione tempestiva delle forze di polizia che la settimana prima avevano spento sul nascere ogni focolaio di manifestazione, identificando decine di persone e comminando denunce e sanzioni”.
Se qualche smemorato non ha capito cosa significhi vivere nello stato d’emergenza, ritagli queste due righe e se le attacchi alla tastiera del suo pc: stavolta non sono gli sbirri robocop dei cattivoni Putin o Erdogan a “spegnere sul nascere i focolai”; stavolta avviene tutto sotto i nostri occhi, su circolare del Ministro Lamorgese e pubblico plauso mediatico.
Giovedi 16 dicembre la CGIL ha proclamato uno sciopero generale, che avviene nella modalità più tardiva, contorta e implausibile, della storia sindacale italiana. Uno sciopero senza piattaforma, alla vigilia delle festività natalizie, in cui il segretario della Cgil, più che un leader sindacale in lotta, somiglia a un pugile suonato, che per le troppe botte prese dimentica l’angolo di ring dove andare a sedersi.
Attraverso le interviste, il povero Landini prova a surrogare la mancanza di uno straccio di dibattito interno alla sua Confederazione. E più parla più si incarta, il segretario – ora aprendo ora chiudendo a Draghi, che come un basilisco sembra ipnotizzarlo – demoralizzando e confondendo quelli che gli scioperi li devono concretamente organizzare nelle fabbriche.
Giovedi si sciopererà provando ad esibire un certificato di esistenza in vita. Si sciopererà alla disperata, senza progetto, senza la benché minima velleità di impiantare una campagna di lungo periodo sui due o tre temi sui quali sarebbe urgente e necessario.
Si sciopererà dopo essersi autocastrati, con tutte le complicate trafile e proibizioni che impediranno a milioni di lavoratori giudicati essenziali (che smettono di essere essenziali il giorno 10 di ogni mese, a guardare la loro busta paga), di esercitare il loro diritto costituzionale all’astensione dal lavoro.
Si sciopererà mentre i dati, impietosi, confermano il disastro in termini distribuzione della ricchezza e di forza salariale e contrattuale delle classi lavoratrici italiane, epilogo di un ciclo lunghissimo di concertazione, sfociato nella stagione della disintermediazione finale.
Nessuno ai piani alti ha più bisogno di “grandi sindacati nazionali” – neanche nella versione più moderata e responsabile: non c’è nessun patto sociale dietro l’angolo, nessuna contrattazione sociale o politica dei redditi da inventare; il salario, la giornata lavorativa, il rapporto produzione/riproduzione, tutto è ormai irrimediabilmente destrutturato.
Anche la reazione all’annuncio dello sciopero, è stata tutt’altro che veemente: volete scioperare? Fate pure, chi se ne frega, ormai i buoi sono usciti dalla stalla e la rappresentatività sociale vi è scappata tra le dita.
In Cgil sanno che la realtà è questa, non stanno a raccontarsi frottole o rievocare mitologie. Lo scopo di tutto è la sopravvivenza, giorno per giorno, senza respiro o lettura di lungo periodo della società italiana. L’unico obiettivo praticabile è tirare su la saracinesca ogni mattina e giustificare l’esistenza di questo complicato baraccone, agli occhi dei sempre più disillusi finanziatori.
Se lo sciopero serve a guadagnare un po’ di tempo e un brandello di credibilità, allora si sciopera e si sposta la notte un po’ più in là. Rientrare ai tavoli di sottogoverno è sempre possibile, specie se non li hai mai davvero rotti. Tanto è già tutto deciso e un qualche strapuntino consultivo si trova sempre, per i vecchi amici.
Alla fine però gli scioperi è meglio farli: tutti, sempre. Perché lo sciopero appartiene ai lavoratori, non a chi lo proclama. E sempre, nella storia, la classe operaia ha utilizzato quello che ha trovato – gli strumenti e gli spazi disponibili, anche quelli improbabili o scalcagnati o sconfitti.
I lavoratori non hanno problemi di tessere o affiliazioni, usano quello che c’è. E se esiste una sola speranza che i malesseri incistati nel corpo sociale si incontrino e si parlino, ebbene questo può avvenire solo dentro la cornice di uno sciopero generale.
Gli scioperi si fanno: di base e non di base, e ci si sta dentro e si prova a scorgere le scintille potenziali che, anche sotto le polveri bagnate, possono diventare incendio e luce.
Alla CGIL saranno preclusi i tradizionali cortei in centro, nelle diverse città in cui concentrerà le sue iniziative – esattamente com’è stato per i movimenti del sabato pomeriggio. Perché è chiaro che le direttive del Viminale non guardano in faccia a nessuno, sono “pacificatrici ed emergenziali” a prescindere.
La domanda che invece potremmo porci è: sociologicamente, le due piazze – quelle anti GP e quelle sindacali – avranno punti di sovrapposizione o di intersezione? O fingiamo che siano due mondi incomunicanti, come se la società fosse un dispositivo a compartimenti stagni?
E’ una domanda complicata, che richiederebbe più piani di ragionamento; per rispondere ci vorrebbe la famosa “ricerca sul campo”, quella che in pochissimi, in questi mesi, hanno cercato di fare (vedi Andrea Olivieri con i suoi preziosi reportages da Trieste), perché costa fatica, produce dubbi e impone un continuo rimettersi in gioco.
