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Lamento per la caduta dei capobranco

Il gioco del calcio, in campo e fuori, ricorda spesso la lotta per il territorio e per la preda, etologia ancestrale e radicatissima nel bulbo rachidiano dei mammiferi predatori che cacciano in branco.

Una delle ragioni del successo (per usare un eufemismo) del calcio, che non è solo uno sport nel senso anglosassone del termine, ma è anche ludus comune agli animali predatori gregari (iene, leonesse, ecc) – trasposizione meno violenta della quotidiana lotta per la vita, il successo, la donna, la famigghia – è la presenza dei “Balenti”, dei capobranco che guidano la squadra alla vittoria, alla predazione della porta avversaria.

Giocatori che si distinguono non solo per abilità pedatoria, ma per coraggio, carisma, correttezza, cattiveria quando serve e solo quanto basta ma anche un po’ di più, petto infuori e urla di battaglia quando la va male o malissimo.

Il più capitano di tutti, su le maniche e ‘vadi come vadi’ negli assalti tremendisti, Valentino Mazzola; Gianni Rivera, Diego Armando Maradona, ma anche Passarella, Fritz Walter, Socrates: l’uomo-squadra, il capobranco, appunto – nella nostra mitologia d’accatto anche ridicola per chi non frequenta – in una sola parola: l’eroe.

E lo stringersi del cuore in maniera inesplicabile ma inevitabile, quando l’eroe inconcusso cade, abbattuto dal fato dei mortali che non risparmia neppure i più forti, porta commozione, sgomento, senso di perdita come fosse caduto uno dei tuoi.

Che poi, a pensarci, lo è davvero, uno dei tuoi, il capobranco: anzi, sei tu che – se almeno una volta hai urlato belluinamente alle sue imprese – sei uno dei suoi.

Sono state settimane tristi, per noi malati di calcio, di quello all’antesignano Massimo Decimo Meridio, per intenderci. Uno dei due più grandi campioni di tutti i tempi mai vissuto ci ha lasciato a 82 anni, il dispiacere mitigato solo pensando alla vita piena, compiuta, piena di bellezza che ha avuto O Rey Pelè.

Tricampeòn do mundo. Se chiedi ovunque nel mondo, massime nei paesi poveri, cos’è il calcio ad un ragazzino, ad uno di quelli coi muscoletti magri esaltati nella partitella per strada, ti risponderà “Pelè”, ti risponderà “Maradona”. Poco altro.

Più dura da mandar giù la scomparsa quasi simultanea di due campioni opposti ma in realtà così uguali, della stessa razza, due capobranco come Sinisa Mihailovic e Gianluca Vialli: abbattuti dallo stesso male che miete, ogni anno solo in Italia, non dimentichiamolo, duecentomila vite.

Pleonastico ricordarne le imprese: chi sa di calcio, le conosce. Per gli atri, sorrisino di compatimento.

Ricordiamo Sinisa capace di vincere la Coppa dei Campioni, ma non col Real o il Liverpool, ma con la Stella Rossa di Belgrado. Lo ricordiamo – da giocatore e da allenatore – capace di prender su per i capelli squadre scalcagnate e far fare loro grandi cose.

Elencatemi giocatori fuoriclasse capaci di farsi ricordare – nel tempo – più come allenatori miracolosi, orsù.

Ed ha avuto poco tempo, Sinisa, era ancor giovane, ma quello che ha fatto col Bologna e – vero grande miracolo – col Torino non è dimenticabile.

E ricordiamo Vialli, trascinatore della Samp e poi della Juve, per una nostra riconoscenza personalissima: implacabile nello sfanculare e sputtanare a sangue, senza mandarle a dire, tutto quel giornalistume fazioso e fintobuonista, rancoroso e col culo in perenne prurito, quando costoro fomentavano violenza tifosa e schifo con le loro merdose teorie complottiste.

Ogni episodio serviva ad alimentare le regressioni anali dei natural born losers, uno sporco e facile lavoro per il quale erano profumatamente extra-retribuiti “a Natale”, da quegli stessi “poteri forti” adombrati ad ogni piè sospinto.

E tu Gianluca, che avevi vinto tutto, che non avevi mai fatto il piangina anche quando affondavi, li mandavi sonoramente a fare in culo, ne mettevi in evidenza malafede e minorazione calcistica, senza paura di far l’antipatico: anche solo per questo, tacendo i cento trofei, io ti ho amato.

La Sampdoria campione d’Italia, vittoriosa in Europa, e quella ca**o di Champions che hai alzato a Roma, sacrodio.

Ed è un peccato, Gianduca, che non ci sei più per scherzare a sangue sulla piccineria penica di alcuni, pochi, ai quali auguriamo di incontrare Mike Tyson convinto che loro odino i ne*ri.

Elenchiamo solo alcune perle, e fra parentesi la necessaria risposta. Dedicata a voi due, affeziunatamente, dal qui scrivente Zucchetti Massimo fuStefano. Maradona è megl’e Pelè, Messi non è n’omm’e panza (e comme fa i bucchin’ soreta, nun ce stà nisciuna).

E Sinisa cattivo in quanto Serbo, amico di Arkan, che osa dire che la “guerra santa” del 1999 era un crimine (prescrizione: consumazione di tortino all’uranio e leucemia fulminante).

E Vialli “stronzo e pure evasore fiscale” (pure mammeta però nun pagava o pizzo nei trent’anni di marciapiede, veh).

Edson, Sinisa, Gianluca: avete volato alto, dalla curva correvamo in branco dietro di voi quando urlavate all’assalto, sopra tutte le infimità e l’ingiustizia degli uomini e del fato.

A noi, lupi giovani, avete insegnato bellezza. Goal, sacripante: gooooool!

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