Mentre in Italia si parla di “alluvioni siccitose” emerge sempre di più il ruolo strategico dell’acqua per l’umanità.
In Italia è sempre più evidente la criticità idrica: da un lato eventi piovosi eccessivi e violenti e fuori tempo rispetto al normale corso delle stagioni, dall’altro periodi di siccità sempre più lunghi anche in regioni solitamente umide e che mai avevano riscontrato questi eventi (vedi la siccità che da oltre un anno colpisce la pianura padana). Eventi opposti che mettono in ginocchio la sussistenza e sopravvivenza di intere regioni e comunità.
L’Italia è infatti uno degli hotspot a maggiore rischio idrico non solo nell’area Mediterranea ma nel mondo e questo porta subito a domandarsi come si porrà la gestione della risorsa idrica da qui al prossimo futuro.
Gli attori nel campo del Servizio Idrico Integrato sono tanti: dalle amministrazioni locali ai gestori, dagli enti regolatori all’intero indotto di privati a cui vengono affidati i lavori di gestione, manutenzione, costruzione etc.
La gestione stessa risulta inoltre estremamente eterogenea da Nord a Sud. Il 57% della popolazione è servita da un gestore unico del servizio pubblico, il 90% al Centro Nord, il 55% al Nord Ovest e il 52% al Sud. Al Sud è inoltre maggiormente concentrata la gestione diretta dei Comuni.
I fondi del PNRR destinati alla risorsa idrica, circa 4.4 miliardi di Euro (il 2 % del totale del Recovery Fund per l’Italia) hanno la potenzialità di mettere in discussione tutto l’apparato e l’organizzazione e permetterebbero di portare un contributo decisivo nel miglioramento dell’infrastruttura idrica, se non fosse in balia del sistema dubbio degli appalti.
Va ricordato che la rete idrica in Italia oggi soffre una obsolescenza e inefficienza (con il 60% della rete che ha più di 30 anni e il 25% che ne ha più di 50 anni) e a fronte di perdite ingenti: gli ultimi dati che risalgono al 2021 registrano perdite del 40% di tutta l’acqua distribuita dalle stazioni di distribuzione, che si traducono in 9000 m3 / anno a km di rete.
A questo si aggiunge la scarsità di partenza, l’incapacità degli impianti di trattamento e consentire una completa depurazione delle acque reflue e circolarità della risorsa, e in ultimo, la comparsa di cosiddetti “inquinanti emergenti” (microplastiche, PFAAS, medicinali) nelle falde e nei bacini da cui viene tratta l’acqua potabile.
Mentre accade tutto questo c’è però chi guarda altrove. Diversi think tank che accompagnano l’operato di gestori e regolatori del servizio idrico si soffermano sul peso in termini di PIL della filiera del SII.
Mentre nel ciclo idrico integrato si riuniscono tutte le operazioni di raccolta, trattamento, fornitura e gestione delle reti fognarie, se si considera invece il ciclo idrico esteso si includono invece tutti i fornitori di input (fabbricazione di apparecchiature per le reti di distribuzione, fabbricazione di macchinari e apparecchiature, costruzione di opere di pubblica utilità per il trasporto dei fluidi).
In termini numerici nel 2021 si è registrato un valore aggiunto del ciclo idrico esteso di quasi 10 miliardi di euro, paragonabile ad altri settori “forti” in Italia come farmaceutico e tessile, con un tasso di crescita 4 volte superiore alla manifattura. Il ciclo idrico esteso produce un impatto complessivo sul PIL di 25.5 miliardi di euro, mentre l’impatto diretto-indiretto-indotto sull’occupazione è di circa 270 mila posti di lavoro.
Di fronte a questi numeri e aggiungendo le “opportunità” da PNRR palesemente lievitano anche gli interessi in gioco. Ed è proprio per questo che c’è chi guarda ancora più lontano.
Giorgia Meloni, nel corso del suo ultimo incontro con il premier israeliano Netanyahu ha affermato che per la gestione delle risorse idriche in Italia si guarda al “modello-Israele” come paradigma di efficienza e di governance.
Israele ha accumulato negli ultimi decenni un impressionante know-how nel campo della gestione idrica e dei settori da esso dipendenti (primi fra tutti l’agricoltura) acquistando un primario a livello mondiale per cui pare far comparire l’acqua laddove non c’è.
Infatti nonostante un territorio storicamente tendente al desertico, è riuscito, con uno sviluppo avanzato di tecnologie come la desalinizzazione dell’acqua marina e salmastra e di sistemi di controllo capillare da remoto della distribuzione e del consumo dell’acqua in tutte le sue applicazioni (dal domestico, all’industriale, all’agricolo), a risolvere i problemi di water scarsity anche a fronte del tasso di crescita della popolazione israeliana.
La gestione della risorsa è completamente pubblica, in mano alla storica Mekorot, fondata nel 1937, quindi ben prima della “fondazione” dello stato israeliano, dimostrando quanto il controllo della gestione della risorsa idrica sia stato un tassello fondamentale nel progetto sionista di occupazione della Palestina e dell’oppressione della popolazione palestinese.
Da anni Mekorot è al centro di controversie di diritto internazionale, accusata di water grabbing (come descritto in un recente reportage del Guardian) nei confronti dei Palestinesi nei territori occupati così come nei territori palestinesi, con una sottrazione sistematica dell’acqua pro-capite distribuita – la stessa che permette alle attività israeliane, dalle coltivazioni alle industrie allo sviluppo metropolitano, di fiorire.
In Italia si procede a infittire le relazioni con Mekorot (vedi accordo tra Iren e Mekorot, ma anche gli incontri della Coldiretti con l’ambasciata israeliana) e con il beneplacito dell’Unione Europea si finanziano e portano avanti progetti di ricerca in cui Israele è partner quasi mai assente soprattutto negli ambiti della sostenibillità, dell’economia circolare e dell’ottimizzazione della risorsa idrica appunto.
Se è quello israeliano il modello da seguire si spiega la noncuranza di amministrazioni locali e nazionali ad ignorare e bypassare i risultati del Referendum del 2011 e a organizzare la gestione del servizio idrico in chiave, se non marcatamente privata, sempre più privatistica, al pari di un qualsiasi giro d’affari come altri.
I morti della Romagna di questi ultimi giorni provocano sgomento di fronte a una crisi climatica i cui effetti sono sempre meno prevedibili, ma allo stesso tempo rabbia di fronte a una gestione del territorio e delle risorse che, scientemente, non vuole affrontare il problema alla radice e preferisce riempirsi le tasche e rincorrere l’abituale armamentario emergenziale.
* Ingegnere ed addetta a sistemi idraulici
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Gianpiero
Scusate ma tutto un articolo che pareva parlare di geologia…….era solo il pretesto per attaccare Israele….
guardiamo al modello sud africa magari……
per inciso, l’acqua in Arabia è la più importante risorsa da sempre, dove è più scarsa è più preziosa, come per tutti i beni collettivi ,privati o come diavolo li vuoi identificare secondo il lessico del tuo modello filosofico.
Non è che sono arrivati i sionisti ad usare con perfidia (solitamente attribuita ai soggetti con naso alla etrusca) il controllo della prima risorsa della zona in cui dovevano vivere. Da quando ci sono i sionisti c’è più acqua in generale. Perchè per averla in maniera tale da poterla utilizzare produttivamente ci vuole lavoro. Non basta fare un buco,
Redazione Roma
Di questo articolo lei coglie solo un aspetto, come al solito, uno dei più contraddittori e dirimenti. Sul furto d’acqua ai palestinesi c’è una letteratura sterminata