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La città perduta

Vi è qualcosa d’ideologico, di ancestrale e fatto di paure nella voglia d’armarsi a difesa delle cittadelle fortificate del proprio quotidiano. L’appello a sparar cinghiali, abbattere il lupo, scannare l”orso, non è dissimile dall’affondare la nave che fugge da disperazione, che è a preferenza morto per annego che accoglienza.

Tutto pare ricondursi a terrore puro d’invasione, invasione d’orrenda fiera a saccheggio di rifiuto, d’orrendo altro e reietto a rimetto in discussione stile di vita. Eppure l’uno venne a bussar alle porte della città che non ebbe più bosco per fare spazio a cemento, l’altro fu a condizione di schiavo e carne da macello per benessere di cittadino di posto civile, che casa sua fu messa ferro e fuoco da monocoltura e scavo di miniera per diletto d’altri che n’ebbero – a mistero fitto – paura.

Or dunque quelli è ad invito ad imbracciar arma, a difesa di magione, presa d’assalto dal proprio agire d’inconsapevole parassita. E la città da difendere diventa il simbolo più elevato del vero assedio che fu di paura e null’altro. E della città parlai, ed ora riparlo par pari, che a tentacolo s’estende a spazzar via residuo di civiltà umana e di natura.

Più per angoscia che per celia, m’appartiene la vista lontana della città presa d’assalto, dalle torme dei resilienti – non resistenti – in griffe gratta e vinci. Lo spazio urbano assembrato diventa fantasma della sua crescita indiscriminata, sempre più privato, sempre meno pubblico, sociale, definitivamente distanziato, come nei giochi d’ossimori si compete, tanto più è affollato.

Il reale, trasformato in immagine spettacolare, è quinta scenografica d’una rappresentazione farsa, in cui le mura cingono d’assedio gli assedianti, non più le mura di Campanella dov’è la storia della scienza, il progetto educativo condiviso dei destini magici e progressivi dell’uomo.

Le mura s’attrezzano a prigioni da cui non s’evade, ma dentro cui ci si rinchiude spontaneamente, sovvertendo l’ordine mentale costituito, quello che cerca l’orizzonte libero e di vertigine dello sguardo dell’animale in gabbia.

Dunque, l’animale in gabbia, alla catena, ha qualcosa di più umano dell’umanità stessa, poiché invoca per sé lo spazio aperto, rifugge dal pericolo mortale dell’assalto all’unisono alla stessa preda. Le immagini degli eloquenti muri della città ideale di Platone, sono ora grate elettrificate e luminescenti, gli orrori della merce che trabocca dalla caricatura d’una cornucopia di svendite morali e materiali.

Pure l’effimero, in quanto concetto, sparisce nelle celle delle fiumane umane, diventa superfluo necessario, vocazione definitiva alla barbarie annichilente.

Le architetture/prigioni delle periferie commerciali, e di dormitori, pure quelle di centri storici mercatizzati, non sono innocenti oggetti devitalizzati, ma espressione urlante del potere sociale che reclama le sue vittime. E se l’agnello o l’orrendo porco, s’avvedono del loro imminente sacrificio all’altare della tavola imbandita, con lacrima ed urlo straziante, il residuo umano vi s’immola con fanciullesca indifferenza.

La progressione verso la forma estrema del mercato, il narcisismo individualista, ha soppiantato persino le oscene gerarchie dei rapporti di produzione convenzionali. Ed il consumo diventa religione di stato, di sovrastato, religione della religione. Solo il lavoro rende liberi in quanto apre la via alla speranza redentiva del consumo, del consumo d’una merce, purché sia, pure solo nella sua percezione virtuale e fuggente.

Le città assaltate hanno perso ormai persino quel flebile richiamo al modernismo, financo superato le creazioni monolitiche della dittatura ceauseschiana, le volontà di Marinetti di deviare canali per affogare la vetusta Venezia, o Le Corbusier che anelava l’autostrada che spaccasse in due Parigi.

Gli spazi vitali non esistono se non nel sentire, ormai folle, di chi deraglia dalla “normalità” di chi è persona e non gente. La follia è solo di quei pochi che s’avvedono della malattia come dolorosa e furente.

La normalità – contrappeso di massa alla pazzia -, che osannava un tempo Davide e la sua povera pietra per millenni, ora è di giganteschi Golia splendenti d’armature invincibili, il cui unico desiderio è cancellare la memoria della fionda sotto il pesante tallone della propria poderosa ed indiscutibile stazza.

Guai ai vinti, soprattutto se s’atteggiano a ultimi, tanto più se proclamano la propria deviazione standard dal numero medio, se s’appigliano, resistenti, alla propria follia premeditata.

Dopo quello per Cola Pesce, non resta che recitare il de profundis pure per Giufà, che s’aggirava per le campagne, e negli occhi aveva la meraviglia per il tutto d’intorno, financo per un piatto di fagioli, con la pentola in testa, che non gli scappasse da quella l’innata sua passione per la follia che l’accomunava agli infiniti colori d’una umanità perduta.”

* da ChiedoAiSassiCheNomeVogliono

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