Altra domanda che bisognerebbe porsi è: stante la sconfitta del movimento no-green pass, nonostante una durata e una estensione sociale non irrisoria, di quel magma popolare cosa resterà nei prossimi mesi? Rifluirà nei mille rivoli dell’individualismo liquido, della disperazione metropolitana, nelle insignificanti sette millenaristiche?
La difficoltà delle analisi politiche, non riguardano solo la fotografia del presente. Nelle settimane successive all’8 dicembre del 2014, in pochi si presero la briga di capire che fine avessero fatto i “forconi” sedicenti antisistema: eppure non erano scomparsi, avevano assunto un dinamismo carsico, comparendo e scomparendo, nelle viscere della crisi italiana, fino a contribuire al trionfo “populista” del 2018, inaspettato nelle dimensioni e negli esiti.
Quello che è certo è che in moltissimi territori si sono addensate isole chiuse di livore, paranoia e motivata indignazione; sono vere comunità in nuce, aggregatesi più che su una visione di qualche genere, sulla base di un rifiuto – anche qua sistemico, non più riconducibile alle sole scelte individuali, con numeri amplificati dall’uso delle reti, in cui piazze reali e virtuali si inseguono e si legittimano a vicenda.
In piccole città come Modena o Reggio, questi segmenti sociali hanno coinvolto migliaia di persone, spesso interi nuclei familiari.
La totale incapacità di darsi e dare un senso, un progetto, una direzione di marcia ed un’autorevolezza non complottista o disperante a questa movimentazione, non deve portare a sottostimarla. Va indagata, per non trovarci nella condizione di assistere all’emersione di nuovi attori politico-sociali che si agglutinano e si propongono come novità accattivante e “anti-politica”, magari offrendo prospettiva e rappresentanza anche dentro i bacini storici dei movimenti (vedi il rapporto maturato negli anni scorsi tra 5 Stelle e la Val di Susa).
I movimenti no green pass sono una cosa troppo incasinata, inafferrabile e contraddittoria, al momento, per tradursi in un qualche progetto politico futuro. Ma, forse, con questa modalità compulsiva, isterica e iperspontanea delle dinamiche sociali, dovremo imparare a misurarci, più che tapparci in casa sperando che passi presto.
Forse questa sarà la forma schizoide dei nuovi conflitti (per chi ha buona memoria e qualche copia di Metropoli in soffitta, se ne dibatteva già quarant’anni fa, quando eravamo meno choosy, più vivi, arditi e curiosi).
Del resto anche i gilet gialli – espressione politicamente ben più matura e corposa – non sembra abbiano partorito grandi prospettive politiche; e il loro esordio, per chi lo ricorda, fu anche bollato da una sinistra eternamente diffidente, come ambiguo e pericoloso: è stato solo grazie ad una battaglia politica interna combattuta da avanguardie coraggiose – compreso l’incontro di piazza con la CGT, mediato dai delegati di fabbrica –, a permettere una evoluzione compiutamente antiliberista dei GJ, depurando il movimento dalle scorie destrorse e dandogli il profilo che oggi viene riconosciuto a quell’esperienza.
Quindi, queste isole livorose nate dal contrasto al GP come finiranno? Si sfrangeranno e si spacchetteranno ulteriormente al seguito di improbabili profeti da tastiera, per i quali l’eterno reset capitalistico è più o meno un complotto? Gonfieranno i gruppuscoli di micro destra che hanno trovato campo libero, in quelle piazze? Proviamo a interrogarci.
Alla fine quel magma sociale sta esprimendo una criticità forte verso l’ordine presente delle cose, seppur nella modalità confusissima dei tempi presenti; è in massima parte formato e agitato da ceti piccolo borghesi urbani spaventati, impoveriti dalla crisi e atterriti dalle ombre fosche e potenti del comando, con il quale hanno impattato per la prima volta nella loro vita.
In questi mesi, a partire dal trattamento sanitario obbligatorio surrettiziamente imposto e dallo sfregio alla Costituzione, hanno maturato una confusa attitudine alla messa in discussione di equilibri generali che sentono ingiusti e pericolosi.
Si pongono domande sull’economia-mondo, sulle spirali di crisi in cui sentono di essere avvolti; dal vaccino passano a interrogarsi sui costi del caro energia, sulle delocalizzazioni, sui posti di lavoro che per molti quaranta/cinquantenni scompariranno nei prossimi due o tre anni; e cercano risposte in luoghi improbabili, sbattendo come pesci da una chat all’altra, da una piazza all’altra, in mancanza di interlocutori autorevoli e credibili.
E le migliaia di persone che invece scenderanno in piazza con la CGIL il 16 dicembre, che figura sociale incarnano? Saranno meno confusi, con riferimenti più saldi, parole d’ordine più chiare e interessi più delineati, rispetto a quelli delle “altre piazze”? O si tratta del medesimo esercito di naufraghi che, affondate le navi della modernità – partiti, sindacati, patti sociali – annaspano nelle acque limacciose, cercando un relitto, un approdo, uno scoglio a cui attaccarsi? Quelle piazze le consideriamo irriducibili le une alle altre, solo perché così è più facile per noi orientarci?
Intanto ricordiamoci che siamo tutti dentro un maledetto stato di emergenza – la vera notte della Repubblica – e che tra un po’ di anni forse dovremo rendere conto alle generazioni future, del silenzio complice e della cristiana rassegnazione, con cui stiamo accettando tutto questo come condizione naturale e necessaria.
* da Carmilla online
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