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Vertice di Jedda. Il “resto del mondo” prende le misure sull’Ucraina

A Jedda l’Arabia Saudita fa sfoggio della sua nuova posizione, di un’alleanza di gran peso e durata allo sguardo degli occidentali e di interlocutore più che interessato per la parte del mondo organizzatasi sotto la sigla BRICS.

D’altronde l’India, appartenente ai BRICS ma attualmente in una lotta a sempre maggiore intensità con Pechino e Hanoi riguardo al prezzo dell’acciaio, dimostra alla più importante monarchia del Golfo che c’è spazio per “nuovi Erdogan” nell’accordo fra economie emergenti che hanno trovato mediazione e principio di coordinamento in questa importante assise internazionale.

Questo è il frutto dell’operare spregiudicato di una fazione interna della famiglia reale che, dopo aver raggiunto punti bassissimi nel rapporto con Washington, ora è uno stato con un “amministrazione” degna di poter ospitare un luogo di mediazione tra un ‘vecchio mondo’ aristocraticamente ostinato nelle sue più intime convinzioni ed un ‘resto del mondo’ col coraggio in poppa e disposto a parlare delle condizioni per un cessate il fuoco, ma che siano realistiche.

Il Brasile, attraverso le dichiarazioni dei suoi funzionari, lo fa presente subito alla platea, dichiarando- nell’ovvietà più lampante e spaventosa – che non si può parlare di pace o di cessate il fuoco senza l’opponente nella parte opposta del tavolo.

Lo stesso primo punto di un Medvedev che commenta a distanza, ma evidenzia per l’ennesima volta di non aver la caratura per potersi occupare ufficialmente di situazioni così delicate.

Brasile che d’altronde, nella dichiarazione presa per esteso, concede a Kiev lo stato di “maggior vittima di questa aggressione da condannare“, veleggiando ancora per le correnti equidistanti che hanno comunque prodotto questo tavolo, che sembra però più necessario agli occidentali che non al resto del mondo, anche se ciò non verrà mai detto dai dicasteri occidentali, già impegnati fin troppo nel presentare alle rispettive opinioni pubbliche l’inferiorità vistosa di Kiev sul campo come una ‘potenzialità bellica di vittoria’ sulla Federazione Russa.

Tra gli “acerrimus inimicus” della compagine occidentale è presente Pechino con Liu Hui, già ambasciatore a Mosca fino al 2019 , che può vantare una preparazione e una conoscenza della situazione di gran lunga superiore rispetto a quella dei relativi occidentali, con le dichiarazioni ormai di rito rese al mondo, una linea che rimane salda , anche perché, se analizziamo le proposte alla luce del contesto storico, è l’unica che abbia un senso.

A differenza di quella di Francesco, che indugia troppo nelle narrazioni padronali (la chiesa è sempre la chiesa, banale ma purtroppo non così scontato dirlo), le quali – visto il livello di scontro raggiunto – iniziano seriamente a cozzare con qualsiasi condizione posta nell’ipotetico tavolo di mediazione che continua a non arrivare.

Nonostante i toni positivi di Repubblica, che come al solito arrivano da oltreoceano, diventa sempre più un gioco ridicolo e nonsense credere alla buona volontà di Kiev in questa contingenza, propagandata dall’Occidente, quando contemporaneamente a questo assise internazionale si attaccano navi civili nel Mar Nero e si continua a discutere degli F-16.

Aerei che non si capisce esattamente come potrebbero risollevare la situazione nello spazio aereo interessato dal conflitto, considerando che il Cremlino, che ha seguito attentamente lo svolgersi dell’incontro, di tutta risposta ha intensificato i bombardamenti a medio lungo raggio sulle strutture dell’aviazione di Kiev.

Su tutto questo incontro, venduto dai media occidentali come un ‘successo’ vista la partecipazione più consistente rispetto a Copenaghen (e privo di una dichiarazione congiunta al termine, segno che il gap tra le posizioni è ancora ampio), aleggia l’ombra della situazione africana, ora maggiormente sensibile nella parte occidentale subsahariana, ma con importanti notizie che arrivano anche nel versante orientale, dove in Etiopia si sta assistendo ad un incrinarsi dei rapporti tra Amhara e governo centrale, che ha prodotto negli ultimi due giorni la mobilitazione di truppe nel nord del paese.

Il Niger sembra aver tutta l’intenzione di continuare imperterrito, sotto la spinta di una popolazione saldamente alla base di quelli che in occidente sono stati definiti golpisti e forte del supporto di Mali e Burkina Faso, rimpolpati dall’incontro a San Pietroburgo.

L’Ecowas, diretto dalla Nigeria, incassa dal senato di Abuja un “no” all’intervento militare.

Un “no” che sembra avere un bel peso anche per quanto riguarda il Benin, altro membro dell’ Ecowas non convinto dell’intervento diretto, e del Ciad, con un regime filo francese ma troppo interessato da problemi interni (come la migrazione in arrivo da un Sudan martoriato dallo scontro interno) per aver voglia di imbarcarsi in un’impresa del genere.

Gli indizi porterebbero a pensare ad un estensione dell’ultimatum, magari accompagnata da un ulteriore stretta alle forniture verso il Niger, per provare a strozzare questa fiera resistenza appena iniziata, come sembra pensare anche il nostro governo accattone, che stamane per bocca di Tajani fa aperture in questo senso.

Fatto sta che, viste le rinomate riserve di Uranio del paese africano e le implicazioni geografico militari, l’Occidente qualcosa dovrà fare, purtroppo, in questo quadrante.

Una necessità che va a sommarsi alle difficoltà concrete in quelli che dovrebbero essere i tavoli tematici posti da Riad ai partecipanti all’incontro di Jedda.

Una promessa di lavoro futuro già di per sé difficile, vista la presenza, in questi gruppi di lavoro tematico, delle questioni relative all’integrità territoriale e alla sovranità, oltreché alla questione sicurezza nucleare ed alimentare ad essa legate.

Punti che, a differenza di ciò che propaganda la vulgata nostrana, sono ben più spinosi per il vecchio mondo di quanto non lo siano per il resto del globo, impegnato genericamente nella difesa di queste prerogative internazionali, Mosca e Pechino in testa.

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