Sotto il titolo “La Guerra fredda è finita, quale futuro per NATO e Occidente?” il Corriere della Sera dell’8 maggio ha pubblicato questo articolo dell’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano
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In un libro recente ho letto: «Di fronte alle genuflessioni e alle attenzioni servili riservate a Zelensky nei vari Paesi, mi chiedo come sia possibile che nessuno abbia ancora coraggiosamente provato a ricordare che in seguito all’implosione dell’Urss (e non alla vittoria degli Usa nella Guerra Fredda) la Nato prese a svolgere una costosa campagna acquisti di tanti Paesi portandoli tutti a giocare contro la Russia e arrivando al confini del suo territorio. Possibile che nessuno abbia ancora detto che così facendo si stava favorendo lo scoppio della Terza guerra mondiale?».
Sono le parole usate da uno storico, Giovanni Buccianti, in un saggio (Dalla Cortina di ferro alla Cortina delle provocazioni) e non piaceranno forse a parecchi lettori. Ma meritano di essere lette con attenzione.
Quando fu evidente, dopo il fallimento delle riforme di Gorbaciov e la nascita a Mosca di una Comunità degli Stati Indipendenti, che l’Unione Sovietica non era più in condizione di continuare a combattere la Guerra fredda, molti pensarono che in quel momento sarebbe stato possibile creare utili rapporti (non solo economici, ma anche politici e culturali) fra le democrazie occidentali e Mosca.
Qualcosa effettivamente accadde. Mentre il segretario del partito comunista e capo dello Stato era Michail Gorbaciov, il clima divenne promettente. Il 27 maggio 1997 fu siglato a Parigi e approvato del governo russo e dai Paesi aderenti alla Nato un atto fondatore che prevedeva l’allargamento della istituzione ad alcuni paesi dell’Est europeo (Repubblica Ceca, Polonia, Ungheria).
Nel testo era scritto che «Nato e Russia non si considerano nemiche», e «intendono sviluppare una collaborazione forte, stabile e duratura… lavorare insieme per contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale» sulla base di principi e scopi comuni: «democrazia, pluralismo, rispetto dei diritti umani, economia di mercato, rinuncia all’uso della forza, trasparenza reciproca per quanto riguarda la politica di difesa e le dottrine militari, prevenzione del conflitti con mezzi pacifici, in conformità con i principi dell’Onu, appoggio a operazioni di peace-keeping condotte sotto l’autorità del Consiglio di sicurezza o sotto la responsabilità dell’Ocse».
Ma occorreva anche trovare una collocazione politica per i Paesi che appartenevano alla Mitteleuropa e soprattutto a quelli (Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria) che avevano sempre avuto, volenti o costretti dalle circostanze geografiche, una maggiore familiarità con Mosca.
Molte iniziative vennero prese, ma fu presto evidente che le relazioni a cui i Paesi giunti dall’Est attribuivano maggiore importanza erano sempre quelle con gli Stati Uniti dove erano sostenuti da importanti colonie di vecchi Immigrati per cui il potenziale nemico era sempre la Russia e gli Stati Uniti erano considerati garanti della loro esistenza.
Fu subito evidente che tra i fondatori della Cee, già esistente dal marzo 1957, e questi nuovi arrivati vi erano alcune importanti differenze. Mentre alcuni avevano un concetto di unità europea maturato sin dagli anni della Seconda guerra mondiale, altri, spesso slavi, erano immigrati in Occidente durante il regime comunista del loro Paese.
Per questi Paesi la Russia restava una potenza nemica e la Nato, grazie all’America, l’amicizia di una grande potenza. L’Alleanza atlantica ha avuto una parte utile e rispettabile. Ma la guerra fredda è finita, il comunismo è sepolto, gli Stati Uniti hanno avuto un presidente come Trump e sarebbe giunto il momento di fare a meno di un’istituzione, la Nato, che ha ormai perduto le ragioni della sua esistenza.
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